"Il primo pontefice intervistato in un talk viaggia sulla stessa frequenza dei suoi intervistatori. Francesco, così nemico della mondanità, si è fatto amico il mondo".
QUI e in fondo al post il video di Corrado Gnerre: "Quattro riflessioni in merito all’intervista a papa Francesco da Fabio Fazio".
Ne faremmo volentieri a meno.
Luigi C.
Tommaso Scandroglio, 17-1-24, La Nuova Bussola Quotidiana
Il Papa è andato da Fazio. Un Papa da un altro papa. Perché anche il secondo ama pontificare. I due viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda. Ed infatti è la seconda volta che Francesco viene intervistato dal fratacchione che dalla Rai è migrato al sole del denaro, sui lidi della Nove.
Francesco è il primo Papa della storia che viene intervistato in un talk. Giovanni Paolo II fece solo una telefonata, una volta, intervenendo a Porta a Porta e Bruno Vespa, sfoderando in quella occasione signorilità e alta professionalità, non si permise di fare nemmeno un accenno di domanda, sebbene l’occasione fosse ghiotta perché storica.
I tempi cambiano e con essi i papi. Il Papa da Fazio è diventato ancora più pop. Francesco ama essere popolare, appunto pop. Nei toni: le sue encicliche hanno i medesimi accenti colloquiali, imprecisi ed ondivaghi della chiacchierata avuta con Fazio. E nei contenuti: Francesco sfoggia sempre lo stesso frasario stereotipato che non urta nessuno se non quelli impegnati sulle barricate a difendere scampoli di verità. I luoghi comunisti del Pontefice venuto dalla fine del mondo – epiteto che sinistramente si può intendere in senso temporale – provano solo che esiste anche la banalità del bene (cit.). La guerra è male e bisogna dialogare, è difficile fare la pace, dietro le guerre c’è il commercio delle armi, l’uomo è libero di decidere cosa fare, bisogna parlare e ascoltare i bambini, e fare lo stesso con i nonni, il Signore ci accoglie per quello che siamo. La fede è diventata una confort zone.
Dicevamo che il Papa da Fazio diventa sempre più pop, ossia contribuisce ad erodere l’autorità del vicario di Cristo – appellativo che Francesco ha cancellato dall’annuario pontificio – sebbene egli tenga stretto il suo ruolo autoritario. Di facciata bonaccione, dietro la facciata autocratico. Lo smantellamento della figura papale è iniziato, come è noto, da quel «Buonasera» pronunciato senza paramenti la sera della sua elezione. Un «Buonasera» che ha dato la buonanotte al «Sia lodato Gesù Cristo» e dunque al ruolo di pontefice. Poi è proseguito con le telefonate erga omnes, la Panda, le scarpe nere e non rosse, la borsa portata da sé, le strette di mano che hanno sostituito i baciamano, i selfie fatti con i fedeli, la improvvisata, così studiata, in un negozio di dischi nella capitale, i social. Da qui la copertina su Rolling Stone e i suoi interventi su Sportweek, Vanity Fair Italia, Vogue Italia e la Gazzetta dello Sport, contrappuntanti dagli accondiscendenti dialoghi su Repubblica con un altro papa, più laico di lui, Eugenio Scalfari. E perché allora non spingersi con coerenza oltre e partecipare ad un reality? Non sarebbe un modo efficace per farsi sentire vicino alla gente?
Il 4 maggio 1952 La Domenica del Corriere mise in prima pagina il disegno di un Pio XII che in accappatoio si faceva la barba con un rasoio elettrico. Guareschi criticò quella scelta così svilente per la persona del Pontefice. Perché, diciamo noi, il Papa puoi anche sentirlo come uno di famiglia, ma a patto di non minare la sua sacralità, di immiserire la sua trascendenza. In The Young Pope di Sorrentino, il fantastico e fantasioso Pio XIII, di fronte alla possibilità di stampare la sua faccia su alcuni piatti commemorativi, risponde sdegnato che non avrebbe messo nulla perché è il nulla a rappresentare al meglio l’elevatissima dignità del Pontefice che infatti è qualificato come sommo. Pontifex per i latini è il costruttore di ponti, significato poi traslato in ambito religioso: per i Romani il pontefice è colui che costruisce un ponte tra la terra e il cielo. I ponti evocati spesso da Francesco invece collegano solo le persone tra loro su questa terra, non sfidano la verticalità del Cielo, ma rimangono orizzontali come gli aneliti di un cuore borghese.
Pio XIII aveva ragione: bisogna fare come Mina, Salinger, Kubrick, Banksy, i Daft Punk. «Nessuno di loro si fa vedere. Nessuno di loro si lascia fotografare. L’assenza è presenza». Spariti dalla scena diventano mito. L’assenza e non la presenza in TV è la forma del mistero, dell’assolutamente altro, della trascendenza che travalica le polverose e scontate minutaglie del quotidiano. È il silenzio a dire tutto e questo perché se il Papa fa un passo indietro, Dio fa un passo avanti. Un Papa per la gente, nella gente, tra la gente, con la gente non fa il papa, ma l’agente di commercio che vende il proprio prodotto. Le continue interviste, le miliardi di parole scritte e dette, la valanga di foto hanno lo stesso effetto della decisione di battere sempre più moneta a fronte della medesima fonte aurea: la svalutazione.
Allora salvateci da un Papa artatamente ordinario, personificazione attoriale della normalità, schiacciato sul consueto e sul solito, prevedibilissimo, fan del convenzionale, ricoperto dagli stracci della futilità. Lui così nemico della mondanità si è fatto amico il mondo. E poi un Papa pop non suscita l’identificazione di chi vuole distinguersi dalla massa, sfuggire dall’omologazione: solo i santi ci riescono. Lo vogliamo invece non popolare, ma impopolare perché controcorrente e non per partito preso o perché originale, ma solo perché «la verità offende per sua natura» (R. Scruton, Bevo dunque sono, 2010, p. 27). Lo vogliamo fatto di spirito che non si abbassa a parlare di condizionatori e di raccolta differenziata. Lo vogliamo perso nel Cielo, irraggiungibile, che risplenda della regale umiltà che rifugge la massa, le foto, i microfoni, le telecamere: perché è bene umiliare la propria persona, non la Cattedra di Pietro. Lo vogliamo così trasparente e diafano che attraverso lui possiamo vedere Dio. Non lo vogliamo presenzialista, ma assenteista da ciò che è transeunte perché totalmente assorbito dall’eterno, dalle cose ultime: l’ordito e la trama delle nostre speranze. La via d’uscita al non senso che ammorba le esistenze inconsapevoli di molti.
La sovraesposizione mediatica, invece, lascia in bocca a credenti e non credenti un sapore insipido e nell’anima una fastidiosa sensazione di piattume, financo di mediocrità, di noia alla Sartre. La liquefazione della figura del pontefice avviene perché lo stesso si pone come prodotto commerciale da consumare. Ma sullo scaffale di questo supermercato che è la contemporaneità lui scompare, dal momento che non ha più caratteristiche specifiche che lo differenziano da un Mattarella presidente della Repubblica o da un esotico Dalai Lama. Viene annullato perché comune: non più distinto, ma indistinto.
Il suo profilo scolora, si fa scialbo perché cerca la novità soprattutto dottrinale, ma finendo solo per rispolverare vecchie eresie così consuete per i nostri compagni di viaggio postmoderni. Il nuovo è appannaggio di Cristo che fa nuove tutte le cose. Al di fuori di Lui, il nuovo è appannaggio dei pubblicitari, degli inventori – e a quante invenzioni abbiamo assistito negli ultimi anni! – degli imprenditori, dei circensi. I Papi invece devono custodire il vecchio, perché il deposito della fede fu sigillato per sempre con la morte dell’ultimo apostolo, certi che quelle verità così antiche faranno nuovi tutti gli uomini.