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lunedì 2 novembre 2009

Giuseppe Gioachino Belli e il Dies irae

È ttant’avaro quer vecchio assassino
che schiatterebbe pe nun dà una spilla,
e ppe nun spenne l’arma d’un quadrino
nun ze farebbe dì mmezza diasilla.

La matina, in ner batte l’acciarino
pe ppreparasse er tè de capomilla,
pijja un pezzo de lesca piccinino
piccinino ppiù assai de la favilla.

La bbarba se la fa ssenza sapone,
e ’r zu’ rasore nu l’affila mai
pe ppavura che vvadi in cunzunzione.

E ar tempo de li frutti fa er mistiere
d’ariccojje ossi, e cquanno ce n’ha assai
ne va a vvenne le mànnole ar drughiere.


(E’ tanto avaro, quel vecchio maledetto, che preferirebbe crepare piuttosto che regalare uno spillo, e per non spendere l’anima di un quattrino non si farebbe recitare nemmeno mezza “diasilla”. Al mattino, nel battere l’acciarino per prepararsi un tè di camomilla, usa un pezzetto di esca proprio minuscolo, molto più piccolo di una scintilla. La barba se la fa senza sapone, e il rasoio non lo affila mai per paura che vada in consunzione. E al tempo della frutta fa il mestiere di raccogliere i nòccioli, e quando ne ha tanti va a vendere le mandorle al droghiere).

Il sonetto, datato 13 settembre 1835, presenta – sotto il titolo “L’avaro” – una figura efficacemente scolpita, un pitocco senza dignità. Il motivo della nostra scelta è, peraltro, in quella misteriosa parola che non abbiamo voluto né potuto tradurre: “diasilla”. E’ questa, l’eco tridentina: dietro la misteriosa “diasilla”, che il vecchio miserabile, pur di risparmiare quattrini, eviterebbe di farsi recitare all’occorrenza, c’è la notissima sequenza della messa dei morti, il “Dies irae”.

La “diasilla” conserva un posto non cancellabile nei miei ricordi d’infanzia: era una lunga preghiera, in un italiano mescolato con voci dialettali e misteriose radici latine; preghiera e, insieme, una sorta di profezia, che veniva recitata in occasioni extra-liturgiche. Non tutti ne conoscevano il testo, considerato in qualche modo riservato a pochi, anche se non esplicitamente segreto; alcune donne, povere e anziane, si offrivano di recitarlo in cambio di qualche moneta o un po’ di cibo (due patate, un frutto, un pezzo di pane). [Chiara, adesso, la metafora paradossale utilizzata dal Belli nel suo sonetto?].

Nella cultura contadina fino a una cinquantina d’anni fa, pregare per la salvezza dell’anima dei “poveri morti”, recitare orazioni “in suffragio di quelle anime sante e benedette in Purgatorio”, era un dovere importante, rappresentava un legame di pensieri e di affetti consolante e ristoratore; significava, oltre al resto, fare i conti con l’idea della morte, trovare la formula che alleggerisse la naturale paura della fine, del distacco inevitabile e inesorabile. La Messa dei morti e le esequie, prima dell’incongrua riforma bugniniana, erano una cosa seria. Non s’insultava il dolore cocente gridando “Alleluia!” e via schitarrando: i testi e i canti oscillavano fra il terrore del passo estremo e del giudizio, da una parte, e la speranza della luce e del riposo, dall’altra. Nel cuore della celebrazione, il canto del “Dies irae” ne rappresentava la sintesi mirabile: la Chiesa di Cristo, madre e maestra, porgeva ai parenti e agli amici in lacrime il dono della “caritas in veritate”.

Per quelli, fra i nostri “naviganti”, che non dovessero averla familiare, vorrei qui presentarla, proponendone il testo integrale e una proposta di traduzione in italiano; alla fine, per chi avrà voglia di seguirmi in un’escursione nella tradizione popolare tosco-laziale, giungeremo a un esempio di “diasilla”.

Dies irae dies illa,
solvet saeclum in favilla
teste David cum Sibylla.

Quantus tremor est futurus
quando judex est venturus
cuncta stricte discussurus!

Tuba mirum spargens sonum
per sepulcra regionum,
coget omnes ante thronum.

Mors stupebit et natura,
cum resurget creatura
Judicanti responsura.

Liber scriptus proferetur
in quo totum continetur
unde mundus judicetur.

Judex ergo cum sedebit
quicquid latet apparebit,
nil inultum remanebit.

Quid sum, miser, tunc dicturus,
quem patronum rogaturus
dum vix justus sit securus?

Rex tremendae maiestatis,
qui salvandos salvas gratis,
salva me, fons pietatis.

Recordare, Jesu pie,
quod sum causa tuae viae,
ne me perdas illa die.

Quaerens me sedisti lassus,
redemisti crucem passus;
tantus labor non sit cassus.

Juste Judex ultionis,
donum fac remissionis
ante diem rationis.

Ingemisco tamquam reus,
culpa rubet vultus meus:
supplicanti parce, Deus.

Qui Mariam absolvisti
et latronem exaudisti,
mihi quoque spem dedisti.

Preces meae non sunt dignae,
sed tu, bonus, fac benigne
ne perenni cremer igne.

Inter oves locum praesta
et ab haedis me sequestra
statuens in parte dextra.

Confutatis maledictis
flammis acribus addictis,
voca me cum benedictis.

Oro supplex et acclinis,
cor contritum quasi cinis,
gere curam mei finis.

Lacrimosa dies illa
qua resurget ex favilla
judicandus homo reus:
huic ergo parce, Deus.
Pie Jesu Domine,
dona eis requiem.
Amen.


(Giorno d’ira, quel giorno che dissolverà il mondo nel fuoco, come già previdero David e la Sibilla. Come tremeremo quando il Giudice verrà a contestarci, inesorabile, ogni colpa! Uno squillo di tromba, mirabilmente risuonando per i sepolcri di regione in regione, tutti trascinerà dinanzi al trono. Stupefatta la morte, e con lei la natura, quando ogni creatura riprenderà vita per rispondere al Giudice divino. Un libro verrà mostrato, in cui tutto sarà compreso, ogni elemento di giudizio. Quando infine il Giudice prenderà posto, ogni cosa nascosta apparirà in piena luce, nulla rimarrà invendicato. Che dirò allora, disgraziato? A chi chiederò protezione quando a malapena i santi saranno al sicuro? Re di tremenda maestà, tu che salvi chi vuoi, per tua grazia salva me, fonte di pietà. Ricorda, Gesù pietoso, che io sono la causa del tuo venire al mondo: quel giorno, non condannarmi. Cercando me, pecorella smarrita, stanco ti sedesti; mi hai redento soffrendo la croce; non sia inutile tanta fatica. Giusto Giudice di vendetta, donami il perdono prima del giorno della resa dei conti. Pianti e lamenti per me, colpevole, il viso mi s’infiamma di rossore; Dio, abbi pietà di chi ti supplica. Hai assolto Maria, hai esaudito la preghiera del ladrone, e anche a me hai dato speranza. Non son degno neppure di pregarti, ma nella tua bontà fa’ ch’io non debba bruciare nel fuoco eterno. Preparami un rifugio fra le tue pecorelle, separami dai caproni, ponimi alla tua destra. Confutati i maledetti destinati alle fiamme soffocanti, chiamami fra i benedetti. Supplice, disteso ai tuoi piedi, ti prego col cuore incenerito dal rimorso: prenditi cura della mia morte. Giorno di lacrime, quello in cui dal fuoco risorgerà l’uomo reo, pronto per il giudizio; Dio, perdona dunque anche lui. Gesù, Signore di pietà, dona a tutti riposo. Amen.)

Sequenza composta di diciassette terzine a rima baciata; i versi sono ottonari (nella metrica latina, quantitativa, corrisponderebbero al trocaico). Esse sono seguite da un finale, articolato in due distici di ottonari a rima baciata e in un distico di senari sdruccioli non rimati. E’ attribuita al frate francescano Tommaso da Celano, morto nel 1256.

Nel “Dies irae” è ravvisabile un’articolazione tematica in tre parti. Le prime sei strofe presentano una sorta di cronaca di quanto avverrà, in un futuro indeterminato e perciò tanto più pauroso: il mondo che si dissolve nel fuoco dell’ira divina, il terrore di tutti all’apparire del Giudice, gli squilli di tromba che ridesteranno tutte le anime, costrette a riassumere sembianze umane per l’ultimo atto, lo stupore della Morte e della Natura di fronte al capovolgimento di ogni legge (i morti risorgono!), il grande libro in cui colpe e meriti saranno scritti nero su bianco e mostrati a tutti, prima della sentenza finale. La seconda parte (dalla settima alla diciassettesima strofa) procede presentando, accostate per contrasto o analogia, immagini e riflessioni di paura e speranza; la forma prevalente è quella della preghiera: Gesù ha tanto amato l’umanità, per essa si è incarnato e ha sopportato passione e morte, ha perdonato ladroni e prostitute, avrà dunque pietà anche di noi peccatori; ma a queste immagini si alternano lampi di terrore: il Re di tremenda maestà, il giusto Giudice di vendetta, i maledetti destinati alle fiamme soffocanti. Nei tre distici finali la tensione sembra sciogliersi in lacrime di pentimento, attraverso le quali anche gli occhi del “reo” possano intravedere il perdono e il riposo eterno.

Musicalmente il “Dies irae” presenta – a parte i distici finali, che seguono una loro melodia originale – tre schemi, che si ripetono nelle varie strofe raccolte a due a due. Il primo schema, di grande impatto per la sua terribile semplicità, riveste le strofe 1 e 2, 7 e 8, 13 e 14. Indimenticabile l’incipit, che scandisce martellante e inesorabile l’idea stessa di Giudizio Finale: fa mi fa re mi do re re. Il secondo schema – che riguarda le strofe 3 e 4, 9 e 10, 15 e 16 – si apre quasi con un grido di paura (la do do si sol la la sol fa sol la la re), per poi ripiegare sulla melodia del primo schema, conferendogli in tal modo una presenza ossessiva e, nella sua ripetitività, inesorabile. Il terzo schema, più ampio e rasserenante, sembra assumere le movenze di una preghiera; le strofe interessate sono la 5 e 6, la 11 e 12, la 17.

Precisi elementi testuali e musicali rendono evidente la dipendenza del “Dies irae” dallo splendido responsorio “Libera me Domine”, molto più antico; prima della sciagurata riforma bugniniana esso veniva eseguito durante il rito delle esequie:

Libera me, Domine, de morte aeterna,
in die illa tremenda,
quando coeli movendi sunt et terra,
dum veneris judicare
saeculum per ignem.

Tremens factus sum ego et timeo,
dum discussio venerit
atque ventura ira,
quando coeli movendi sunt et terra.

Dies illa dies irae,
calamitatis et miseriae,
dies magna et amara valde,
dum veneris judicare
saeculum per ignem.

Requiem aeternam dona eis, Domine,
et lux perpetua luceat eis.

Libera me, Domine...


(Liberami, Signore, dalla morte eterna in quel giorno tremendo quando cieli e terra saranno sconvolti e tu verrai a giudicare il mondo col fuoco. Io sarò tutto tremante di paura quando verrà il giudizio e l’ira, mentre cieli e terra saranno sconvolti. Giorno d’ira quel giorno, di calamità e miseria, giorno grande e di grande amarezza, quando verrai a giudicare il mondo col fuoco. L’eterno riposo dona loro, Signore, e per essi risplenda la luce perpetua. Liberami, Signore...).

Ma torniamo al “Dies irae”, e alla “diasilla” sua derivazione. Non è difficile immaginare perché questa sequenza abbia tanto colpito la sensibilità popolare da restare per qualcosa come sette secoli nella tradizione folclorica, in vaste zone d’Italia: personalmente conosco varianti venete, toscane, laziali, marchigiane, campane. Fra le tante privilegio la “mia” versione, che ho appreso quasi sessant’anni fa da un’anziana donna, contadina analfabeta dell’alto Lazio:

Diasilla diasilla
tutti secoli in favilla,
scrisse Davide e Sibilla.

Giorno trema, giorno scuro
il Giudizio sarà duro,
giorno senza più futuro.

Soneranno quattro trombe,
scapparanno dalle tombe
brutte facce e brutte ombre

e ripiglia la figura
che gli tolse la natura,
lasciarà la seppoltura.

Libro scritto e tribbunale
pesaranno bene e male,
come e quanto, tale e quale.

Ce sarà pena e dolore:
a giudizio il peccatore
della colpa e dell’errore.

Ce sarà pena e tormenti:
pure il giusto batte i denti,
‘un contaranno i pentimenti.

La tremenda maestà,
salva ............... per bontà,
Tu sei fonte di pietà.

Mi cercasti in ogni chiasso,
mi seguisti passo passo,
salva me da Satanasso!

Ci creasti e ci salvasti,
nel legno della Santissima Croce ci ricomprasti.
Fa’, Dio mio, che questo basti.

Giusto Giudice in funzione,
dacci Tu la remissione,
della pena la razione.

Arrossisco come rio
pe la colpa e ‘l fallo mio
e così m’aiuti Iddio!

A Maria li giorni tristi
e a Ladrone compatisti,
pure a me t’impietosisti.

O Signore, non so’ degno,
ma la Croce, il santo legno...
dammi un posto nel tuo Regno.

Non c’è in giro anima onesta:
scegli quella e scegli questa,
io mi siedo alla tua destra.

Contristati maledetti
stanno al fuoco e stanno stretti,
chiama me fra i benedetti.

Nello giorno spaventoso,
Gesù Cristo pietoso,
dàtece pace e riposo.

Lacrimosa diasilla
quando tutto va in favilla,
giudicando l’uomo rio
ci perdona e assolvi Iddio.
Diasilla lacrimosa
in eterno ci riposa.
Amen.
Giuseppe

17 commenti:

  1. Scusate la mia somma ignoranza.
    Cosa c'entra la Sibilla (cumana?) col re Davide? La Sibilla non è forse un elemento paganeggiante inserito in una preghiera cristiana? Qualcuno potrebbe spiegarmelo? Alessandro

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  2. Le sibille (non solo quella cumana)sono raffigurate per esempio anche da Michelangelo nella Cappella Sistina. Erano ritenute, secondo le leggende medioevali, una sorta di profetesse pagane che avevano fra l'altro profetato la venuta di Cristo.

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  3. Ah: ovviamente in tutto questo c'è una reminiscenza dei libri sibillini, lo strumento di divinazione del futuro per eccellenza nell'antica Roma.

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  4. http://www.youtube.com/watch?v=zQ_qRMG0tUA

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  5. Caro Alessandro,
    dopo Jacopo e Gabriella provo anch'io a dirti il poco che so.
    La Sibilla segna una presenza costante nella storia dell’arte sacra. Hai ragione tu, si tratta di un personaggio che deriva apertamente dal mito pagano: è indimenticabile, fra l’altro, il suo ruolo nell’Eneide virgiliana. Già in epoca precristiana tutte le sue raffigurazioni (multiple: le Sibille divengono subito quattro, ma ne vengono rappresentate fino a dieci) fanno riferimento a messaggi di alto e indiscutibile contenuto morale.
    In ambito cristiano la Sibilla appare già nel “Pastore” di Erma, uno dei fondamenti della letteratura cristiana arcaica: tale libro risale presumibilmente al 140 d.C. e alcuni dei Padri della Chiesa lo considerarono testo divinamente ispirato e degno di entrare nel canone del Nuovo Testamento. Peraltro anche Sant’Agostino – come dire? – cristianizzò senza esitazioni il personaggio della Sibilla.
    Quando Tommaso da Celano la inserì al fianco di David, fra i testimoni profetici del Giudizio finale, si riferiva dunque a una tradizione plurisecolare e mai messa in discussione.

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  6. Ottimo, come sempre,il post, ma non risulterebbe più appropriata nel meraviglioso "Libera me Domine",la traduzione del verso perifrastico "quando coeli movendi sunt et terra" in un: quando i cieli si dovranno scuotere (o sconvolgere) insieme alla terra?

    Riterrei che, in tal modo, risalterebbe maggiormente il fatto di come questo evento cosmico, nonostante il suo apparente connotato di fortunoso disordine, rientri, in realtà, nel quadro dell'ordine naturale prefigurato da Dio e preannunziatoci nelle Sacre Scritture.

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  7. Per ascoltare il Dies Irae:

    http://www.youtube.com/watch?v=-fMHms5Cvsw

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  8. Sempre in tema di G. G. Belli e di antiche credenze romanesche a sfondo sacro, andrebbe ricordato almeno anche "er Nocchilia" di cui si parla nel bellissimo sonetto "La fin der monno":

    ...
    Poi, pe combatte co sta bbrutta arpia [l'anticristo]
    Tornerà de la bbùscia de San Pavolo
    Doppo tanti mil'anni, er Nocchilia.
    ...

    Lo stesso Belli annota: "Credenza romanesca, che da un buco, sconosciuto, presso la Basilica di S. Paolo usciranno Enoc ed Elia, chiamati dal popolo con un solo vocabolo: er Nocchilìa". I due profeti biblici non morti ma rapiti in cielo che ritornano avventurosamente per lo scontro finale. Si può anche sorriderne, ma quest'opera di fantasia celava una profonda attenzione e attrazione per quelli che un tempo la teologia chiamava "i novissimi". Si può dire altrettanto oggi?

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  9. Molto opportuna la tua citazione, caro Jacopo. E poiché siamo in clima di novissimi, e di Giudizio Universale, sarà il caso di riportare anche il notissimo sonetto belliano dal titolo “Er giorno der Giudizzio” (25 novembre 1831), espressione di una religiosità popolaresca figlia diretta di prediche barocche e dipinti angosciosi. Molto bello, a parer mio (e qui non c’è bisogno neppure di traduzioni: basterà tener presente che “a ppecorone” vuol dire carponi e la “biocca” è la chioccia):
    «Cuattro angioloni co le tromme in bocca
    Se metteranno uno pe ccantone
    A ssonà: poi co ttanto de vocione
    Cominceranno a dì: "Fora a chi ttocca"

    Allora vierà ssù una filastrocca
    De schertri da la terra a ppecorone,
    Pe ripijà ffigura de perzone
    Come purcini attorno de la bbiocca.

    E sta bbiocca sarà Dio benedetto,
    Che ne farà du' parte, bianca, e nnera:
    Una pe annà in cantina, una sur tetto.

    All'urtimo uscirà 'na sonajera
    D'angioli, e, come si ss'annassi a letto,
    Smorzeranno li lumi, e bona sera.»

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  10. DIES IRAE, dies illa, solvet saeculum in favilla,
    Teste Davide cum Sybilla
    Quel gran dì che profetato, l'Universo in fiamme andrà
    quel dai vati profetato,
    QUEL DELL'IRA IL Dì SARà
    Oh che tremiti che lutti
    faran l'alme agonizzar,
    quando il Giudice di tutti,
    VERRà TUTTO A GIUDICAR
    D'una tromba il miro suono,
    I sepolcri schiuderà,
    e sospinti a pie' del Trono,
    GENTI E POLI UNIRà.
    Stupiran morte e natura,
    Quando a dar ragion di sè,
    Ogni Umana creatura,
    S'ALZERà RIVIVA I PIè.
    IL volume dove il vero,
    Scisse IDDIO d'ogni mortal.
    Fara noto al mondo intero
    LA SENTENZA UNIVERSAL.
    Quanto agli Uomini celato, la Giustizia svelerà,
    Non pensiero invendicato,
    NON PAROLA INULTA ANDRà.
    Che dirò? Fra tanta pena,
    Dove scorre un difensor.
    Mentre al giusto, al giusto, al giusto appena
    BATTERà SICURO IL COR?
    Tu che doni liberale, agli eletti la virtù,
    Re del Ciel, fonte immortale
    D'ogni ben,
    SALVAMI TU!.
    E sovvieni, o Gesù pio,
    Per non farmi, ahimè, perir
    Che qui un dì venisti e ch'io,
    FUI CAGION DEL TUO VENIR.
    Me cercando, in Croce appeso,
    Tu mi fosti Redentor:
    Deh indarno non sia speso,
    TANTO SANGUE E TANTO AMOR!
    Abbi o vindice supremo,
    Caritade abbi di me,
    Pria ch'io debba il giorno estremo,
    RENDER CONTO INNANZI A TE.
    Carco il volto di rossore,
    Ai tuoi piedi, e reo qual son,
    Con le lacrime del core,
    ora imploro
    IL TUO PERDON.
    Quando in Croce al Ladro il desti,
    E a Maria [Maddalena- nota di lello-] pentita un dì,
    O Gesù, tu allor volesti
    LO SPERASSI ANCH'IO COSì.
    Se no degni i preghi miei,
    son la grazia a meritar,
    Tu sei buono e tu mi dei,
    DALLE FIAMME, O DIO SALVAR!
    Via dai capri sceverato,
    Che avran satan per re,
    Fa che accolto al destro lato,
    COGLI AGNELLI IO SIA DA TE.
    Fulminati i maledetti,
    Giù nel baratro infernal
    Chima me coi bendetti,
    ALLA GLORIA TRIONFAL.
    Fra i singulti supplicando,
    Quasi polve attrito il cor,
    Del mio fine, raccomando
    IL penserio a TEM O SIGNOR,
    Giorno orribl di supplizio,
    E di gemiti sarà,
    Quando a udire il gran giudizio
    L'uom che reo RISORGERà.
    Deh! perdona a lui pietoso,
    Finchè in vita ei sia per te;
    E dà pace e dà pace e dà riposo
    A CHI è MORTO NELLA FE'

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  11. Siccome nel rito delle esequie, nella sua confusione di "oppure, oppure", è lasciato spazio a "o altri canto opportuno", nulla mi vieta di inserire, come faccio abitualmente, Libera me Domine, In Paradisum ed Ego sum. Tutti cantano. Che mi vengano a dire qualcosa! :-)
    dSG

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  12. Anonimo delle 23.42: dacci qualche notizia, per favore, del testo che hai trascritto. Supplices deprecamur...

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  13. nella mia parrocchia non è ma mancata, anche ocn il nuovo rituale, la recita o il canto del "Libera me domine" insieme a tutte le altre preghiere per il rito funebre. In tutte le cose basta solo un pizzico di buon senso, cosa che il mio buon parroco ha sempre avuto.
    Gn

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  14. Non credo sia solo questione di "buon senso". "Il rituale delle esequie" e "l'Assoluzione al feretro" sono espressione di due teologie molto differenti. Certo potremo cantare il "Libera me" nel nuovo rito, ma resta sempre la sdolcinata monizione introduttiva. Forse si può sostituire con il "non intres in iudicio" magari nella versione volgare così come presente sui rituali del '65...ma qui siamo oltre il "buon senso", siamo all'autodeterminazione liturgica!...A me non fa certo problema, però....

    Circa le Sibille mi piace ricordare che anche San Tommaso d'Aquino considera queste figure dell'antichità (che egli considera storiche come ogni medievale)quali fonti di Rivelazione prima della venuta di Cristo!

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  15. sono interessato ad ascoltare, sempre in gregoriano, il Libera me Domine

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  16. mia nonna la sapeva in modo diverso, anche santa maria maddalena vine nominata nella versione insegnata a me

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