Riportiamo – parzialmente in nostra traduzione – una ampia selezione delle risposte della lunga intervista rilasciata da Papa Francesco al giornalista Javier Martínez-Brocal e pubblicata sul quotidiano spagnolo ABC il 18 dicembre, in cui stigmatizza la guerra in Ucraina: «È globale, non vedo la fine a breve termine» e poi annuncia: «Tra due anni una donna a capo di un Dicastero» (in nome del politicamente corretto, nuovo dogma dalle parti di Santa Marta).
Ma soprattutto, dopo aver affermato che come regalo per Natale chiederebbe «la pace nel mondo» (in stile casting per Miss Argentina), aver palesato per l’ennesima volta il suo chiodo fisso – ormai maniacale – sull’«indietrismo» (QUI una rapida carrellata su MiL) ed essersela presa con la Tradizione/tradizionalismo (su cui ha poche idee e ben confuse: «il tradizionalismo è la fede morta dei vivi»), rivela di aver consegnato ad inizio Pontificato al card. Tarcisio Bertone S.D.B., allora Segretario di Stato, una lettera nella quale dichiara di rinunciare «in caso di impedimento medico» (confondendo il caso del venerabile Papa Pio XII, il quale predispose una lettera di dimissioni per salvare il Papato e da utilizzare in caso di propria cattura da parte dell’esercito tedesco, che aveva appena fatto irruzione nella Basilica patriarcale maggiore di San Paolo fuori le mura, dando contestualmente istruzioni di tenere il conseguente conclave nella città di Lisbona): una lettera di cui ammette di non conoscere il detentore attuale né che fine abbia fatto: agghiacciante.
L.V.
Ennesima intervista del Papa, tra politicamente corretto, indietrismo (ancora!) e dimissioni vaganti (agghiacciante!)
— Come sta il ginocchio?
— La trovo molto bene…
— (Ride) Sì, ho già raggiunto l’età in cui si deve dire «Ma come stai bene!».
— Quando la vidi sulla sedia a rotelle pensai che l’agenda si sarebbe ridotta, invece si è triplicata.
— Si governa con la testa, non con il ginocchio.
— Il 13 marzo festeggerà dieci anni da Papa. La sua elezione ci ha colti tutti di sorpresa.
— Anche a me. Avevo prenotato il biglietto per tornare a Buenos Aires in tempo per la domenica delle Palme. Ero molto calmo.
— Come ha imparato a essere Papa?
— Non so se ho imparato o meno… La storia ti coglie dove sei.
— Cosa trova più difficile dell’essere Papa?
— Non poter camminare per strada, non poter uscire. A Buenos Aires ero molto libero. Usavo i mezzi pubblici, mi piaceva vedere come si muovevano le persone.
— Ma lei vede ancora molte persone…
— Il contatto con le persone mi ricarica, per questo non ho cancellato neanche un’udienza del mercoledì. Ma mi manca uscire per strada perché ora il contatto è funzionale. Vanno «a vedere il Papa», quella funzione. Quando uscivo per strada, non sapevano nemmeno che fossi il cardinale.
— Qui a Santa Marta vede molte persone. Alcuni sembra che se ne approfittino e facciano intendere di essere amici del Papa per i propri interessi.
— Sei o sette anni fa un candidato argentino venne a Messa. Hanno scattato una foto fuori dalla sacrestia e gli ho detto: «Per favore, non la usare politicamente». «Può star tranquillo», mi ha risposto. Una settimana dopo, Buenos Aires fu tappezzata di quella foto, ritoccata per far sembrare che si trattasse di un’udienza personale. Sì, a volte mi usano. Ma noi usiamo Dio molto di più, quindi sto zitto e vado avanti.
— Deve anche essere difficile il fatto che venga calibrata ogni parola che lei pronuncia.
— A volte lo fanno con un’ermeneutica previa a ciò che ho detto, per portarmi dove vogliono che vada. «Il Papa ha detto questo»… Sì, ma l’ho detto in un determinato contesto. Se la si toglie dal contesto significa un’altra cosa.
— Nessun Papa ha mai fatto conferenze stampa o interviste parlando così liberamente.
— I tempi cambiano.
— Quale regalo chiederebbe per questo Natale?
— La pace nel mondo. Quante guerre ci sono nel mondo! Quella in Ucraina ci tocca più da vicino, ma pensiamo anche al Myanmar, allo Yemen, alla Siria, dove si combatte da tredici anni…
(…)
— Santo Padre, lei si rivolge spesso a coloro che sono lontani, ma non le preoccupa che coloro che sono più vicini alla Chiesa possano sentirsi trascurati?
— Se sono bravi, non si sentono trascurati. Se hanno qualcosa di seminascosto, che nemmeno loro conoscono, sono come il figlio maggiore nella parabola del figliol prodigo: «Ti ho servito per tanti anni, e ora ti occupi di lui, e non mi dai retta». È un peccato brutto, di ambizione nascosta, di voglia di apparire, di essere presi in considerazione, così si potrebbe interpretare… È un po’ come vivere l’appartenenza alla Chiesa come un luogo di promozione.
— Questo dualismo tra chi è lontano e chi è vicino può anche essere classificato come visione progressista ed essenzialista. Il suo pontificato ha ormai dieci anni e una delle critiche che le sono state rivolte è che lei ha posto molta enfasi sui settori, per così dire, svantaggiati, mentre i settori più tradizionali sentono una certa mancanza di comprensione. La colpisce in qualche modo il fatto che alcune correnti storicamente più vicine alla Chiesa ritengano che non si presti la stessa attenzione alle questioni dottrinali?
— L’attenzione rimane la stessa. A volte ci sono posizioni di fede immature, che non si sentono sicure e sono legate a una cosa, si aggrappano a ciò che è stato fatto prima. Il problema non è la tradizione. La tradizione è fonte di ispirazione. La tradizione è la nostra radice che ci fa crescere e ci fa andare avanti e crescere e crescere verticalmente. Il problema è andare indietro.
— In che senso?
— In italiano lo chiamo «indietrismo»: «No, è meglio essere come prima», «è più sicuro», «non correre rischi». Questa marcia indietro. E la Lettera agli Ebrei dice: «Non siamo gente che va indietro, ma in avanti». Il peccato di andare indietro per sicurezza. E credo che questo accada nella Chiesa.
— Per paura del presente o del futuro…
— Il futuro. Un musicista diceva che la tradizione è la garanzia del futuro. E ancora, che la tradizione è la fede viva dei morti; ma il tradizionalismo è la fede morta dei vivi. La tradizione deve tirarti su, ti fa crescere.
— Ortega y Gasset scriveva che il passato gli piaceva proprio perché era il passato, e il problema è di chi vuole trasformare il passato in presente.
— Il passato ispira il presente. Intendo dire che il tentativo di impacchettare tutto non funziona. La fede si sviluppa, cresce e cresce la morale, ma naturalmente non in tutti i sensi. Vincenzo di Lerins diceva che questo sviluppo deve essere «ut annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate». Cioè, in modo tale che crescendo si consolida, diventa più ampio con il tempo e molto più fine con gli anni.
— Quando era cardinale ha detto: «Cerco di essere fedele alla Chiesa, ma sempre aperto al dialogo».
— Senza un orizzonte non si può vivere. Dovete avere le radici della fede ben radicate, ma con un orizzonte di crescita. Altrimenti non ci sarebbe libertà, né libertà cristiana.
— Sono passati dieci anni anche dalla rinuncia di Benedetto.
— Lo visito spesso e vengo edificato dal suo sguardo trasparente. Vive in contemplazione… Ha un buon senso dell’umorismo, è lucido, molto vivo, parla piano ma segue la conversazione. Ammiro la sua lucidità. È un grande uomo.
— Che cosa apprezza di più di Benedetto?
— È un santo. È un uomo di alta vita spirituale.
— Quando vedo le recenti foto di Benedetto, che ha 95 anni, sorge l’inevitabile riflessione che sarebbe stato molto difficile per lui governare la Chiesa se non avesse presentato la rinuncia.
— I ‘futuribili’ sono sempre ingannevoli, quindi non entro in questi discorsi.
— Ha intenzione di definire lo status giuridico di Papa emerito?
— No. Non l’ho toccato affatto, né mi è venuta l’idea di farlo. Ho la sensazione che lo Spirito Santo non ha interesse a che mi occupi di queste cose.
— Ha nominato diverse donne per alte cariche della Curia, ma ancora nessuna come numero uno di dicastero…
— È vero. Ma ci sarà. Ne ho in mente una per un dicastero che si renderà vacante tra due anni. Non c’è nessun ostacolo a che una donna guidi un dicastero dove un laico possa essere prefetto.
— Da cosa dipende?
— Se si tratta di un dicastero di natura sacramentale, deve essere presieduto da un sacerdote o da un vescovo. Anche se si discute se l’autorità provenga dalla missione, come sostiene il cardinale Ouellet, o dal sacramento, come sostiene la scuola di Rouco Varela. È una bella discussione tra cardinali, una questione che i teologi continuano a discutere.
— Benedetto XVI aveva iniziato a incontrare vittime di abusi e lei ha continuato a farlo. Immagino che questa sia la parte più difficile della sua missione.
— È molto doloroso, molto doloroso. Si tratta di persone che sono state distrutte da chi avrebbe dovuto aiutarle a maturare e a crescere. Questo è molto duro. Anche se si trattasse di un solo caso, è mostruoso che la persona che dovrebbe condurti a Dio ti distrugga lungo la strada. E su questo non è possibile alcun negoziato.
— Dopo uno di questi incontri, ha deciso di riaprire un caso di abuso in Spagna, nella scuola di Gaztelueta.
— La vittima mi ha raccontato la sua storia e che non aveva ricevuto alcuna risposta dal processo vaticano. Sono venuto qui e l’ho fatto controllare. C’era stato un processo, ma poiché c’era stata una sentenza civile, si erano accontentati di quella e non avevano proceduto. Ho quindi nominato un tribunale, presieduto dal vescovo di Teruel, e le cose sono in corso. Non so dirvi a che punto sia, ma so che è in buone mani. Ma non è l’unico ad essere stato riaperto. C’è un altro caso di un sacerdote spagnolo. Il processo era stato avviato, ma lui si era smarrito. L’ho trasmessa alla Rota spagnola. E il presidente della Rota sta portando avanti la questione. Li abbiamo riaperti senza alcuno scrupolo.
— Pensa che la società percepirà che la Chiesa sta finalmente agendo con decisione per eliminare e perseguire i casi di abuso? Pensa che la Chiesa sarà «perdonata»?
— Il fatto che stiamo camminando su questo è un buon modo. Ora, non dipende solo da noi se il perdono sarà raggiunto o meno. Ma c’è una cosa che voglio dire. Dobbiamo interpretare i problemi con l’ermeneutica del loro tempo. Come facciamo con la schiavitù. A quel tempo si discuteva se gli schiavi avessero o meno l’anima. È ingiusto giudicare una situazione antica con l’ermeneutica di oggi. L’ermeneutica di un tempo era quella di nascondere tutto, come purtroppo avviene oggi in alcuni settori della società, come le famiglie e i quartieri.
— Ha una spiegazione per gli insabbiamenti del passato?
— È un progresso dell’umanità che sta diventando sempre più consapevole di questioni morali che non devono rimanere tali. Sta diventando sempre più consapevole. E questo è stato il coraggio di Benedetto. Secondo le statistiche, tra il 42 e il 46% degli abusi avvengono in famiglia o nel vicinato e vengono insabbiati. Lo facevamo anche noi, fino a quando non sono scoppiati gli scandali a Boston, intorno al 2002. Perché? La mia spiegazione è questa: non c’è abbastanza forza per affrontarli. Capisco che non sappiano come affrontarli, ma non li giustifico. Prima la Chiesa li ha coperti, poi ha avuto la grazia di allargare lo sguardo e di dire «no», fino alle ultime conseguenze.
— Non vi sentite frustrati quando vedete che i progressi sono lenti in questa battaglia?
— Vedo che purtroppo è un male molto grande, e che lo stiamo affrontando «un po’ alla volta»… Stiamo facendo questi passi, grazie a Dio. Ma c’è un punto degli abusi che per me rimane un mistero.
— Che cos’è?
— Video-pornografia con minori, prodotta in diretta. Dove viene prodotta? In quale paese? Chi lo sta coprendo? A questo punto dovremmo richiamare l’attenzione dei responsabili della società sul fatto che i gruppi che filmano la pornografia infantile continuano a operare sotto quale copertura? È un grido di aiuto.
— Cosa dice a coloro che vedono la loro fede scossa quando vengono alla luce nuovi casi?
— È positivo che siate rimasti scioccati da questa situazione. Vi spinge ad agire per prevenirlo, a fare la vostra parte. Non mi fa paura. Se la fede è scossa, è perché è viva. Altrimenti non si sentirebbe nulla.
— Immagino che sulla scrivania del Papa arrivino domande di ogni tipo, che lo costringono a prendere una grande varietà di decisioni. Che consiglio darebbe ai suoi successori?
— Direi loro di non commettere gli errori che ho commesso io, punto e basta.
— Ci sono molti errori?
— Sì, ci sono, sì.
— Sorprende il fatto che i cardinali creati da lei provengano da ambienti molto diversi, che quindi si conoscono poco tra loro. Non pensa che questo renderà più difficile il lavoro dei futuri conclavi?
— Certo! Sì, dal punto di vista umano. Ma è lo Spirito Santo che vi opera nel conclave. C’è stato qualcuno, non so chi, che ha proposto che nella elezione del nuovo Papa partecipino solo i cardinali che abitano a Roma. È questa l’universalità della Chiesa?
— Papa Francesco, una domanda delicata: cosa succede se un pontefice resta improvvisamente impedito da problemi di salute o da un incidente? Non sarebbe opportuna una norma per questi casi?
— Io ho già firmato la mia rinuncia. Era quando Tarcisio Bertone era segretario di Stato. Ho firmato la rinuncia e gli ho detto: «In caso di impedimento medico o che so io, ecco la mia rinuncia. Ce l’hai». Non so a chi l’abbia data Bertone, ma io l’ho data a lui quando era segretario di Stato.
— Vuole che questo si sappia.
— Per questo te lo sto dicendo.
— Anche Paolo VI ha lasciato scritte le sue dimissioni in caso di impedimento.
— Esatto, e credo che anche Pio XII l’abbia fatto.
— Lei non l’aveva mai detto prima.
— È la prima volta che lo dico. Ora forse qualcuno andrà a chiedere a Bertone: «Dammi quella lettera»… (Ride). Sicuramente lui l’avrà consegnata al nuovo segretario di Stato. Gliel’ho data in quanto segretario di Stato.
— Iniziamo a pensare che una visita di Papa Francesco in Spagna sia quasi impossibile.
— La mia prima scelta è stata quella di visitare i Paesi più piccoli d’Europa. Non sono stato in nessun paese grande d’Europa. Sono andato a Strasburgo, e non per la Francia, ma per visitare le istituzioni europee. Forse l’anno prossimo andrò a Marsiglia per l’Incontro del Mediterraneo, ma non è un viaggio in Francia.
(…)
— A proposito, visto che parla di Catalogna, quale dovrebbe essere il ruolo della Chiesa in questa vicenda?
— La Spagna non è un caso unico al mondo. Ogni Paese deve trovare il proprio percorso storico per risolvere questi problemi. Non esiste un’unica soluzione. Alcune aree hanno ottenuto status preferenziali per risolvere questi problemi, mentre in altre sono state fatte delle divisioni ed è nato un nuovo Paese. È questo il momento della soluzione definitiva per la Catalogna? Non lo so. Questo lo dovete dire voi. Un paio di anni fa abbiamo visto il coraggio di due primi ministri nel risolvere il problema della Macedonia, la Macedonia del Nord. In Italia abbiamo una zona del nord, l’Alto Adige, con uno statuto proprio, dove si parla tedesco e italiano. Gli inglesi hanno risolto le richieste della Scozia «alla maniera inglese».
— La Catalogna gode già di un’autonomia legale molto ampia e il problema è che una parte molto ampia della popolazione rifiuta il movimento secessionista.
— Ma questo non è un problema originale. Questo è accaduto nel corso della storia e nella storia contemporanea, e molte volte in altri Paesi è stato risolto totalmente o parzialmente. Potrebbero volerci anni o decenni per risolverlo. Ma trovate un modo per risolverlo.
— La Chiesa deve svolgere un ruolo (in questo processo) o deve astenersi?
— La Chiesa deve essere incarnata. Se non è incarnata, non va bene, deve accompagnare il suo popolo. Ciò che la Chiesa non può fare è far propaganda per una parte o l’altra, ma sì accompagnare il popolo affinché possa trovare una soluzione definitiva.
— Questo ha creato a volte dei problemi, con i sacerdoti che incoraggiano l’indipendenza, anche nei Paesi Baschi in un certo periodo alcuni sacerdoti hanno dato copertura al terrorismo.
— Purtroppo, quando l’identità sacerdotale si distrae un pochetto, deriva verso la politica. Quando un prete si immischia nella politica, non va bene… Il prete è pastore. Deve aiutare le persone a fare buone scelte. Accompagnarli. Ma non fare il politico. Se vuoi far politica, lascia il sacerdozio e diventa un politico.
(…)
— In Spagna, a molti dispiace la reinterpretazione negativa della storia della Scoperta dell’America.
— L’ermeneutica per interpretare un evento storico deve essere quella del suo tempo, non quella attuale. È ovvio che lì sono state uccise delle persone, è ovvio che c’è stato uno sfruttamento, ma anche gli indiani si sono uccisi a vicenda. L’atmosfera di guerra non fu esportata dagli spagnoli. E la conquista apparteneva a tutti. Distinguo tra colonizzazione e conquista. Non mi piace dire che la Spagna ha semplicemente «conquistato». È discutibile, quanto volete, ma ha colonizzato. Se si leggono le direttive dei re spagnoli dell’epoca su come dovevano agire i loro rappresentanti, nessun re di nessun altro Paese fece tanto. La Spagna entrò nel territorio, gli altri Paesi imperiali rimasero sulla costa. La Spagna non ha fatto pirateria. Bisogna tenerne conto. E dietro a questo c’è una mistica. La Spagna è ancora la Madrepatria, cosa che non tutti i Paesi possono dire.
— Alcune voci in America Centrale chiedono al Vaticano di essere più incisivo contro regimi totalitari come Ortega in Nicaragua o Maduro in Venezuela. Perché il Vaticano è così cauto?
— La Santa Sede cerca sempre di salvare i popoli. La sua arma è il dialogo e la diplomazia. La Santa Sede non se ne va mai da sola. Viene espulsa. Cerca sempre di salvare le relazioni diplomatiche e di salvare ciò che può essere salvato con pazienza e dialogo.
— Cosa pensa del caso di Lula, di nuovo presidente del Brasile dopo essere stato processato e incarcerato?
— È un caso paradigmatico. L’iter processuale è iniziato con notizie false sui media, «fake news», che hanno creato un’atmosfera che ha favorito il suo processo. Il problema delle «fake news» sui leader politici e sociali è molto serio. Possono distruggere una persona.
— Lula è stato condannato per corruzione passiva, ha trascorso 580 giorni in carcere e gli è stato impedito di candidarsi alle elezioni presidenziali del 2018. Nel 2021, la Corte Suprema ha annullato tutte le sentenze contro Lula perché chi lo ha processato non aveva competenza di giurisdizione.
— Non so come sia andata a finire. Non dà l’impressione che si sia trattato di un processo alla altezza. E a questo proposito, guardatevi da coloro che creano l’atmosfera per un processo, qualunque esso sia. Lo fanno attraverso i media in modo tale da influenzare coloro che devono giudicare e decidere. Un processo deve essere il più pulito possibile, con tribunali di prima classe che non abbiano altro interesse che mantenere pulita la giustizia. Questo caso in Brasile è storico, non mi occupo di politica. Sto raccontando quello che è successo.
— Lei si è espresso più di 100 volte contro la guerra in Ucraina.
— Faccio quello che posso. Non ascoltano. Ciò che sta accadendo in Ucraina è terrificante. C’è un’enorme crudeltà. È una cosa molto seria. Ed è questo che denuncio continuamente.
— Lei cerca di svolgere il ruolo di mediatore, ma c’è chi, da entrambe le parti, critica le sue parole.
— Qua ricevo tutti. Ora Volodymir Zelenski mi ha mandato per la terza volta uno dei suoi consiglieri religiosi. Sono in contatto, ricevo, aiuto…
— Spera in una fine della guerra a breve termine?
— Non vedo una fine a breve termine perché si tratta di una guerra mondiale. Non dimentichiamolo. Ci sono già diverse mani coinvolte nella guerra. È globale. Credo che una guerra venga combattuta quando un impero inizia a indebolirsi, e quando ci sono armi da usare, da vendere e da testare. Mi sembra che ci siano in mezzo molti interessi.
— Come possiamo interpretare i cambiamenti che ha chiesto all’Opus Dei?
— La questione non riguarda l’Opus Dei, ma le «prelature personali». Nello schema della Curia, l’Opus Dei dipendeva dalla Congregazione dei Vescovi, ma nel Codice di Diritto Canonico le prelature sono inquadrate diversamente e i criteri dovevano essere unificati. La questione è stata studiata e si è detto «che la prelatura vada alla Congregazione del Clero». L’ho fatto dialogando con loro. Inoltre, da quando stavo in Argentina sono amico di Mariano Fazio (vicario generale dell’Opus Dei). Si è trattato di una decisione serena e normale fatta da canonisti, anche i canonisti dell’Opus Dei hanno lavorato durante il processo.
— La decisione ha avuto grande eco.
— Alcuni hanno detto: «Finalmente il Papa le ha date all’Opus Dei…!» Io non gli ho dato niente. E altri, invece, dicevano: «Ah, il Papa ci sta invadendo!» Niente di tutto questo. La misura è una ricollocazione che doveva essere risolta. Non è giusto ingigantire la cosa, né per renderli vittime, né per renderli colpevoli che hanno ricevuto una punizione. Per favore. Sono un grande amico dell’Opus Dei, voglio molto bene alle persone dell’Opus Dei e lavorano bene nella Chiesa. Il bene che fanno è molto grande.
(…)
— Pensa che lei ha in qualche modo cambiato la cultura cattolica, il modo di essere cattolici?
— Non ci avevo mai pensato. Penso che un buon cattolico, soprattutto se appartiene a un movimento o a un gruppo, cambi sempre la cultura. Perché porta speranza e una strada da percorrere. E così cresce la cultura.
(…)
— È tranquillo con la Chiesa cattolica in Germania?
— Non mi toglie la pace. Ho scritto loro una lettera chiara. L’ho scritta da solo. Ci ho messo un mese. È stata una lettera come per dire «Fratelli, rifletteteci».
Una bellissima intervista. Non so di cosa vi stiate preoccupando o cosa stiate criticando. Non é andato contro l’”indietrismo” ma ha solamente spiegato che bisogna andare avanti ma dicendo che la tradizione é origine e ispirazione. Non bisogna per forza e obbligatoriamente dire che la Messa Tradizionale é magnifica e non bisogna per forza dire che la Messa Tradizionale é l’unica forma di esistenza della Chiesa. Ognuno può avere e deve avere le sue opinioni. Dio benedica ora e sempre il nostro Papa Francesco e lo conservi ancora a lungo a guida della Chiesa!
RispondiEliminaNon la leggo, non voglio. Preferisco conservare la mia salute mentale.
RispondiEliminaPossiamo discutere sul vezzo degli ultimi papi di rilasciare interviste. In questa si coglie comunque, al di là degli umani limiti che ognuno di noi ha, la sincera sollecitudine del pastore universale.
RispondiEliminaDice che l a Chiesa non può fare propaganda però il giorno dopo incontra la cgil......
RispondiElimina“La tradizione è la fede viva dei morti; ma il tradizionalismo è la fede morta dei vivi”.
RispondiEliminaGrandissima verità!
Un bel gioco di parole ,peccato che sia semplice propaganda ,smaccata autopromozione .Perchè uno che preferisce seguire la messa di sempre abbia una fede morta è un'affermazione inspiegabile ed illogica.Sul lungo periodo questa è una guerra già persa in partenza.Sono gli ultimi fuochi ,fatui,di un cinquantennio di furiosa ed insensata autodistruzione.
RispondiEliminaÈ la verità! Il tradizionalismo non ha niente a che vedere con la fede. È semplicemente un modo per mettersi in mostra e credersi migliori degli altri. Fidati, c’ero dentro anch’io. Sembrava di stare in una setta: gli unici giusti erano loro. Chi andava a messa in parrocchia? Considerato praticamente come un ateo, visto che, nonostante tutti i distinguo che cercano di fare, nessun tradizionalista accetta per buona la nuova messa.
EliminaLa frase del Papa è pienamente azzeccata. È fede morta, ispirata a qualcosa che la grande maggioranza sia dei preti che dei fedeli non ha mai visto o, nel migliore dei casi, ricorda da quando era ragazzo sessant’anni fa. È come una sorta di ritualismo ebraico: conta quello che dici e che fai, non il rapporto che hai con Dio o se sei o no una buona persona.
Anonimo delle 17:19, non si direbbe. Io vedo realtà cosiddette "tradizionali" che sono vive. Nelle chiese dove si celebra con il novus ordo, soprattutto se celebrato in modo sciatto, c'è un calo continuo delle presenze (del resto se si dice che tanto andiamo tutti in paradiso...).
EliminaParole in libertà, come al Bar Sport, non ha neanche senso discuterne. Per fortuna il triste pontificato che ha allontanato molti dalla fede volge al tramonto.
RispondiEliminaMolti ne ha anche riavvicinato.
EliminaNon ha senso discuterne, ma questo non ti ha fermato dallo scrivere un commento.
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