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mercoledì 3 febbraio 2010

Echi tridentini in letteratura: Carlo Porta in "On Funeral, el miserere"

Grande, grandissimo poeta, il milanese Carlo Porta (1775-1821). Al movimento romantico aderisce con piena convinzione ma a modo suo, privilegiandone gli aspetti schiettamente realistici; sua caratteristica inconfondibile è l’opzione per i diseredati, rappresentati con una partecipazione emotiva struggente, pur mediata da un sorriso ironico e autoironico; riesce invece a conservare – rispetto a tanti intellettuali coevi – un atteggiamento disincantato ed equilibrato nei confronti degli ideali politici grandi e piccoli. Dall’identificazione con gli umili discende la scelta del dialetto, strumento di espressione potente, ricco, variegato, capace di scandagliare e portare a incandescenza finezze psicologiche e scorci di vita mai visti, nell’universo della poesia italiana, dalla Commedia dantesca in poi. 
Cattolico anomalo (gli studi in collegio e in seminario lo allontanano dalla Chiesa gerarchica e da certe sue manifestazioni improntate a ipocrisia e corruzione), sa d’altra parte calare nella sua visione del mondo uno spirito naturaliter cristiano, non senza cenni che appaiono, in qualche modo, profetici. 
 Fra le tante, esclusi i grandi capolavori che purtroppo non si prestano alla nostra ricerca di “echi tridentini”, ho privilegiato una lunga composizione dell’autunno 1816 dal titolo “On Funeral”, sottotitolo “El Miserere”. 
E’ la n. XLV dell’opera completa, così come è stata organizzata e curata da Dante Isella. 
Il narratore, nel quale è facile riconoscere l’autore, sta tornando una mattina dal Verziere, dove si è mescolato con servi e accattoni alla ricerca di modi di dire tipici del popolo (ironicamente parla di “scuola di lingua del Verziere”), quando capita per caso nella chiesa di San Fedele, addobbata per un funerale d’alto bordo; entra, s’inginocchia e decide di partecipare al canto del Miserere insieme a un gruppo di preti parati per l’occasione. Il guaio è che i due preti a lui più vicini sembrano interessati a tutto fuorché al sacro rito: cominciano subito a chiacchierare fitto fitto, in dialetto milanese, di argomenti che vanno dalle vivande ai vini, dalla politica alle osterie, finendo poi per attaccar briga con un soldato francese che entra in chiesa a un certo punto. 
I versi in cui si accostano e accavallano le parole del salmo (in latino) e le chiacchiere dei due sciagurati (in milanese) sono efficacissimi e meritano – da parte dei non-milanesi – lo sforzo di accostarsi al testo originale, utilizzando la traduzione come sussidio saltuario. 
Presenterò prima il testo originale della poesia (una “canzone” a schema libero), sacrificando soltanto (per restare in termini ragionevoli) le prime quattro strofe, introduttive; il testo in milanese è in corsivo, le citazioni dal Miserere sono in carattere tondo. 
Di seguito propongo una traduzione italiana del testo dialettale, letterale per quanto è possibile.
In fondo, qualche nota. 
 « (...) Giust in quella che intravi even lì adree per daghela a cantà el Misereree; e mì ch’el soo anca mì, pondem dedree di pret in genuggion per ajutall a dì e profittà intrattant de l’occasion de fà on quaj poo de ben de mett inà per quand ghe sarà el cunt de comodà. Mò el credarissev, fioeuj, che hoo avuu bell pari a segnamm e a cercà de tend a mì, che no gh’hoo possuu proppi reussì! Gh’aveva de denanz duu strafusari de pret vicciurinatt ch’a ogni tocchell de salmo e de versett te ghe incastraven denter on tassell de descors de politega e polpett, de moeud che i mee intenzion de fà del ben hin andaa a fass squartà, né hoo possuu condemen de guzzà tant de orecc per dagh a trà. Ecco chì come faven; ma siccome v’hoo ditt che i pret cantaven, besogna donca, se no ve rincress, che me lassev anmì canta l’istess. Miserere mei Deus - E a disnà? secundum magnam - dò cossett o trè – misericordiam tuam et secundum multitudinem - de quist. E el scabbi come l’è? Et multum lava me ab injustitia mea, et a delicto – Eel car? - Puttasca! - e subet munda me - oh mì poeù el vin! - Tibi soli peccavi – s’el var pocch, me la cavi, et malum coram te feci... in sermonibus tuis, et vincas cum judicaris. Chì inscì per intermezz scora ona gotta de scira colda de la gestatoria che la sbrodola e scotta vun di duu sazerdott che l’eva in gloria. Soa reverenza el scrolla in pressa i did, sclamand: Che porca d’ona scira, cisti! e i olter canten, podend pù del rid, Ecce enim veritatem dilexisti. In seguet fan el nomm a paricc ostarij in dove gh’è vin bon, ost galantomm, e mejor compagnij. Vun loda l’ostaria de la Nos, l’olter el Monte-Tabor, e poeù tracch a dò vos Domine... asperges me... hyssopo... et super nivem dealbabor. Finalment ven de dent on militar che a l’abet el pareva on paracar, e lì tornen de capp: Vedel quell mèus? Libera me de sanguinibus Deus, Deus salutis meae, - che te possa vegnì la diarrea, porch fe o fo! - et exultabit lingua mea... Domine labia aperies, et os meum annuntiabit - birboni! - laudem tuam. – Oh per adess han pari a sbatt sti... Quoniam si voluisses sagrificium utique dedissem holocaustis - l’eva vora, gh’han ben la resca in gora – Cor contritum - no serv - et humiliatum Deus non spernit - la ghe passarà insemma con la spua - Benigne fac Domine in bona voluntate tua Voeurel mò dì? - Ut aedificentur muri Jerusalem - Gh’el giuri... Vedaremm... Ghe gionti sto sciloster se rivi a liberammen! On olter anca mì... - Et clamor noster ad te perveniat nunc et semper, amen. Me volzi allora in pee stuff e sagg de sta scenna, e ciappi post denanz l’altar maggior, e preghi nost Signor che in del me dì tremend del bulardee el daga a trà puttost ai dolor de chi paga i spes di esequi che a quij che canta de sta sort de requi.» 
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[Giusto nel momento in cui entravo erano sul punto di intonare il Miserere; siccome lo so a memoria anch’io, mi metto in ginocchio dietro i preti del coro per aiutarli e approfittare dell’occasione per fare un po’ di bene, da “investire” per quando sarà il momento di aggiustare i conti col Signore. Ma ci credereste, figlioli? Ho provato in tutti i modi a segnarmi e a raccogliermi fra me e me, ma proprio non ci sono riuscito. Avevo davanti due pasticcioni di preti “vetturini” che in ogni brano di salmo, in ogni versetto incastravano dentro un tassello di chiacchiere di politica e polpette, di modo che le mie intenzioni di far del bene sono andate a farsi squartare, e non ho potuto fare a meno di drizzare le orecchie e dargli retta. Ecco come facevano; ma siccome v’ho detto che i preti cantavano, bisogna dunque, se non vi dispiace, che mi lasciate fare anche a me la stessa cosa. “Miserere mei Deus” – E a pranzo? – “secundum magnam” – due cosette o tre – “misericordiam tuam et secundum multitudinem” – di queste. E il vino com’è? – “Et multum lava me ab injustitia mea et a delicto” – E’ caro? Puttasca! E subito – “munda me” – Oh io, poi, il vino – “Tibi soli peccavi” – se vale poco me la cavo – “et malum contra te feci... in sermonibus tuis, et vincas cum judicaris”. Qui, a mo’ d’intermezzo, cola una goccia di cera calda dalla gestatoria, che sbrodola e scotta uno dei due sacerdoti, che era in gloria. Sua reverenza scrolla in fretta le dita esclamando: Porca d’una cera, cisto! e gli altri cantano, non potendone più dal ridere: “Ecce enim veritatem dilexisti”. In seguito, fanno il nome di parecchie osterie dove c’è vino buono, oste galantuomo, compagnia meglio ancora. Uno loda l’osteria della Noce, l’altro il Monte-Tabor, e poi, dalli, a due voci: “Domine... asperges me... hyssopo... et super nivem dealbabor”. Finalmente entra un militare che all’abito sembrava un paracarro e lì tornano da capo: - Vedi quel ‘meus’? – “Libera me de sanguinibus, Deus, Deus salutis meae” – Che ti possa venire la diarrea, porco fottuto! – “Et exsultavit lingua mea... Domine, labia aperies, et os meum annuntiabit” – Birboni! – “laudem tuam” – Oh per adesso hanno pari a sbattere questi... – “Quoniam si voluisses sacrificium utique dedissem holocaustis” – Era ora, hanno ben la lisca in gola – “cor contritum” – non serve – “et humiliatum Deus non spernit” – Gli passerà insieme con lo sputo – “Benigne fac Domine in bona voluntate tua” – Mo’ vuoi dirlo? – “Ut aedificentur muri Jerusalem” – Glielo giuro... Vedremo... Ci rimetto questo cero se arrivo a liberarmene! Un altro anch’io... – “Et clamor noster ad te perveniat nunc et semper. Amen”. A questo punto mi alzo in piedi, stufo e sazio di questa scena, e prendo posto davanti all’altar maggiore e prego nostro Signore che nel mio tremendo giorno dell’ira voglia badare più al dolore di chi paga le spese delle esequie che non a quelli che cantano questa sorta di requiem.] 
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[Preti “vetturini”: sacerdoti senza cariche e incarichi, in cerca di servizi anche occasionali. “Gestatoria”: la candela che ogni corista teneva in mano durante il rito. Le osterie della Noce e Monte-Tabor esistevano davvero, nei pressi, rispettivamente, di Porta Ticinese e Porta Romana. “Paracarro”, e probabilmente anche “meus”, erano soprannomi collettivi con cui i popolani milanesi si riferivano ai soldati francesi d’occupazione (fino al 1814).] 
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 [Tutte le poesie di Carlo Porta sono liberamente scaricabili dal sito liberliber. Il testo integrale del Miserere, in latino e in traduzione italiana, in http://it.wikipedia.org/wiki/Salmo_51]
Giuseppe

4 commenti:

  1. Grandissimo compatriota!
    Sempre di suo, segnalo di qualche interesse/attinenza "la nomina del cappellan", uno spasso :-D

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  2. Proprio così, caro Ospite!

    Per chi non ce l'ha presente, ecco un indirizzo possibile: 
    http://www.milanesiabella.it/carloporta_lanominadelcappellan.htm

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  3. Per noi veneti il dialetto milanese, quando è parlato, suona molto familiare ed è generalmente abbastanza comprensibile. Altra cosa, invece, quando lo troviamo scritto, essendo, in tal caso, di comprensione più difficile. In effetti, devo ammettere di aver fatto uno sforzo notevole per riuscire a capire queste simpaticissime battute di Carlo Porta. Rievocazione di un mondo popolare, semplice, che ricorda una Milano quasi rurale ancora esistente fino a pochi decenni fa, quando il Milanese era parlato da tutti. La Milano di Carlo Porta un pò come la mia Venezia goldoniana: due civiltà sorelle, la lombarda e la veneta, strettamente imparentate per la cultura bonaria, solidale, estremamente civile e laboriosa, dove anche la religiosità era un elemento molto importante, oggi un pò sbiadito. Non dimentichiamoci che, nel solo XX secolo, Lombardia e Veneto hanno dato ben cinque Papi alla Chiesa!

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  4. Porta ci offre un'occasione per constatare che non tutto nella Chiesa preconciliare andava a meraviglia
    ( Rosmini "Le cinque piaghe della Chiesa" ). Del resto non poteva essere diversamente: la Chiesa, oltre all'elemento divino, è caratterizzata da quello umano, che è soggetto non solo che all'onere di scegliere la via del bene o del male ( o quella di uno "slalom" tra i due ) ma anche ai condizionamenti psicologici e sociologici, da una educazione scarsa o cattiva a una "scelta di stato" viziata in partenza ( farsi prete per la pagnotta, come succedeva allora ). Visto che "corruptio optimi pessima" non c'è molto da meravigliarsi che Carlo Porta sia diventato anticlericale. D'altra parte bisogna ricordare che Newman durante un suo viaggio in Italia prima di farsi cattolico rimase edificato dalla grande pietà dei Milanesi ( sul blog Messainlatino, mi pare ).

    Rimane da notare che ancora una volta  il rapporto fra umano e divino si esprime, esteticamente, nell'accostamento fra i liveli stilistici del "sublime" e dell'"umile" ( Erich Auerbach in "Mimesis" ). Così, nei Vangeli, la Gloria e la Croce, lo splendore luminoso e le piaghe e gli stracci dei sofferenti... Così, in san Francesco, Fratello Sole con sorella Luna e il rozzo saio... Così in Jacopone da Todi... Così nella "Divina Commedia", percorsa dal terragno popolano Benigni dalla fossa dell'Inferno ai Cieli splendenti del Paradiso.Lo stesso Dario Fo, sulla scia di Victor Hugo, rappresenta l'elemento popolaresco-giullaresco sullo sfondo della cattedrale. L'accostamento umile-sublime si evidenzia soprattutto nel Caravaggio: la luce nell'osteria, l'eucarestia nell'osteria, una rovinosa caduta da cavallo e ancora la luce radente, i pellegrini con i piedi sporchi in preghiera davanti a Maria... Un accostamento ripreso da Pasolini nel più bel film su Gesù "Il Vangelo secondo Matteo". Un codicillo finale: che il western all'italiana, per vie occulte o meno ( Sergio Leone fu aiuto regista in "Ben Hur "  e il grandioso funerale di Pio XII sfilò davanti alla troupe ) traduca lo stesso accostamento: facce sudate e sporche, abiti impolverati e rimbalzi verso il sacro: "I quattro dell'Ave Maria", "Lo chiamavano Trinità", "Dio perdona, io no" perfino "Jesuit Joe". Che si sia dato vita a un "Western cattolico", concepito a Roma, filmato in esterni in Spagna? Le osservazioni anticlericali di Porta trovano un corrispettivo ancora più robusto in Belli. Anche qui il "popolaresco" si staglia sul "grandioso" della vita di rappresentanza della capitale del Cattolicesimo e qualche volta fa comparire anche il sublime, come nel sonetto sull'angoscia per l'eternità dell'Inferno "Qua nun se scappa: o semo giacubbini, o credemo a la legge der Zignore..." ( ricordo a braccio ). Lo stesso Luigi Magni, con tutte le sue prevenzioni bolsamente anticlericali, sfrutta questa formula estetica ( "Nell'anno del Signore", "In nome del Papa Re", "Arrivano i Piemontesi" ). Non parliamo, anzi parliamo del trionfale "Il marchese del Grillo", con espressioni di questo tenore. La marchesa madre, tanto autoritaria quanto devota: "Ricordati che il tuo Napoleone, avendo osato mettere la mano sopra la sacra persona del pontefice, presto o tardi finirà col culo per terra..."

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