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domenica 21 febbraio 2010

Echi tridentini: Giuseppe Tomasi di Lampedusa, "Il Gattopardo" (1958)

«”Nunc et in hora mortis nostrae. Amen.La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz’ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Gloriosi e Dolorosi; durante mezz’ora altre voci, frammiste, avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d’oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte (...)». 
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.E’, questo, l’incipit di un bel romanzo scritto e pubblicato una cinquantina d’anni fa: Il Gattopardo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957). E’ ambientato nella Sicilia di un secolo prima: protagonista una famiglia di antica nobiltà, coinvolta nel delicato passaggio storico dalla monarchia borbonica a quella sabauda, da una pasticciona dinastia cattolica a una spregiudicata dinastia massonica. Il primo capitolo, datato “maggio 1860” (il giorno 5 di quel mese, ricordiamo, salpavano da Quarto di Genova i Mille in camicia rossa), si apre con le righe sopra riportate e si chiude, dopo un giro di 360 gradi, così: 
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  «La famiglia si andava riunendo. La seta delle gonne frusciava. I più giovani scherzavano ancora fra loro. Si udì da dietro l’uscio la consueta eco della controversia fra i servi e Bendicò, che voleva ad ogni costo prender parte. Un raggio di sole carico di pulviscolo illuminava le bertucce maligne. S’inginocchiò: “Salve Regina, Mater misericordiae.”» 
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 Bella questa struttura narrativa circolare. Ma bisognerà precisare che è un ben strano Rosario quello che scandisce i pomeriggi nel palazzo dei principi Salina. Chiarito che Bendicò è il cane di famiglia e le bertucce maligne fanno parte degli affreschi del salone, quale Rosario è mai quello che comincia con la Salve Regina e si chiude con un’Ave Maria? e che considera i misteri gloriosi, poi inopinatamente quelli dolorosi, e d’un balzo salta quelli gaudiosi che dovrebbero invece essere i primi? Viene da pensare che nel momento in cui si accinge a scrivere il romanzo (l’unico) della sua vita Giuseppe Tomasi conserva un ricordo molto vago e impreciso di quella mirabile preghiera.
Più interessante, forse, sarà rintracciare nello scheletro del romanzo il vero tema intorno a cui a mio parere ruotano tutti i significati accessori. Al riferimento alla morte presente nella prima riga, troviamo un riscontro letterariamente molto bello nelle ultime parole dell’ultimo capitolo: mentre la carcassa imbalsamata del povero Bendicò veniva gettata via, “in un angolo del cortile che l’immondezzaio visitava ogni giorno”; gli occhi di vetro sembravano fissare la vecchia e sfatta padrona di casa “con l’umile rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare. (...) Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida”.
La prima parte del romanzo è segnata da un’immagine fortemente contraddittoria: il bellissimo giardino del palazzo, coi suoi fiori rari e gli effluvi caratteristici, è guastato irreparabilmente dal ricordo del fetore che emanava un mese prima dal cadavere di un povero giovane soldato, ferito in una scaramuccia fra esercito borbonico e ribelli e venuto a morire, strascinandosi chissà perché, “solo, sotto un albero di limone. Lo avevano trovato bocconi nel fitto trifoglio, il viso affondato nel sangue e nel vomito, le unghie confitte nella terra, coperto dai formiconi; e di sotto le bandoliere gl’intestini violacei avevano formato pozzanghera”.
Non meno contraddittoria appare l’altra immagine che caratterizza invece l’ultima parte del volume: il rapporto fra il nuovo mondo dei vincitori (Angelica e Tancredi) e il vecchio mondo dei vinti (il principe protagonista) trova luminosa espressione in un momento in cui tutta la vicenda sembra sospesa in un’immobilità quasi onirica: la carrozza principesca, splendente di bellissime diafane fanciulle impeccabili nelle loro splendide toilettes [peraltro, “venute da Napoli nelle lunghe cassette nere simili a feretri” (!)], è bloccata, nel suo itinerario verso il gran ballo del più importante salotto palermitano, da una scena d’altro pianeta: 
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si sentiva un gracile scampanellio e da uno svolto comparve un prete recante un calice col Santissimo; dietro, un chierichetto gli reggeva sul capo un ombrello bianco ricamato in oro; davanti, un altro teneva nella sinistra un grosso cero acceso, e con la destra agitava, divertendosi molto, un campanellino d’argento. Segno che una di quelle case sbarrate racchiudeva un’agonia. Era il Santo Viatico. Don Fabrizio scese, s’inginocchiò sul marciapiede, le signore fecero il segno della croce (...)”.
[Il principe tornerà, nell’ultimo giorno della sua vita, a sentire il tintinnio del campanello d’argento, che accompagnerà il Santo Viatico chiamato, stavolta, per lui: “il mento, a quanto sembrava, gli poggiava sul petto perché il prete dovette inginocchiarsi lui per insinuargli la particola fra le labbra. Poi furono mormorate le immemoriali sillabe che spianano la via, e il sacerdote si ritirò”.] 
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 Se, come sembra, è il paradosso la cifra fondamentale del romanzo (“Se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi”), non meno paradossali appaiono anche alcuni aspetti della vita dell’autore e della “fortuna” dell’opera sua. Uomo schivo e riservato quant’altri mai, Tomasi si trovò carico (a partire dal 1934, data della morte di suo padre) di una sfilza di titoli da far invidia ai bolsi e pomposi governatori spagnoli su cui ironizza Manzoni nella sua “storia milanese del secolo XVII”: principe di, duca di, barone di, (bis)barone di, Grande di Spagna di I classe eccetera. Con tutti i suoi titoli, morì senza esser riuscito a veder pubblicato il suo romanzo: Mondadori ed Einaudi declinarono; in particolare, per quest’ultimo editore, colse brillantemente l’occasione per fare una pessima figura un intellettuale valido (e mediocre scrittore) di nome Elio Vittorini.
Lo pubblicò, postumo, un volenteroso editore di sinistra di nome Giangiacomo Feltrinelli, sollecitato (sempre paradossi) da Bassani ed Elena Croce: ci fece una montagna di soldi e lanciò definitivamente un’etichetta editoriale destinata a successi clamorosi e polemiche furibonde. La critica comunista massacrò Il Gattopardo (o meglio: ci provò), indifferente al fatto che invece in Francia tutta la cultura di sinistra gridava al miracolo letterario. Paradossi anche per quanto riguarda la nostra ricerca di echi tridentini. Il raccolto è, tutto sommato, abbastanza deludente. Abbiamo già visto l’incipit con l’improbabile Rosario di casa Salina. Non meno curioso è, nel secondo capitolo, l’ingresso del Principe e della sua famiglia nella cattedrale di Donnafugata, cuore del devoto feudo principesco:
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 “come voleva l’antichissimo rito (...) prima di mettere il piede a casa dovevano ascoltare un Te Deum nel Duomo”. Ed ecco il momento culminante: “i mortaretti sparavano mentre si saliva la scalinata, e quando il corteuccio entrò in chiesa, don Ciccio Tumeo (l’organista), giunto col fiato grosso ma in tempo, attaccò con impeto Amami, Alfredo”. 
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In chiesa un’aria “scandalosa” dalla scandalosa Traviata di Verdi?!? Ba’! Tanto più che ad essa fa seguito un rapido fervorino dell’arciprete e poi via tutti. E il Te Deum dell’antichissimo rito? Non c’è molto altro. Tanto che a lungo ho pensato che non valesse la pena inserire Il Gattopardo in questa nostra rassegna. Ma poi, proprio nell’ultimo capitolo, mi sono imbattuto in un paradosso davvero da primato. Morto il principe, le “ragazze” di casa, ormai zitelle vecchie e sfatte, ricevono la visita del vicario dell’arcivescovo di Palermo, che su disposizione della Santa Sede sta ispezionando tutte le cappelle private dell’archidiocesi, e in particolare le immagini e le reliquie ivi venerate. Quando si fa il nome del Sommo Pontefice (Pio X), una delle anziane padrone di casa non riesce a trattenersi. 
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«Carolina infatti faceva parte di quelle schiere di cattolici che sono persuasi di possedere le verità religiose più a fondo del Papa; ed alcune sue moderate innovazioni, l’abolizione di alcune secondarie feste di precetto in ispecie, la avevano già prima esasperata. “Questo Papa dovrebbe badare ai fatti propri, farebbe meglio”. Poiché le sorse il dubbio di essere andata troppo oltre, si segnò, mormorò un Gloria Patri.»

E quando, qualche giorno dopo, l’arcivescovo in persona – sia pure con molto tatto – declassa un’immagine presunta miracolosa, fa eliminare decine di reliquie false e dispone la necessaria riconsacrazione della cappella, la stessa Carolina, “con le mascelle serrate e gli occhi saettanti” commenta – in privato – “Per me questo Papa è turco”.
Una “tradizionalista”, a suo modo.
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Ah, a proposito: il Papa allora regnante si chiamava Pio X. [Il Gattopardo, edito per la prima volta nel 1958, premio Strega 1959, è tuttora (anche in economica) nel catalogo della Feltrinelli.]
Giuseppe

15 commenti:

  1. Vogliamo i colonnelli21 febbraio 2010 alle ore 13:22

    Chi conosce la storia di san Pio X, saprà che ha combattuto a lungo per contrastare il disagio di una decadenza liturgica che era prosperata soprattutto nell'800. Il M.P. "Tra le sollecitudini" esprime lo stato dell'arte: nel 1903 ormai la decadenza liturgica era tale che la Santa Sede non poteva più evitare di trattare d'autorità la situazione.

    In particolare, era frequente l'uso di cantare i salmi, gli inni e i canti della messa, sulle note delle più popolari composizioni operistiche (forse anche un modo che i poveri avevano per istruirsi alla cultura musicale, ascoltando in chiesa quello che i ricchi sentivano in teatro), con evidente perdita del senso del sacro e spettacolarizzazione della liturgia.

    Ogni epoca ha la sua musica: l'800 ha Verdi, gli anni '70 hanno gli Intillimani e Guccini. Sicchè, la liturgia ottocentesca è verdiana, e quella kitch degli anni '70 è dominata dalle chitarre. Nihil sub sole novi.

    Ovviamente, Verdi ha una dignità maggiore degli Intillimani, per cui, dissacrare il Culto con le note della Traviata non fa lo stesso effetto repellente di dissacrarlo con le chitarre di Kiko e dei Gen, che si ispirano ai barbudos cantautori comunisti della contestazione.

    In ogni caso, la riforma era necessaria, appunto per restituire al culto la sua funzione di essere un culto, e non uno spettacolo di intrattenimento.

    Non appare quindi affatto fuoriluogo l'associare la traviata al Te Deum (basta ascoltare le opere organistiche pensate per la liturgia di p. Davide da Bergamno per farsi una idea di cosa si sentiva in una messa cantata), che anzi è una ragionata e corretta analisi dello stato della liturgia ottocentesca (forse descritto all'autore appunto dal nonno che ispirò il personaggio di don Fabrizio).

    Appare invece fuoriluogo definire "tradizionalista" Carolina perchè vuole saperne più del Papa e perchè ne critica i provvedimenti: al contrario i "tradizionalisti" d'oggi, fanno a gara a prodursi in leccate e giustificazioni illogiche di tutto quello che il papa fa, a partire dal nefasto motu proprio che in cambio della agognatissima pianeta di spalle, costringe a credere che quello che si crede ora è quello che si credeva prima, che non vi è mai stato cambiamento, e che le due messe hanno la stessa teologia (sarà stato massone anche san Pio V).

    Della serie, bisogna che cambi tutto perchè tutto rimanga com'è.

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  2. Siamo sicuri che i fatti del famoso romanzo fossero inquadrati all'epoca di Pio X ?
    Storicamente la vicenda della Famiglia si svolge durante la conquista piemontese del Regno di Napoli.
    Io avrei citato anche la frase " "Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi!" perchè si potrebbe inquadrare nelle tristi vicende post conciliari.
    Nel momento in cui tutti invocavano radicali cambiamenti ecclesiali vennero sacrificate solo la Liturgia ed altri aspetti cerimoniali , da loro ritenuti secondari, per salvare il salvabile ( secondo loro ) e, guarda caso : "Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi!" .
    E' la classica manciata di sabbia sugli occhi.
    Onore al genio del Principe Tomasi di Lampedusa.

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  3. Nobis quoque peccatoribus21 febbraio 2010 alle ore 14:32

    Caro Porf. Carradori,
    solo una parte del romanzo si svolge nel 1860.

    Oltre quelle citate, non poche cose dell'opera mi hanno fatto riflettere. I siciliani, come noto, amano alludere.

    La descrizione della visione notturna di Palermo, con le ombre "minacciose" dei conventi.Un'allusione alla "setta' lasciata cadere quasi per caso. Don Fabrizio che parte per andare a visitare una prostituta accompagnato dal proprio confessore, Padre Pirrone (scaricato pochi metri prima della meta del principe). La scena della dissacrazione del convento di monache di clausura raccontata da Tancredi a tavola.
    FdS

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  4. Caro Andrea,
    le vicende del romanzo prendono le mosse nel maggio 1860, e questa è la data che appare in testa al primo capitolo. Ma col susseguirsi dei capitoli le date procedono con questa scansione:
    - agosto 1860
    - ottobre 1860
    - novembre 1860
    - febbraio 1861
    - novembre 1862
    - luglio 1883 (la morte del principe)
    - maggio 1910.
    E' a quest'ultima data che si riferisce la citazione relativa a San Pio X.

    Sulla maliziosissima estensione postconciliare della nota frase, onore all'ingegno di Andrea Carradori!  ;)

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  5. Ho letto  il romanzo ed ho visto il Film.  Per quanto possano essere imprecisi i riferimenti liturgici, mi ha sempre colpito il senso di una religiosita' che permeava  completamente la societa' dai vertici al ceto inferiore. Una religiosita' anche superficiale, cinica, usa e getta.
    Ma esiste anche  oggi.  Quanti servono la Chiesa e quanti si servono della Chiesa?

    Direi che gli uomini del Gattopardo vivono sotto un cielo che appartiene ancora a Dio.  Gli uomini di oggi pensano che anche il Cielo gli appartiene perche' loro stessi sono diventati DIO.

    Insomma i personaggi del Gattopardo hanno ancora dei tratti umani.

    Per quanto riguarda l'osservazione circa la "pasticciona dinastia cattolica" vorrei far presente che i Borboni a  Napoli lasciarono casse piene e finanze statuali decenti.
    Per contro lo stato di Sardegna, aveva le casse prosciugate, e  la guerra a tutti gli altri legittimi regni, era cmq necessaria anche per nn far bancarotta, come la Pelliciari, ha ben messo in evidenza.
    Inoltre la ricchezza manifatturiera di Napoli era un'altra perla economica, distrutta con l'unita'.

    Ironia della sorte, lo stato unitario di oggi e' proprietario di uno dei debiti piu' grandi del mondo. Il recente rialzo dei tassi di interesse americani, segna l'avvio della guerra sui mercati finanziari per la raccolta di nuovi capitali tesi a finanziare nuove emissioni, in un contesto di ZERO ripresa industriale.

    Riusciranno i nostri prodi ad evitare la bancarotta?

    Quanto ci e' costato un unita' di italia fatta a tavolino e sulla pelle di milioni di persone.

    E ancora si paghera' questo folle disegno.

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  6. GLI ECHI TRIDENTINI C'ENTRANO, ECCOME!

    1) la famiglia Tomasi di Lampedusa nel periodo della piena Controriforma si segnalò per insigne pietà. L'erede del titolo, Giuseppe Maria Tomasi ( 1649 - 1713, mi pare ) rinunciò alla successione per farsi teatino e con la sua vita esemplare accumulò tali meriti da essere nominato cardinale, risiedendo a Roma, dove era titolare di Santa Maria della Valle. La sua operosità fu rivolta particolarmente allo studio della liturgia, che affrontò con un approccio rigoroso e, si potrebbe dire, scientifico. Il siciliano abate Ildebrando Scicolone, collaboratore di Radio Maria, ne ha fatto oggetto di ricerche con almeno un paio di libri dell'inizio anni '80, mi pare.
    Altro personaggio di spicco è suor Maria Crocifissa, che condusse una vita conventuale esemplare ed ebbe eperienze mistiche. Nel romanzo è indicata col nome di "Beata Corbera": il primo impegno della famiglia Salina dopo l'arrivo a Donnafugata è appunto la visita al convento che ne ospita le spoglie.Su di lei Einaudi ha pubblicato il testo "La santa dei Tomasi".
    La famiglia dei principi di Salina si distinse anche per benemerenze civiche: tra l'altro fondò la città di Palma di Montechiaro. Annebbiati come siamo dall'immagine della Controriforma caratterizzata solo da oppressione intellettuale e ipocrisia ( nisi caste saltem caute ), non riusciamo più a concepire il grande e autentico slancio dei Borromeo
    ( Carlo e Fedrigo ) e di san Luigi Gonzaga. Evidentemente non erano "rarae aves".

    2) L'autore del "Gattopardo" non sembra essere stato credente, eppure nella sua opera appaiono evidenti tracce della religiosità controriformistica  e della cultura barocca, che ne fu l'imponente espressione. Don Fabrizio non è  cattivo ( sul genere don Rodrigo - principe padre ), anzi piuttosto benevolo e alla mano. Il suo scetticismo storico è improntato al "contemptus mundi" che è la faccia in ombra del barocchismo, come pure alla crisi postcopernicana, evidenziata da Blaise Pascal ( è uno studioso di astronomia! ). Il "segreto" dello stile lampedusiano è l'uso generoso ed elegantissimo dell'ossimoro ( accostamento di termini apparentemente contraddittori, che però cconduce a una reltà più profonda ), della metafora e della similitudine, che porta a trovare analogie tra aspetti della realtà apparentemente diversissime. E' da notare che LA DOGMATICA CRISTIANA SI ESPRIME ATTRAVERSO SUBLIMI OSSIMORI ( Dio uno e trino, uomo-Dio, Vergine - Madre ).Come pure in ossimori sulfurei  si esprime l'antiteologia del nichilista Pirandello: "Il fu Mattia Pascal", "Uno, nessuno e centomila", "Il piacere dell'onestà". Da segnalare, oltre al proverbiale "tutto deve cambiare..." anche il passaggio in cui è detto, a proposito del rozzo frack del parvenu don Calogero Sedara  che "il verbo di Parigi si era malamente incarnato fra le mani di un artigiano di Girgenti". Don Fabrizio non sembra realmente credente, ma mantiene un affettuoso rispetto per le forme cultuali e per la religione in genere ( anche il gesuita di casa, padre Pirrone, è trattato con ironia non scevra di affetto ).

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  7. P.S. Le autrici del libro "La santa dei Tomasi" sono Sara Cabibbo e Marilena Modica. Suor Maria Crocifissa ( dichiarata venerabile da Puio VI ) era sorella del cardinale Giuseppe, che venne proclamato santo nel 1986.
    Su Wikipedia si trovano accenni sulla "lettera del Diavolo", scritta in una lingua sconosciuta, che la santa suora avrebbe rifiutato di firmare.

    Giangiacomo Feltrinelli era talmente volenteroso che saltò in aria in quello che apparve un tentativo di far saltare in aria un traliccio elettrrico a Segrate  (nei primi anni del brigatismo rosso ).

    La crisi dell'impero spagnolo (in larga misura definibile come braccio armato della Controriforma ), battuto dagli stati del nord e la ritirata della cultura cattolico-maditerranea per il sopravanzare dell'Illuminismo ci hanno fatto dimenticare gli splendori di quella civiltà ( la mistica di San Giovanni della Croce e di santa Teresa d'Avila, la drammaturgia di Calderon, la pittura di Velasquez, l'architettura barocca, la teologia iberica...)

    Stimo la prof. Pellicciari ma non condivido la tesi della congiura: un albero cade con una piccola spinta se è già marcio per conto suo. La cultura cattolico-conservatrice dell'800 DI FATTO non fu in grado di imporre e mantenere la sua egemonia.

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  8. io dico che e molto bello

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  9. Pare in realtà, secondo le testimonianze della moglie del Principe, che Don Giuseppe Tomasi avesse ritrovato in tarda età un po'di fede cattolica, che assistesse alle Messe di Natale e Pasqua (almeno per ascoltare la musica), e che poco prima di morire avesse stretto amicizia e più volte e a lungo conversato coll'arciprete di Palma di Montechiaro.
    Inoltre, in uno dei suoi viaggi giovanili in Gran Bretagna, interrogato da una donna inglese sulla sua appartenenza alla Chiesa Alta o Bassa (ella lo credeva anglicano), il Principe rispose fieramente: Io appartengo alla più alta delle Chiese!

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  10. Pare in realtà, secondo le testimonianze della moglie del Principe, che Don Giuseppe Tomasi avesse ritrovato in tarda età un po'di fede cattolica, che assistesse alle Messe di Natale e Pasqua (almeno per ascoltare la musica), e che poco prima di morire avesse stretto amicizia e più volte e a lungo conversato coll'arciprete di Palma di Montechiaro.
    Inoltre, in uno dei suoi viaggi giovanili in Gran Bretagna, interrogato da una donna inglese sulla sua appartenenza alla Chiesa Alta o Bassa (ella lo credeva anglicano), il Principe rispose fieramente: Io appartengo alla più alta delle Chiese!

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  11. Pare in realtà, secondo le testimonianze della moglie del Principe, che Don Giuseppe Tomasi avesse ritrovato in tarda età un po'di fede cattolica, che assistesse alle Messe di Natale e Pasqua (almeno per ascoltare la musica), e che poco prima di morire avesse stretto amicizia e più volte e a lungo conversato coll'arciprete di Palma di Montechiaro.
    Inoltre, in uno dei suoi viaggi giovanili in Gran Bretagna, interrogato da una donna inglese sulla sua appartenenza alla Chiesa Alta o Bassa (ella lo credeva anglicano), il Principe rispose fieramente: Io appartengo alla più alta delle Chiese!

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  12. Pare in realtà, secondo le testimonianze della moglie del Principe, che Don Giuseppe Tomasi avesse ritrovato in tarda età un po'di fede cattolica, che assistesse alle Messe di Natale e Pasqua (almeno per ascoltare la musica), e che poco prima di morire avesse stretto amicizia e più volte e a lungo conversato coll'arciprete di Palma di Montechiaro.
    Inoltre, in uno dei suoi viaggi giovanili in Gran Bretagna, interrogato da una donna inglese sulla sua appartenenza alla Chiesa Alta o Bassa (ella lo credeva anglicano), il Principe rispose fieramente: Io appartengo alla più alta delle Chiese!

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  13. Pare in realtà, secondo le testimonianze della moglie del Principe, che Don Giuseppe Tomasi avesse ritrovato in tarda età un po'di fede cattolica, che assistesse alle Messe di Natale e Pasqua (almeno per ascoltare la musica), e che poco prima di morire avesse stretto amicizia e più volte e a lungo conversato coll'arciprete di Palma di Montechiaro.
    Inoltre, in uno dei suoi viaggi giovanili in Gran Bretagna, interrogato da una donna inglese sulla sua appartenenza alla Chiesa Alta o Bassa (ella lo credeva anglicano), il Principe rispose fieramente: Io appartengo alla più alta delle Chiese!

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  14. Pare in realtà, secondo le testimonianze della moglie del Principe, che Don Giuseppe Tomasi avesse ritrovato in tarda età un po'di fede cattolica, che assistesse alle Messe di Natale e Pasqua (almeno per ascoltare la musica), e che poco prima di morire avesse stretto amicizia e più volte e a lungo conversato coll'arciprete di Palma di Montechiaro.
    Inoltre, in uno dei suoi viaggi giovanili in Gran Bretagna, interrogato da una donna inglese sulla sua appartenenza alla Chiesa Alta o Bassa (ella lo credeva anglicano), il Principe rispose fieramente: Io appartengo alla più alta delle Chiese!

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  15. che considera i misteri gloriosi, poi inopinatamente quelli dolorosi, e d’un balzo salta quelli gaudiosi che dovrebbero invece essere i primi?
    Forse svelo l'enigma. Non ve la prednete con il Principe di Salina. Si tratta di un metodo particolare di recitare il Rosario intero. Immagino che quel giorno era di sabato.

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La Redazione