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sabato 9 maggio 2009

Ispirazioni "in missis defunctorum" per Luzi e per Carducci.

Nei post alle precedenti chiacchierate sugli echi liturgici nella poesia italiana novecentesca è emerso in più di un caso l’invito a considerare Mario Luzi [nella foto], sicuramente una delle voci massime della nostra poesia nel secolo passato, e nel contempo poeta dichiaratamente, anche se molto discretamente, cristiano. L’invito era motivato, perché anche in Luzi la liturgia ha lasciato le sue tracce. Prendo come esempio una poesia dalla raccolta Onore del vero del 1957, intitolata “Las Animas”, espressione che, come spiega lo stesso poeta in nota, in spagnolo designa il giorno dei morti (ma la Spagna offre solo un titolo suggestivo, perché la location, come si direbbe in ambito cinematografico, si trova, fatto usuale in questa fase poetica di Luzi, nella campagna toscana, in un mondo contadino fuori dal tempo, o meglio in un tempo scandito da pochi fatti e gesti arcaici):
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Fuoco dovunque, fuoco mite di sterpi fuoco 
sui muri dove fiotta un’ombra fievole 
che non ha forza di stamparsi, fuoco 
più oltre che a gugliate sale e scende 
il colle per la sua tesa di cenere, 
fuoco a fiocchi dai rami, dalle pergole. 

Qui né prima né poi nel tempo giusto 
ora che tutt’intorno la vallata
festosa e triste perde vita, perde 
fuoco, mi volgo, enumero i miei morti 
e la teoria pare più lunga, freme 
di foglia in foglia fino al primo ceppo. 

Da’ loro pace, pace eterna, portali 
in salvo, via da questo mulinare 
di cenere e di fiamme che s’accalca 
strozzato nelle gole, si disperde 
nelle viottole, vola incerto, spare; 
fa’ che la morte sia morte, non altro
 da morte, senza lotta, senza vita. 
Da’ loro pace, pace eterna, placali. 

Laggiù dov’è più fitta la falcidia 
arano, spingono tini alle fonti, 
parlottano nei quieti mutamenti 
da ora a ora. Il cucciolo s’allunga 
nell’orto presso l’angolo, s’appisola. 

Un fuoco così mite basta appena,
 se basta, a rischiarare finché duri 
questa vita di sottobosco. Un altro, 
solo un altro potrebbe fare il resto 
e il più: consumare quelle spoglie, 
mutarle in luce chiara, incorruttibile. 

Requie dai morti per i vivi, requie 
di vivi e morti in una fiamma. Attizzala: 
la notte è qui, la notte si propaga, 
tende tra i monti il suo vibrìo di ragna, 
presto l’occhio non serve più, rimane 
la conoscenza per ardore o il buio.


E' una poesia incentrata su binomi contrapposti, luce-tenebra, fuoco-cenere, morte-vita, vita “di sottobosco”-vita eterna, con un sottofondo pentecostale ben evidente dalla prima strofa. Ma non ho la pretesa di spiegare questi versi: lascio ai lettori il piacere di immergersi al loro interno. Mi limito a richiamare l’attenzione sul fatto che qui è ripreso (terza strofa) l’inizio della preghiera dei defunti per eccellenza, Requiem aeternam dona eis.
Nella liturgia della Commemorazione dei fedeli defunti, quella appunto che si celebra il giorno dei morti, il Requiem aeternam risuona tre volte, nell’introito, nel graduale e alla comunione. Ma “Las Animas” è intessuta di altri richiami a questa liturgia, anzi, per essere precisi, alla prima messa delle tre previste nella giornata. Nella penultima strofa “consumare quelle spoglie, / mutarle in luce chiara, incorruttibile” è un’eco dall’epistola (prima lettera ai Corinzi, 15, 51-57: “Et mortui resurgent incorrupti, et nos immutabimur. Oportet enim corruptibile hoc induere incorruptionem…”), mentre “fa’ che la morte sia morte” alla terza strofa potrebbe rifarsi al “fac eas, Domine, de morte transire ad vitam” dell’offertorio, ripreso in chiave paradossale per invocare un distacco netto e senza traumi. È forse superfluo aggiungere che anche in questo caso siamo di fronte a un libero confronto con le parole della liturgia, reinterpretate all’interno di una riflessione personale sulla vita e sulla morte.
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Ritornando al Requiem aeternam, esistono anche altre trasposizioni di queste parole all’interno di una poesia. Se ne era già appropriato ad esempio Carducci, nelle tarde terzine di “Esequie della guida E. R.”:
[…] Giù da la Saxe in funeral tenore Scende e canta il corteo: dicono i preti – La requie eterna dona a lui, Signore –, – E la luce perpetua l’allieti – Rispondono le donne: ondeggia al vento Il vessil de la morte in fra gli abeti. […]
Sia Luzi sia Carducci, come si nota, hanno evitato di rendere requiem con “riposo”, che pure è una traduzione certamente esatta. Luzi ha utilizzato “pace” (e anche “requie” nell’ultima strofa), Carducci “requie”. I poeti, sommi sacerdoti della lingua, hanno sentito che per rendere un concetto di questo genere era necessaria una parola più alta e illustre di “riposo”. Questione di sfumature, si dirà. Ma trasportare da una lingua all’altra termini carichi di storia e di significati millenari non è compito di tutto riposo (o requie). Mi sembra giusto a questo punto, per variare un po’ la musica, lasciare il campo ad altri suonatori. Credo si sia finora dimostrato se non altro che per le poetiche reminiscenze tridentine il materiale a disposizione è sovrabbondante, e che la tesi secondo cui la messa antica era lontana dal cuore della gente è una semplice sciocchezza.
Carissimi saluti Jacopo

10 commenti:

  1. Scusate l'OT ma dopo aver ascoltato il discorso di stamane del Principe arabo al Papa, è davvero bizzarro dover constatare che gli apprezzamenti per l'antica liturgia vengano con più facilità e buona fede dal mondo islamico.

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  2. Perché, cos'ha detto il principe?

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  3. Ha elogiato il Papa per la sua scelta controcorrente di liberalizzare la messa tridentina.

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  4. Eh, la tradizione quelli sanno ancora che è.

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  5. Grazie Jacopo, davvero preziosissime queste tue annotazioni sulla poesia del '900.

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  6. Vorrei ringraziare anch'io Jacopo e la redazione, e la presenza di Carducci e' significativa conoscendone la fama di "mangiapreti".

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  7. Grazie a Jacopo soprattutto per avere riproposto "Las animas", tra i testi

    Anche io, caro Jacopo, appartengo al novero, non troppo cospicuo, di chi ritiene che Luzi sia il massimo poeta del nostro Novecento. E più il tempo passa più tale evidenza si approfondisce (aveva ragione Piccioni a invocare lo stacco temporale come grande ventilabro della lirica novecentesca).

    Quanto agli echi "tridentini" (ma in questo caso la locuzione è alquanto impropria), be', agiscono sottotraccia in gran parte della cultura italiana dell'epoca, e dunque anche di quella letteraria. Tutti i nostri poeti in gioventù hanno direttamente o indirettamente conosciuto l'antica liturgia (ma poi, e non solo in gioventù, l'arte sacra, le Scritture, le grandi Messe in musica, ecc.). Semmai c'è da meravigliarsi che gli echi "tridentini" non siano ancor più numerosi.

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  8. Ne l’esegesi tue, ser Jacovone,
    tra un Quasimmodo, un Luteo et un Sereno
    un dì pur volgerai ’l calamo ameno
    al pio rimar di frate Lampredone.

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  9. Arduo saria scovrir la tua ragione
    che 'l verso cela di doctrina pleno:
    pure, curiositade morde 'l freno
    di disvelar tua scienza, Lampredone.

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  10. Ser Jacovon, discolorò un eone
    da che vi fu colui che a paglia fieno
    di rime rimandonne et non da meno
    fu ’l fieno de la paglia al paragone.

    Or com’exige arcana traditione
    per doppia stoppia et l’uno et l’altra areno
    entro tacita gora, avello et threno
    al canto che di tanto si compone.

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