Una bellissima descrizione di un racconto di Dickens, dell'amico Paolo Gulisano.
Luigi
Paolo Gulisano, 23-12-22
La cultura dominante non sopporta il Natale, e non è difficile comprenderne i motivi: si celebra la nascita di Gesù, il Figlio di Dio che viene nel mondo per salvarci dal male. Ciò è evidentemente insopportabile per chi non vuole riconoscere l’esistenza del problema del male e tanto meno che Dio possa essere la risposta. Il Natale viene dunque avversato in molti modi, e dopo gli episodi degli scorsi anni di avversione manifesta, con divieto di Presepi e benedizioni, ora questa cultura si è fatta più furba: non l’eliminazione del Presepe, ma la sua manipolazione, realizzando delle parodie di presepi. Per non dire degli altri Natali, quelli consumistici, che ormai da anni ci tediano con lustrini televisivi e proposte per gli acquisti.
Insomma, lo abbiamo capito, il Natale deve essere svuotato della sua ricchezza spirituale e deve essere visto – anche per non offendere chi cristiano non è – solo come una sorta di festa della bontà. A Natale si è tutti più buoni, no? In realtà si è solo un po’ più buonisti, e quindi ipocriti. Come celebrare la Bontà vera, dunque? In particolare, se uno – nonostante tutto – proprio non è cristiano. Un modo c’è. C’è un Natale autentico, laico ma non laicista, buono ma non buonista, ed è quello raccontato dal grande Charles Dickens.
Nelle programmazioni televisive ancora si può trovare qualche versione di un vero e proprio mito. C’è solo l’imbarazzo della scelta, poiché sono venti i film e cinquanta gli sceneggiati televisivi tratti dal meraviglioso Canto di Natale di Dickens. Un’opera che nel mondo anglosassone riveste un valore di riferimento archetipico, prima ancora che simbolico.
L’autore del Circolo Pickwick, di Oliver Twist e altri romanzi di grandissimo successo fu una delle voci più significative dell’epoca vittoriana, la voce della coscienza profonda dell’Inghilterra tetra, cinica e industrializzata, che diede espressione ai drammi della gente comune più che alle glorie imperiali. Dickens era figlio di una famiglia povera e schiacciata dai debiti, costretto a lavorare in fabbrica fin da ragazzo per sopravvivere e mantenere la famiglia.
La sensibilità non comune al lacerante dramma della giovinezza violata, e la capacità altrettanto sorprendente di esporre tanto dolore mediante una scrittura snella e talora umoristica, consacrarono già la sua opera prima, Il circolo Pickwick, alla popolarità e al plauso di una società non meno schiacciata dal lavoro e dalla povertà.
Dickens realizzò, col Canto di Natale, un’opera piena di umanità e magia buona, che ne fa un piccolo capolavoro insuperato nel suo genere, un racconto scritto nell’inverno del 1843, con l’urgenza di inviare “qualcosa” all’editore, con poco tempo a disposizione, per poter trascorrere un Natale decente. Ne nacque un libro che scosse profondamente i lettori dell’Inghilterra industrializzata, impegnata a produrre con la maggior velocità possibile e che non aveva più il tempo né la voglia di entusiasmarsi per una festività, quella del 25 dicembre, che non era in fondo niente più che un momento importante del tempo liturgico cattolico, nonché un giorno di sospensione per la catena di produzione.
Il Canto di Natale non è, come erroneamente molti pensano, un raccontino natalizio sentimentale e buonista, ma un’opera semplice e dotta allo stesso tempo, ricca di spunti e riferimenti, tratti tanto dalla Bibbia, quanto dall’Amleto, passando per la Divina Commedia.
Dickens in questo racconto inventò anche un’espressione destinata a diventare tradizionale: “Buon Natale”. Egli fu il primo ad accostare l’aggettivo “buono” alla parola “Natale” e di conseguenza è anche colui al quale il mondo deve l’augurio più famoso dell’anno.
Ma il Canto va ben al di là di un raccontino a lieto fine per divenire una parabola, un elogio e una sorta di vero e proprio manifesto programmatico del prendersi cura. Un racconto che diventa un viaggio quasi dantesco alla scoperta, o meglio alla riscoperta, del valore del tempo e dello spazio dedicato a se stessi e agli altri, mediante il viaggio, simbolico ed esemplare, di Ebenezer Scrooge, attraverso una serie di incontri visionari che ricordano, oltre al viaggio di Dante con la guida di Virgilio, anche l’incontro tra Amleto e lo spettro del padre. Analogamente a Shakespeare, Dickens, ovunque ma qui con molta più evidenza, fonde la visione con la realtà quotidiana e mescola, come il maestro, il registro tragico a quello fiabesco e a quello comico.
Non per niente tra le tante versioni cinematografiche del racconto quella che è forse la più bella è Canto di Natale di Topolino, realizzato nel 1983 dalla Disney, cartoni animati non digitali, magnifica fiaba natalizia, con protagonista uno straordinario Paperone (e d’altra parte Scrooge Mc Duck è il nome originario dato dagli autori Disney al papero avaro), in una rappresentazione davvero fedele a Dickens. Si potrebbe anzi dire che il cartone animato è il genere cinematografico più spirituale, fantasmatico, visto che può fare a meno anche della presenza corporea degli attori. Ed è sempre stato in grado di generare stupore, che è esattamente quello che voleva suscitare nei lettori Dickens. Canto di Natale è un itinerario fantastico alla riscoperta del significato della propria esistenza.
Il ricco avaro e misantropo Ebenezer Scrooge, nella sua Londra bancaria e usuraia, in un mondo borghese, dove ciò che conta sono solo gli affari e il profitto, per una notte lascia la sua City: gli viene offerta la possibilità di un viaggio, una straordinaria e terribile avventura: un itinerario nel proprio passato, prima, e poi nel proprio futuro, e quindi nel presente che sarà infine rigenerato. C’è un po’ di horror, di gotico, in questa storia, che si trasfigura poi nella dimensione del fiabesco, della fiaba buona. Scrooge l’avaro, l’anaffettivo insensibile al dolore degli altri, viene trasformato, e salvato.
È dunque una fiaba laica, perché non c’è Cristo, non c’è la Natività, la Sacra Famiglia, ma è un racconto esemplare di una nascita, anzi, di una rinascita. La storia di una salvezza. Ancora Chesterton diceva: “La più enorme e originale delle idee alla base dell’Incarnazione è che una buona volontà s’incarni; che venga, cioè, messa in un corpo. Un regalo di Dio che può essere visto e toccato: se l’epigramma del credo cristiano ha un punto essenziale è questo. Lo stesso Cristo è stato un regalo di Natale.”
Dickens ci offre dunque una fiaba che è una stupenda allegoria del Natale, della venuta del Salvatore come dono. Una allegoria che è molto meglio di tutti i tentativi di manipolazione ideologica, che il grande Chesterton aveva profeticamente previsto: “la moderna teologia proverà a convincerci che il Bambino di Betlemme è solo un’astrazione che rappresenta la totalità dei bambini, e la Madre di Nazareth solo un simbolo metafisico della maternità. La verità è un’altra: la narrazione della Natività ha un valore pienamente universale proprio perché riguarda una sola madre e un solo figlio, singoli e concreti. Infatti, se Betlemme non fosse particolare, non sarebbe popolare”. Sotto l’albero, la notte di Natale, rileggiamoci ancora una volta il Canto di Dickens.