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mercoledì 6 marzo 2024

La Chiesa ha sempre lottato strenuamente contro le eresie… altro che irenismo!

Preghiamo Maria Santissima, sterminatrice delle eresie.
Luigi C.


Rubrica a cura di Corrado Gnerre, da Storia universale della Chiesa – La Chiesa nascente. Persecuzione e trionfo, del cardinale G.Hergenrother

La Chiesa nei primi 150 anni della sua vita si trovò gravemente minacciata da tre partiti di eretici: dal giudaismo estremo dei Giudeo-cristiani, i quali volevano porre la legge mosaica quasi parte integrante del Regno del Messia; dallo gnosticismo multiforme che tendeva ad avvelenare la dottrina e la vita religiosa con la teosofia e la pratica dei misteri pagani; dal montanismo, il quale opponeva l’ispirazione profetica personale di ognuno alla tradizione ecclesiastica e all’autorità dei capi della Chiesa. Contro siffatte tendenze di eretici la Chiesa mantenne quella vera dottrina, che Cristo aveva promulgato e per sé stesso e per bocca dei suoi Apostoli, e senza mai deviare da tali sodi principii, diede svolgimento alla vita religiosa per ogni parte. Ella impugnò l’errore con discacciare da sé gli eretici, con premunire da essi i fedeli, con attenersi fedelmente al Simbolo della fede e alla tradizione fondata sulla dottrina degli Apostoli, con ribattere le false asserzioni ed esprimere con formule più costanti le proprie dottrine. Già gli Apostoli non volevano tolleranza, non condiscendenza verso gli eretici. I fedeli, ammonito una o due volte l’eretico, l’avevano da fuggire come uno che pecca avvedutamente (Tit. III, 10, 11, Cf. II. Thess. III, 14), non accoglierlo, non salutarlo (II. Io, 10 seq.). Chi contrastava alle dottrine degli Apostoli era da tenersi come allacciato nelle reti di Satana (II. Tim. II, 25, 26), e si doveva ribattere e respingere (Gal. I, 8, 9): gli eretici erano Anticristi (Antichristi, I. Io. II, 18). Così Paolo fulminò di anatema Alessandro e Imeneo, abbandonandoli a Satana; cioè loro sottraendo ogni diritto e protezione della comunione ecclesiastica, perché di nuovo sperimentassero tutte le incursioni del demonio, che fuori di essa Chiesa avvengono, e con ciò puniti, cessassero dal peccare (I Tim. I 19, 20). «E tale espulsione dalla Chiesa non mai si doveva omettere; ché l’errore in punto di religione ha una forza strapotente (Thes. II, 9, 11); è simile a veleno poderosissimo, o a bevanda inebriante. Quindi uno dei primi doveri della Chiesa, uno degli obblighi suoi più stringenti è guardare i suoi figli da questa peste». Perciò i Padri antichi non trovano mai parole così roventi che esprimano tutto il loro orrore per le eresie e gli eretici; già gli Apostoli avevano chiamato gli eretici lupi rapaci (Act. XX, 29), falsatori della verità (II Cor., II, 17). Così anche i capi delle comunità cristiane escludevano dalla comunione ecclesiastica quelli che si facevano propalatori di false dottrine e perturbatori dell’unità della Chiesa; onde costoro non erano più riguardati come membri del regno di Dio né potevano più aver parte alle benedizioni e alle promesse, che si comunicavano alle membra del corpo mistico di Cristo. Ma nondimeno sempre la Chiesa era pronta di accogliere gli eretici penitenti e contriti, quando ritrattassero gli errori tenuti e solennemente li condannassero. Anzi, come la separazione e il traviamento dei suoi figli aveva trafitto d’immenso dolore la Chiesa, così il ritorno dei traviati a penitenza la ricolmava d’inestimabile gioia: ed ella, conforme all’esempio e alla dottrina del suo Divino Maestro, il Buon Pastore, con affetto materno e con pietosa compassione li riabbracciava[1]. In opposizione alle dottrine ereticali, la dottrina della Chiesa nelle varie sue parti venne spiegata più chiaramente, con maggior pienezza dimostrata, ed esposta con più precisione. I punti particolari, che nelle sette comparivano sformati, trovavano la correzione loro nella Chiesa, e così di mano in mano la conducevano a spiegare sempre più e svolgere innanzi al mondo la sublime universalità e l’unità ancora più sublime delle sue dottrine. La sola Chiesa cattolica manteneva inconcussa la regola di Fede, il Simbolo, fondato sulla dottrina degli Apostoli e sulla loro tradizione fedele custodita nelle comunità dai discepoli, che essi avevano posto a presiedere, e dai loro successori. La Chiesa sola aveva come sua proprietà la Scrittura; ed ella sola aveva in pronto ogni espediente necessario a rintuzzare gli assalti degli eretici, a giustificare le verità da essi vituperate e misconosciute, a dimostrare la falsità e l’insussistenza delle opinioni mutabili delle sette e preservare i figli suoi dall’errore, acciocché non si lasciassero, come fanciulli, portare qua e là da ogni vento di umana dottrina (Eph., IV, 14)[2]. Cristo aveva inviato i suoi Apostoli in tutto il mondo, a fine di ammaestrare tutte le genti e condurle ad osservare tutto ciò che aveva loro comandato (Matth. XXVIII, 19). Non apparteneva dunque ai singoli fedeli di scegliersi quali e quante verità piacesse loro di ammettere[3]. Il Salvatore non voleva che una sola Chiesa per tutti; non partiti, non divisioni, non sette. Egli non aveva comandato ai suoi Apostoli di scrivere (nonostante che alcuno di essi l’abbia fatto a ispirazione dello Spirito Santo), ma d’insegnare a voce. Più antica perciò della Scrittura è la Tradizione (paradosis, Gal. I, 8; II Thess. II, 14, 10), e dacché la fede nasce dall’udito (Rom. X, 17, I Cor., II, 4 seq.), la parola viva non mai divenne, in qualsiasi incontro, inutile o superflua, neppure dopo le Scritture del nuovo Testamento. Le quali del resto non comparvero che assai dopo la fondazione della Chiesa, e ad ogni modo, presuppongono l’insegnamento a voce della Chiesa medesima, né si distendono che a certi punti particolari, secondo che se ne dava l’occasione; non essendo per sé ordinate a mettere innanzi un proprio sistema di dottrine teologiche, né un codice di leggi, nel pieno senso della parola.

[1] Dei Padri, vedi Ignat., Ad Trall. 6 segg., Ad Eph. 7, 9; Ad Philad. 3; Ad Smyrn. 4, 7; Theophil. Ad Autol. n, 14; Iren., Adv. haer. III, 3, 4; 4, 2; IV, 26, 3, ap. Eus., Hist. eccl. V, 20. Clem., Strom. VII, 16. Orig., Hom. 10 in Iosue; in Matth. comm. ser. n. 120. Il Chirographum di Prassea, ap. Tert. Adv. Prax. c. 1. Riabilitazione di Cerdone, Iren. III, 4, 3.

[2] Iustin., Dialog. c. 35, 80, 82. Tertull., De praescr. c. 1; intorno alla relazione degli eretiei colla Bibbia. cfr. Tert. ibid. c. 37.

[3] […] Tert., De praescr. c. 6: Haereses dictae graeca voce ex interpretatione electionis, qua quis sive ad instituendas, sive ad suscipiendas eas utitur. Ps.-Athan., Quaest. in N. T. q. 38. (Migne, Patr. gr. XXXVIII, 274: eresia si dice dal prescegliere alcuna opinione di proprio e a questa aderire. Cf. Hier. In Gal. c. 6. Isid., Hisp. Orig., VIII, 3. Presso gli antichi, haresis non era solamente scelta, ma istituto di vita prescelto, e parteggiamento sì nel riguardo politico, sì nel religioso. Così presso Filone, Giuseppe Flavio, e negli Atti XV, 5; XXVI, 5; cf. I Cor. XI, 19; Gal. V, 20 […].