Grazie ad Investigatore Biblico per queste analisi sulle nuove traduzioni bibliche.
Luigi C.
7-4-25
L’epistola ai Romani si apre con una densità teologica e antropologica che ha pochi eguali nella Sacra Scrittura. Già nel primo capitolo, san Paolo conduce il lettore in un viaggio che è al tempo stesso denuncia e chiamata alla verità, all’umiltà, al riconoscimento della propria miseria. Il contesto di Rm 1,18-32 è noto: l’Apostolo descrive il drammatico allontanamento dell’umanità da Dio, un allontanamento che non è soltanto intellettuale ma esistenziale, viscerale, carnale. L’uomo, pur avendo conosciuto Dio attraverso le sue opere, non lo ha glorificato come Dio, e perciò è stato abbandonato da Dio alla perversione dei suoi desideri. Ne segue una lista sconvolgente di comportamenti e vizi che rivelano la corruzione del cuore umano.
In questo elenco, Rm 1,29, Paolo scrive: «Colmi di ogni ingiustizia, malizia, cupidigia, malvagità; pieni di invidia, omicidio, contesa, frode, malignità…». Ma qui si annida un’ombra, una lacuna, una censura.
Consultando la traduzione latina di san Girolamo, la Vulgata, troviamo un termine che nella traduzione italiana ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana — tanto nella versione del 1974 quanto in quella del 2008 — è scomparso: fornicatione. Girolamo, con la consueta fedeltà al testo greco, aveva incluso il termine πορνεία (porneía) – fornicazione – come uno dei peccati cardine in questa lista. Ma nella versione CEI, questo termine non si trova. Si è deciso, inspiegabilmente, di escludere proprio il peccato che Paolo, in tutto il contesto di Rm 1, denuncia con maggiore forza, insistenza e severità: l’immoralità sessuale.
Non si tratta qui di una semplice svista filologica. Siamo di fronte a una scelta redazionale che merita una critica netta e profonda. Perché togliere proprio porneía dal versetto 29, quando nei versetti precedenti (vv. 24-27) l’Apostolo ha tracciato un durissimo affresco del disordine sessuale come conseguenza del rifiuto di Dio? L’intero impianto del capitolo si fonda sull’idea che, abbandonando Dio, l’uomo si è abbandonato a desideri disordinati, e la porneía è esattamente l’incarnazione di questo traviamento.
San Girolamo non cade in questa omissione. Al contrario, egli riconosce la centralità di tale peccato nella riflessione paolina. Il termine fornicatio, per Girolamo, non è un’aggiunta arbitraria, ma la giusta resa di un termine che, nel greco neotestamentario, è ricorrente e pesante di significato. Non si può spiritualizzare o alleggerire ciò che è invece fisico, concreto, scandaloso. La porneía è il segno visibile della ribellione dell’uomo contro Dio nel suo stesso corpo.
La decisione delle traduzioni CEI, allora, appare non solo infelice, ma anche teologicamente pericolosa. Rimuovere porneía da questo versetto significa depotenziare il messaggio di Paolo, attenuare la sua severità, edulcorare l’urgenza della sua esortazione. È un atto che potrebbe essere letto, con amarezza, come una forma di autocensura moderna, una resa alla sensibilità contemporanea che fatica a tollerare una critica esplicita ai peccati contro la castità.
Ma l’annuncio cristiano non si costruisce sull’omissione, bensì sulla verità intera. L’amore evangelico non è mai complice del silenzio accomodante, ma è sempre voce che scuote e che redime. Il silenzio su porneía è un’assenza grave, che tradisce non solo il testo, ma anche il cuore del suo autore. San Paolo parlava ai suoi contemporanei con franchezza, sapendo che la libertà si costruisce nella verità.
Oggi, più che mai, c’è bisogno di questa schiettezza paolina, e di quella fedeltà alla Scrittura che san Girolamo ha custodito con tenacia. Non possiamo permetterci di manipolare o alleggerire i testi sacri per renderli più palatabili. Occorre invece il coraggio della Parola integra, che converte e salva, anche quando brucia come fuoco.
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