Grazie ad Investigatore Biblico per queste analisi delle nuove traduzioni bibliche.
Luigi C.
20-10-24
Avevo già avuto modo di soffermarmi su Atti 15,20 (qui Indizio n.183 Bibbia CEI 2008: “Atti 15,20: non si chiamano più i peccati con il loro nome. Si preferisce usare di nuovo il legalismo.” di INVESTIGATORE BIBLICO – Investigatore Biblico) , dove si manifesta un analogo problema di traduzione che ritorna anche in Atti 15,29. Il contesto è quello del cosiddetto “concilio di Gerusalemme”, in cui gli apostoli e gli anziani, dopo un intenso discernimento, giungono a una decisione che intende sciogliere una delle prime grandi tensioni della Chiesa nascente: quella tra la libertà del Vangelo e la fedeltà alla tradizione giudaica. I discepoli provenienti dal paganesimo non sono obbligati a portare il giogo della Legge mosaica, ma vengono invitati a osservare alcune indicazioni fondamentali, per favorire la comunione e non scandalizzare le comunità di origine ebraica. Così il testo riporta: “Astenetevi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime” (Atti 15,29; traduzione CEI 2008).
Ma è proprio quest’ultima espressione, “unioni illegittime”, a richiedere attenzione. Il termine greco usato nel testo è πορνείας (porneías), che non si lascia facilmente ridurre a una formula giuridica o morale come “unioni illegittime”. Già avevamo osservato, commentando Atti 15,20, come la stessa parola ricorra, e come la traduzione italiana tenda a smussarne il significato. “Porneía” deriva da una radice che indica un comportamento sessuale disordinato, in senso ampio: può significare prostituzione, fornicazione, idolatria sessualizzata, o in generale una forma di corruzione dei rapporti umani nella loro dimensione affettiva e corporea. Non è dunque un termine tecnico che si riferisca a una situazione matrimoniale “illegittima” secondo la legge civile o religiosa, ma piuttosto un’indicazione morale più profonda, un invito a una purezza del cuore e del corpo in coerenza con la fede.
San Girolamo, nella Vulgata, tradusse “porneía” con fornicatione, che è più vicino al senso letterale e spirituale del termine. La CEI del 1974, invece, aveva scelto “impudicizia”, anch’essa un po’ generica ma ancora in linea con la tradizione esegetica più antica. L’attuale CEI 2008, con la formula “unioni illegittime”, sembra invece voler delimitare troppo il campo, quasi a circoscrivere la questione a situazioni di irregolarità matrimoniale, quando invece il testo degli Atti non parla tanto di “unioni” quanto di una condotta morale che si oppone alla santità della vita cristiana.
L’errore nasce probabilmente da un desiderio di rendere più comprensibile e concreto il precetto, ma in questo modo si perde la profondità semantica e teologica del termine. “Porneía” non è una categoria giuridica; è una parola che tocca l’ethos del credente, la sua libertà interiore, la sua capacità di vivere la corporeità come spazio di comunione e non di possesso. Gli apostoli, nel loro discernimento, non intendono imporre una nuova legge, ma indicare un cammino di libertà responsabile, dove anche l’ambito dei comportamenti sessuali viene purificato alla luce del Vangelo.
Tradurre “porneía” con “unioni illegittime” significa dunque ridurre una parola viva e provocante a un concetto amministrativo. È un impoverimento del linguaggio biblico, che invece si muove su registri simbolici e morali molto più ampi. Il senso originario del testo ci invita a custodire la purezza del cuore come forma di adorazione vera, e a riconoscere che ogni disordine affettivo o sessuale, qualunque ne sia la forma, distorce l’immagine di Dio nell’uomo. La fedeltà alla Parola esige, allora, di rispettarne il respiro, di non piegarla a categorie moderne o moralistiche, ma di lasciarla risuonare nella sua forza originaria, come invito a una conversione integrale dell’esistenza.
In questo, la delicatezza del testo di Atti 15,29 ci insegna qualcosa di più grande: che la traduzione non è solo questione di parole, ma di spirito. Quando traduciamo la Scrittura, traduciamo anche la nostra comprensione di Dio e dell’uomo. Per questo è bene tornare sempre al testo, con umiltà, e lasciarsi istruire dal suo linguaggio più che volerlo adattare alle nostre categorie. Solo così la Parola rimane viva, capace di purificare e guidare la comunità dei credenti, oggi come allora.
