Un bell'articolo di Corrispondenza Romana su un prelato che io stesso conobbi più di 25 anni fa e che mi fece una grandissima impressione.
Da leggere anche per chi non si arrende alla nuova Ostpolitik di questi tempi che non impara dai disastri della vecchia Ostpolitik e che pare persino peggiore della prima.
L
21-2-18
(di Roberto de Mattei) La politica di collaborazione con la
Cina comunista di Papa Francesco ha i suoi diretti antecedenti nell’Ostpolitik
di Giovanni XXIII e Paolo VI. Ma ieri, come oggi, l’Ostpolitik ebbe forti
oppositori, che meritano di essere ricordati. Uno di questi fu il vescovo
slovacco Pavol Hnilica (1921-2006) che voglio ricordare basandomi, oltre che sui
miei ricordi personali, su un’accurato studio, di prossima pubblicazione,
dedicato alla sua figura dalla professoressa Emilia Hrabovec, a cui esprimo la
mia gratitudine per avermi permesso di consultare e citare il suo manoscritto.
Quando, negli anni Sessanta, la diplomazia vaticana cominciò a mettere in
atto l’Ostpolitik, in Cecoslovacchia, come oggi in Cina, erano presenti due
chiese. Una era la Chiesa “patriottica”, rappresentata da sacerdoti sottomessi
al regime comunista; l’altra era la Chiesa “clandestina”, fedele a Roma e al suo
Magistero.
Mons. Pavol Hnilica, originario di Unatin, vicino Bratislava, dopo essere
entrato nei gesuiti, fu ordinato clandestinamente sacerdote (1950) e consacrato
vescovo (1951) da mons. Robert Pobozny (1890-1972), vescovo di Roznava. In
questo modo egli poté a sua volta consacrare vescovo il ventisettenne Ján
Chryzostom Korec (1924-2015), futuro cardinale, che dopo aver esercitato
clandestinamente il suo ministero per nove anni, nel 1960 fu arrestato e
condannato a dodici anni di carcere.
Quando, nel dicembre 1951, mons. Hnilica fu costretto ad abbandonare il suo
paese e giunse a Roma, Pio XII approvò pienamente il modo di procedere della
Chiesa in Slovacchia, confermando la validità delle consacrazioni clandestine e
respingendo ogni collusione con il regime comunista. Nel Radio messaggio del 23
dicembre 1956, il Papa affermò: «A che scopo, del resto, ragionare senza un
comune linguaggio, o com’è possibile d’incontrarsi, se le vie divergono, se cioè
da una delle parti ostinatamente si spingono e si negano i comuni valori
assoluti, rendendo quindi rinattuabile ogni “coesistenza nella verità?»
Dopo la morte di Pio XII, il 9 ottobre 1958, il clima cambiò e Agostino
Casaroli divenne il protagonista principale della politica orientale della Santa
Sede, promossa da Giovanni XXIII, ma attuata sopratutto da Paolo VI. In quegli
anni mons. Hnilica ebbe occasione di incontrare spesso papa Montini e di
presentargli vari pro-memoria in cui lo metteva in guardia dalle illusioni,
avvertendolo che i regimi comunisti non rinunciavano al loro disegno di
liquidare la Chiesa e accettavano il dialogo con la Santa Sede unicamente per
ottenere vantaggi unilaterali, grazie a cui recuperare credibilità all’interno e
all’esterno die loro Paesi, senza cessare la loro politica antireligiosa.
«Hnilica – scrive Emilia Hrabovec – invitava a non accontentarsi
di concessioni cosmetiche, a chiedere la liberazione e la riabilitazione di
tutti i vescovi, religiosi e fedeli ancora in carcere e l’effettivo
riconoscimento della libertà di professare la fede, e a non acconsentire mai
all’allontanamento die vescovi impediti che sarebbe “la peggiore
umiliazione delle loro persone e in loro dell’intera Chiesa martire di fronte ai
traditori, nemici e di tutta l’opinione pubblica”. Il vescovo esule temeva
che trattative condotte sopra le teste della parte più eroica
dell’episcopato e un accordo chiuso senza concessioni rilevanti avrebbero
suscitato nei cattolici, soprattutto quelli migliori che con forza e fedeltà
resistevano all’oppressione, un disorientamento e la sensazione di essere stati
abbandonati persino dall’autorità ecclesiastica».
Mentre si svolgeva il Concilio Vaticano II, il 13 maggio 1964, Paolo VI rese
pubblica la condizione di vescovo di mons. Hnilica, fino ad allora tenuta in
segreto. Il nuovo status permise al vescovo slovacco di partecipare
all’ultima sessione del Concilio, dove intervenne per associarsi ai Padri
Conciliari che chiedevano la condanna del comunismo.
Mons. Hnilica affermò in aula che ciò che lo schema della Gaudium et Spes
diceva sull’ateismo era così poco «che dire soltanto quello è lo stesso
che dire niente». Aggiunse che una larga parte della Chiesa soffre
«sotto l’oppressione dell’ateismo militante, ma ciò non si ricava dallo
schema che pure vuole parlare della Chiesa nel mondo odierno!». «La
storia ci accuserà giustamente di pusillanimità o di cecità per questo
silenzio», proseguì l’oratore, ricordando che egli non parlava in astratto,
poiché era stato in un campo di concentramento e di lavoro con 700 preti e
religiosi. «Parlo per mia diretta esperienza e per quella dei preti e
religiosi conosciuti in prigione e con i quali ho sopportato i pesi e i pericoli
della Chiesa» (AS, IV/2, pp. 629-631).
In quel periodo, mons. Hnilica ebbe numerosi colloqui con Paolo VI, per
cercare invano di dissuaderlo dall’Ostpolitik. Nel febbraio del 1965 fu liberato
e giunse a Roma l’arcivescovo di Praga, Josef Beran (1888-1969), che Paolo VI
creò cardinale. Mons. Hnilica avvertì il Papa che il presunto successo della
diplomazia vaticana era stato invece un successo del regime comunista che, con
l’esilio dell’arcivescovo, si era sbarazzato di un problema internazionale
sempre più sgradevole, senza dover temere alcunché dal nuovo amministratore
praghese, considerato un timido membro del Movimento del clero per la pace.
Emilia Hrabovec ricorda che si era riusciti nel 1964 a firmare un accordo con
l’Ungheria, al quale sarebbe succeduto, nel 1966, un accordo con la Jugoslavia,
e si era avviata una diplomazia di incontri ad alto livello persino con i
vertici sovietici, mai colloqui con la Cecoslovacchia si presentavano più
difficili e i loro risultati più scarsi che mai. «I rappresentanti
cecoslovacchi – ricorda la storica – si sedevano al tavolino
diplomatico con l’esplicita istruzione di giocare a tempo, rifiutare qualsiasi
concessione e accettare soltanto quello che prometteva vantaggi unilaterali a
loro e danni alla controparte, cosicché le trattative si limitavano spesso alla
formulazione dei rispettivi punti di vista poco conciliabili e la promessa di
voler proseguire con gli incontri».
Il cardinale Korec, dopo la sua liberazione dalle catene del comunismo,
ricordò da parte sua: «La nostra speranza era la Chiesa clandestina, che
silenziosamente collaborava con i preti nelle parrocchie e formava giovani
pronti al sacrificio: professori, ingegneri, medici, disposti a diventare preti.
Queste persone lavoravano in silenzio tra i giovani e le famiglie, pubblicavano
di nascosto riviste e libri. In realtà l’Ostpolitik vendette questa nostra
attività in cambio delle promesse vaghe e incerte dei comunisti. La Chiesa
clandestina era la nostra grande speranza. E, invece, le hanno tagliato le vene,
hanno disgustato migliaia di ragazzi e ragazze, di padri e madri, e tanti
sacerdoti clandestini pronti a sacrificarsi. (…)Per noi fu veramente una
catastrofe, quasi come se ci avessero abbandonato, spazzato via. Io ho obbedito.
Però è stato il dolore più grande della mia vita. I comunisti, così, hanno avuto
nelle loro mani la pastorale pubblica della Chiesa» (Intervista a Il
Giornale, 28 luglio 2000).
La Segreteria di Stato, intanto, sotto le pesanti pressioni del governo di
Praga, cominciò a frenare le attività pubbliche del vescovo slovacco e, nel
1971, lo invitò persino a lasciare Roma e a trasferirsi oltremare. Come ricorda
la Hrabovec, l’accusa di essere divenuto l’ostacolo alle trattative e
implicitamente la ragione della perdurante persecuzione della Chiesa e di agire
contro la volontà del Papa toccò il vescovo, che si dichiarò pronto a lasciare
Roma, ma soltanto se il Pontefice oppure il Generale del suo ordine glielo
avrebbero esplicitamente ordinato.
Non essendo arrivato un tale ordine da nessuna delle due autorità, Hnilica
rimase nella Città eterna e proseguì le sue attività, anche se cessarono i
contatti con la Segreteria di Stato. Gli anni dell’Ostpolitik erano anche quelli
del compromesso storico.
Quando a tanti sembrava che il sistema persecutorio comunista fosse ormai un
capitolo chiuso, e il Partito comunista italiano celebrava vittorie elettorali
prima sconosciute, «l’instancabile vescovo cercava di persuadere il suo
pubblico che i regimi comunisti avevano soltanto cambiato la loro tattica,
scegliendo metodi più raffinati, senza retrocedere un passo dal loro programma
antireligioso e antiumano, e che la Chiesa era obbligata in coscienza a non
arrangiarsi con il sistema comunista e con la sua legalità, ma a continuare a
denunciare i suoi crimini e il pericolo che rappresentava». Come ricorda
ancora la Hrabovec, «con la radicalità evangelica delle persone
profondamente religiose, Hnilica era convinto che nell’epoca della
“decisione finale per la Verità o contro la Verità, per Dio o contro Dio”,
una neutralità era impossibile e chi non si metteva dalla parte della
Verità, diveniva il complice della Menzogna e corresponsabile della diffusione
del Male. In questo spirito, Hnilica criticava aspramente la politica
occidentale della distensione e die compromessi nelle trattative con i regimi
comunisti, la debolezza e l’indifferenza die cristiani occidentali troppo
concentrati su di sé, troppo tesi a mantenere il proprio benessere materiale e
troppo poco disposti a interessarsi e a impegnarsi sia per i confratelli dietro
la cortina di ferro sia per la difesa die propri valori cristiani. Richiamandosi
alla nota espressione di Pio XI degli anni Trenta, Hnilica denunciava il
silenzio della politica, die media e dell’opinione pubblica anche cattolica nei
confronti del regime comunista e delle persecuzioni die cristiani d’Oltre
cortina come “la congiura del silenzio”, osservando, che mentre prima era
consueto parlare della “Chiesa del silenzio” oltre la cortina di ferro, adesso
sarebbe più appropriato usare questo nome per definire la Chiesa (le Chiese)
d’Occidente».
Mon. Pavol Hnilica era un uomo profondamente buono, ma talvolta ingenuo.
Quando io lo conobbi, nel 1976, era sempre accompagnato dal suo segretario
Witold Laskowski (1902-1993), un aristocratico polacco, poliglotta e dalle
maniere impeccabili, che nei tratti del volto e nella figura massiccia
assomigliava in maniera sorprendente a Winston Churchill.
Laskowski era emigrato in Italia negli anni Venti, aveva fatto parte
dell’armata del generale Anders e aveva dedicato la sua vita alla lotta contro
il comunismo. Era una specie di “angelo custode” di mons. Hnilica,
perché lo aiutava a sventare le manovre deiservizi segreti comunisti che avevano
infiltrato il suo gruppo, servendosi non solo di una fitta rete di agenti, ma
anche dell’aiuto del Partito comunista italiano.
Se Laskowski fosse stato vivo, mons. Hnilica non sarebbe stato coinvolto,
negli anni Novanta, in una brutta vicenda, quando si fece convincere dal
faccendiere massone Flavio Carboni, a versare del denaro per raccogliere
documenti che avrebbero potuto provare l’innocenza del Vaticano nel fallimento
del Banco Ambrosiano. Mons. Hnilica fu un ardente devoto della Madonna di
Fatima, convinto che quest’apparizione rappresentasse uno degli interventi più
forti di Dio nella storia umana dall’epoca degli apostoli.
In tutti i rapporti che ebbe con i Pontefici insisté sempre perché fosse
attuata la consacrazione della Russia al Cuore Immacolato di Maria richiesta
dalla Madonna il 13 luglio 1917. Giovanni Paolo II, dopo essere stato
drammaticamente ferito il 13 maggio 1981, attribuì alla Madonna di Fatima una
miracolosa protezione e fu spinto ad approfondirne il messaggio. Perciò, mentre
era in convalescenza al Policlinico, chiese a mons. Hnilica una completa
documentazione su Fatima.
Poi, il 13 maggio 1982, il Papa si recò pellegrino a Fatima, dove affidò e
consacrò alla Madonna «quegli uomini e quelle nazioni che di questo
affidamento e di questa consacrazione hanno particolarmente bisogno».
Il giorno successivo, suor Lucia incontrò mons. Hnilica, accompagnato da don
Luigi Bianchi e da Wanda Poltawska, e quando essi le chiesero se ritenesse
valida la consacrazione, fatta dal Pontefice, la veggente fece segno di no con
un dito e poi spiegò loro che mancava l’esplicita consacrazione della Russia.
Una seconda consacrazione fu fatta da Giovanni Paolo II il 25 marzo 1984, in
piazza San Pietro, alla presenza della statua della Vergine giunta appositamente
dal Portogallo. Neanche in questa occasione fu espressamente nominata la Russia,
ma ci fu solo un riferimento «ai popoli di cui tu ti aspetti la nostra
consacrazione e il nostro affidamento».
Il Papa aveva scritto ai vescovi di tutto il mondo chiedendo di unirsi a lui.
Tra i pochi che corrisposero, fu monsignor Pavol Hnilica, che dall’India, dove
si trovava, era riuscito ad ottenere un visto turistico per la Russia e, quello
stesso 25 marzo, all’interno del Cremlino, nascondendosi dietro i grandi fogli
della Pravda, pronunciò le parole della consacrazione al Cuore
Immacolato di Maria.
Il 12 e il 13 maggio del 2000 fui con mons. Hnilica a Fatima, in occasione
del viaggio di Giovanni Paolo II per la beatificazione die pastorelli Giacinta e
Francesco. Non condividevo il suo eccessivo ottimismo sul pontificato di
Giovanni Paolo II, ma il ricordo che ho di lui, dopo averlo frequentato per
venticinque anni, è quello di un uomo di grande fede, che oggi sarebbe al fianco
di chi combatte contro quella che il cardinale Zen definisce «la svendita
della Chiesa». (Roberto de Mattei)
Un bell'articolo di Corrispondenza Romana su un prelato che io stesso conobbi più di 25 anni fa e che mi fece una grandissima impressione.
Da leggere anche per chi non si arrende alla nuova Ostpolitik di questi tempi che non impara dai disastri della vecchia Ostpolitik e che pare persino peggiore della prima.
L
21-2-18
(di Roberto de Mattei) La politica di collaborazione con la
Cina comunista di Papa Francesco ha i suoi diretti antecedenti nell’Ostpolitik
di Giovanni XXIII e Paolo VI. Ma ieri, come oggi, l’Ostpolitik ebbe forti
oppositori, che meritano di essere ricordati. Uno di questi fu il vescovo
slovacco Pavol Hnilica (1921-2006) che voglio ricordare basandomi, oltre che sui
miei ricordi personali, su un’accurato studio, di prossima pubblicazione,
dedicato alla sua figura dalla professoressa Emilia Hrabovec, a cui esprimo la
mia gratitudine per avermi permesso di consultare e citare il suo manoscritto.
Quando, negli anni Sessanta, la diplomazia vaticana cominciò a mettere in
atto l’Ostpolitik, in Cecoslovacchia, come oggi in Cina, erano presenti due
chiese. Una era la Chiesa “patriottica”, rappresentata da sacerdoti sottomessi
al regime comunista; l’altra era la Chiesa “clandestina”, fedele a Roma e al suo
Magistero.
Mons. Pavol Hnilica, originario di Unatin, vicino Bratislava, dopo essere
entrato nei gesuiti, fu ordinato clandestinamente sacerdote (1950) e consacrato
vescovo (1951) da mons. Robert Pobozny (1890-1972), vescovo di Roznava. In
questo modo egli poté a sua volta consacrare vescovo il ventisettenne Ján
Chryzostom Korec (1924-2015), futuro cardinale, che dopo aver esercitato
clandestinamente il suo ministero per nove anni, nel 1960 fu arrestato e
condannato a dodici anni di carcere.
Quando, nel dicembre 1951, mons. Hnilica fu costretto ad abbandonare il suo
paese e giunse a Roma, Pio XII approvò pienamente il modo di procedere della
Chiesa in Slovacchia, confermando la validità delle consacrazioni clandestine e
respingendo ogni collusione con il regime comunista. Nel Radio messaggio del 23
dicembre 1956, il Papa affermò: «A che scopo, del resto, ragionare senza un
comune linguaggio, o com’è possibile d’incontrarsi, se le vie divergono, se cioè
da una delle parti ostinatamente si spingono e si negano i comuni valori
assoluti, rendendo quindi rinattuabile ogni “coesistenza nella verità?»
Dopo la morte di Pio XII, il 9 ottobre 1958, il clima cambiò e Agostino
Casaroli divenne il protagonista principale della politica orientale della Santa
Sede, promossa da Giovanni XXIII, ma attuata sopratutto da Paolo VI. In quegli
anni mons. Hnilica ebbe occasione di incontrare spesso papa Montini e di
presentargli vari pro-memoria in cui lo metteva in guardia dalle illusioni,
avvertendolo che i regimi comunisti non rinunciavano al loro disegno di
liquidare la Chiesa e accettavano il dialogo con la Santa Sede unicamente per
ottenere vantaggi unilaterali, grazie a cui recuperare credibilità all’interno e
all’esterno die loro Paesi, senza cessare la loro politica antireligiosa.
«Hnilica – scrive Emilia Hrabovec – invitava a non accontentarsi
di concessioni cosmetiche, a chiedere la liberazione e la riabilitazione di
tutti i vescovi, religiosi e fedeli ancora in carcere e l’effettivo
riconoscimento della libertà di professare la fede, e a non acconsentire mai
all’allontanamento die vescovi impediti che sarebbe “la peggiore
umiliazione delle loro persone e in loro dell’intera Chiesa martire di fronte ai
traditori, nemici e di tutta l’opinione pubblica”. Il vescovo esule temeva
che trattative condotte sopra le teste della parte più eroica
dell’episcopato e un accordo chiuso senza concessioni rilevanti avrebbero
suscitato nei cattolici, soprattutto quelli migliori che con forza e fedeltà
resistevano all’oppressione, un disorientamento e la sensazione di essere stati
abbandonati persino dall’autorità ecclesiastica».
Mentre si svolgeva il Concilio Vaticano II, il 13 maggio 1964, Paolo VI rese
pubblica la condizione di vescovo di mons. Hnilica, fino ad allora tenuta in
segreto. Il nuovo status permise al vescovo slovacco di partecipare
all’ultima sessione del Concilio, dove intervenne per associarsi ai Padri
Conciliari che chiedevano la condanna del comunismo.
Mons. Hnilica affermò in aula che ciò che lo schema della Gaudium et Spes
diceva sull’ateismo era così poco «che dire soltanto quello è lo stesso
che dire niente». Aggiunse che una larga parte della Chiesa soffre
«sotto l’oppressione dell’ateismo militante, ma ciò non si ricava dallo
schema che pure vuole parlare della Chiesa nel mondo odierno!». «La
storia ci accuserà giustamente di pusillanimità o di cecità per questo
silenzio», proseguì l’oratore, ricordando che egli non parlava in astratto,
poiché era stato in un campo di concentramento e di lavoro con 700 preti e
religiosi. «Parlo per mia diretta esperienza e per quella dei preti e
religiosi conosciuti in prigione e con i quali ho sopportato i pesi e i pericoli
della Chiesa» (AS, IV/2, pp. 629-631).
In quel periodo, mons. Hnilica ebbe numerosi colloqui con Paolo VI, per
cercare invano di dissuaderlo dall’Ostpolitik. Nel febbraio del 1965 fu liberato
e giunse a Roma l’arcivescovo di Praga, Josef Beran (1888-1969), che Paolo VI
creò cardinale. Mons. Hnilica avvertì il Papa che il presunto successo della
diplomazia vaticana era stato invece un successo del regime comunista che, con
l’esilio dell’arcivescovo, si era sbarazzato di un problema internazionale
sempre più sgradevole, senza dover temere alcunché dal nuovo amministratore
praghese, considerato un timido membro del Movimento del clero per la pace.
Emilia Hrabovec ricorda che si era riusciti nel 1964 a firmare un accordo con
l’Ungheria, al quale sarebbe succeduto, nel 1966, un accordo con la Jugoslavia,
e si era avviata una diplomazia di incontri ad alto livello persino con i
vertici sovietici, mai colloqui con la Cecoslovacchia si presentavano più
difficili e i loro risultati più scarsi che mai. «I rappresentanti
cecoslovacchi – ricorda la storica – si sedevano al tavolino
diplomatico con l’esplicita istruzione di giocare a tempo, rifiutare qualsiasi
concessione e accettare soltanto quello che prometteva vantaggi unilaterali a
loro e danni alla controparte, cosicché le trattative si limitavano spesso alla
formulazione dei rispettivi punti di vista poco conciliabili e la promessa di
voler proseguire con gli incontri».
Il cardinale Korec, dopo la sua liberazione dalle catene del comunismo,
ricordò da parte sua: «La nostra speranza era la Chiesa clandestina, che
silenziosamente collaborava con i preti nelle parrocchie e formava giovani
pronti al sacrificio: professori, ingegneri, medici, disposti a diventare preti.
Queste persone lavoravano in silenzio tra i giovani e le famiglie, pubblicavano
di nascosto riviste e libri. In realtà l’Ostpolitik vendette questa nostra
attività in cambio delle promesse vaghe e incerte dei comunisti. La Chiesa
clandestina era la nostra grande speranza. E, invece, le hanno tagliato le vene,
hanno disgustato migliaia di ragazzi e ragazze, di padri e madri, e tanti
sacerdoti clandestini pronti a sacrificarsi. (…)Per noi fu veramente una
catastrofe, quasi come se ci avessero abbandonato, spazzato via. Io ho obbedito.
Però è stato il dolore più grande della mia vita. I comunisti, così, hanno avuto
nelle loro mani la pastorale pubblica della Chiesa» (Intervista a Il
Giornale, 28 luglio 2000).
La Segreteria di Stato, intanto, sotto le pesanti pressioni del governo di
Praga, cominciò a frenare le attività pubbliche del vescovo slovacco e, nel
1971, lo invitò persino a lasciare Roma e a trasferirsi oltremare. Come ricorda
la Hrabovec, l’accusa di essere divenuto l’ostacolo alle trattative e
implicitamente la ragione della perdurante persecuzione della Chiesa e di agire
contro la volontà del Papa toccò il vescovo, che si dichiarò pronto a lasciare
Roma, ma soltanto se il Pontefice oppure il Generale del suo ordine glielo
avrebbero esplicitamente ordinato.
Non essendo arrivato un tale ordine da nessuna delle due autorità, Hnilica
rimase nella Città eterna e proseguì le sue attività, anche se cessarono i
contatti con la Segreteria di Stato. Gli anni dell’Ostpolitik erano anche quelli
del compromesso storico.
Quando a tanti sembrava che il sistema persecutorio comunista fosse ormai un
capitolo chiuso, e il Partito comunista italiano celebrava vittorie elettorali
prima sconosciute, «l’instancabile vescovo cercava di persuadere il suo
pubblico che i regimi comunisti avevano soltanto cambiato la loro tattica,
scegliendo metodi più raffinati, senza retrocedere un passo dal loro programma
antireligioso e antiumano, e che la Chiesa era obbligata in coscienza a non
arrangiarsi con il sistema comunista e con la sua legalità, ma a continuare a
denunciare i suoi crimini e il pericolo che rappresentava». Come ricorda
ancora la Hrabovec, «con la radicalità evangelica delle persone
profondamente religiose, Hnilica era convinto che nell’epoca della
“decisione finale per la Verità o contro la Verità, per Dio o contro Dio”,
una neutralità era impossibile e chi non si metteva dalla parte della
Verità, diveniva il complice della Menzogna e corresponsabile della diffusione
del Male. In questo spirito, Hnilica criticava aspramente la politica
occidentale della distensione e die compromessi nelle trattative con i regimi
comunisti, la debolezza e l’indifferenza die cristiani occidentali troppo
concentrati su di sé, troppo tesi a mantenere il proprio benessere materiale e
troppo poco disposti a interessarsi e a impegnarsi sia per i confratelli dietro
la cortina di ferro sia per la difesa die propri valori cristiani. Richiamandosi
alla nota espressione di Pio XI degli anni Trenta, Hnilica denunciava il
silenzio della politica, die media e dell’opinione pubblica anche cattolica nei
confronti del regime comunista e delle persecuzioni die cristiani d’Oltre
cortina come “la congiura del silenzio”, osservando, che mentre prima era
consueto parlare della “Chiesa del silenzio” oltre la cortina di ferro, adesso
sarebbe più appropriato usare questo nome per definire la Chiesa (le Chiese)
d’Occidente».
Mon. Pavol Hnilica era un uomo profondamente buono, ma talvolta ingenuo.
Quando io lo conobbi, nel 1976, era sempre accompagnato dal suo segretario
Witold Laskowski (1902-1993), un aristocratico polacco, poliglotta e dalle
maniere impeccabili, che nei tratti del volto e nella figura massiccia
assomigliava in maniera sorprendente a Winston Churchill.
Laskowski era emigrato in Italia negli anni Venti, aveva fatto parte
dell’armata del generale Anders e aveva dedicato la sua vita alla lotta contro
il comunismo. Era una specie di “angelo custode” di mons. Hnilica,
perché lo aiutava a sventare le manovre deiservizi segreti comunisti che avevano
infiltrato il suo gruppo, servendosi non solo di una fitta rete di agenti, ma
anche dell’aiuto del Partito comunista italiano.
Se Laskowski fosse stato vivo, mons. Hnilica non sarebbe stato coinvolto,
negli anni Novanta, in una brutta vicenda, quando si fece convincere dal
faccendiere massone Flavio Carboni, a versare del denaro per raccogliere
documenti che avrebbero potuto provare l’innocenza del Vaticano nel fallimento
del Banco Ambrosiano. Mons. Hnilica fu un ardente devoto della Madonna di
Fatima, convinto che quest’apparizione rappresentasse uno degli interventi più
forti di Dio nella storia umana dall’epoca degli apostoli.
In tutti i rapporti che ebbe con i Pontefici insisté sempre perché fosse
attuata la consacrazione della Russia al Cuore Immacolato di Maria richiesta
dalla Madonna il 13 luglio 1917. Giovanni Paolo II, dopo essere stato
drammaticamente ferito il 13 maggio 1981, attribuì alla Madonna di Fatima una
miracolosa protezione e fu spinto ad approfondirne il messaggio. Perciò, mentre
era in convalescenza al Policlinico, chiese a mons. Hnilica una completa
documentazione su Fatima.
Poi, il 13 maggio 1982, il Papa si recò pellegrino a Fatima, dove affidò e
consacrò alla Madonna «quegli uomini e quelle nazioni che di questo
affidamento e di questa consacrazione hanno particolarmente bisogno».
Il giorno successivo, suor Lucia incontrò mons. Hnilica, accompagnato da don
Luigi Bianchi e da Wanda Poltawska, e quando essi le chiesero se ritenesse
valida la consacrazione, fatta dal Pontefice, la veggente fece segno di no con
un dito e poi spiegò loro che mancava l’esplicita consacrazione della Russia.
Una seconda consacrazione fu fatta da Giovanni Paolo II il 25 marzo 1984, in
piazza San Pietro, alla presenza della statua della Vergine giunta appositamente
dal Portogallo. Neanche in questa occasione fu espressamente nominata la Russia,
ma ci fu solo un riferimento «ai popoli di cui tu ti aspetti la nostra
consacrazione e il nostro affidamento».
Il Papa aveva scritto ai vescovi di tutto il mondo chiedendo di unirsi a lui.
Tra i pochi che corrisposero, fu monsignor Pavol Hnilica, che dall’India, dove
si trovava, era riuscito ad ottenere un visto turistico per la Russia e, quello
stesso 25 marzo, all’interno del Cremlino, nascondendosi dietro i grandi fogli
della Pravda, pronunciò le parole della consacrazione al Cuore
Immacolato di Maria.
Il 12 e il 13 maggio del 2000 fui con mons. Hnilica a Fatima, in occasione
del viaggio di Giovanni Paolo II per la beatificazione die pastorelli Giacinta e
Francesco. Non condividevo il suo eccessivo ottimismo sul pontificato di
Giovanni Paolo II, ma il ricordo che ho di lui, dopo averlo frequentato per
venticinque anni, è quello di un uomo di grande fede, che oggi sarebbe al fianco
di chi combatte contro quella che il cardinale Zen definisce «la svendita
della Chiesa». (Roberto de Mattei)
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