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martedì 7 gennaio 2014

"Il fascino delle sirene "

Dov’è la Vita che abbiamo perduto vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo? Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione? 
I cicli del Cielo in venti secoli ci portano più lontani da Dio e più vicini alla Polvere”. 
Così una delle menti più acute della cultura (e della fede) del Novecento, Thomas Stearns Eliot. 
Si era ancora nel 1934, ma nei suo celebri “Cori” affiorava la percezione chiara di quel che sarebbe stato. 
E non poteva apparire diversamente ai suoi occhi, poichè il cristianesimo è un dramma che si vive nella storia. 
Un dramma, per quanto questo termine possa suscitare ilarità in chi concepisce la fede come un continuo sorriso. 
Il cristianesimo offre la gioia autentica, ma ad un prezzo che è tutto divino e tutto umano. Fondamentalmente offre la gioia di essere liberi veramente, come Gesù ha garantito. 
E non si tratta della libertà del pensiero del mondo. 
Nell’omelia dell’Epifania il Santo Padre ha tratto spunto dai Magi, i quali «ci insegnano a non accontentarci di una vita mediocre, del “piccolo cabotaggio”, ma a lasciarci sempre affascinare da ciò che è buono, vero, bello… da Dio, che tutto questo lo è in modo sempre più grande! 
E ci insegnano a non lasciarci ingannare dalle apparenze, da ciò che per il mondo è grande, sapiente, potente. 
Non bisogna fermarsi lì. 
E’ necessario custodire la fede. In questo tempo è tanto importante questo: custodire la fede. 
Bisogna andare oltre, oltre il buio, oltre il fascino delle Sirene, oltre la mondanità, oltre tante modernità che oggi ci sono, andare verso Betlemme, là dove, nella semplicità di una casa di periferia, tra una mamma e un papà pieni d’amore e di fede, risplende il Sole sorto dall’alto, il Re dell’universo». 
Che c’entrano le Sirene con il dramma della fede cristiana e con la libertà? 
La descrizione usata dal Papa è di straordinaria eloquenza. 
Nell’immaginario collettivo (almeno quello fermo a quando la scuola dava una soda cultura di base) evocano i viaggi di Ulisse. 
Ma forse pochi sanno che il mito greco delle Sirene, riscontrabile anche in autori diversi da Omero, fu oggetto di riflessione anche per i Padri della Chiesa e per valenti teologi delle prime generazioni cristiane. 
Le Sirene, vale a dire le “incantatrici”, sono originariamente immagine di morte. E questa morte è propinata attraverso due vie, rappresentate dal piacere e dalla scienza. Soltanto con l’affermazione progressiva del racconto dell’Odissea, esse vennero ad assumere la veste delle affascinatrici, che è risultata predominante anche nella nostra cultura. 
La riflessione cristiana si servì del mito per indicare che il piacere e la scienza – accettabile l’uno e desiderabile l’altra – possono risultare causa di morte. 
E soprattutto, sulla base delle traduzioni greche di Giobbe e di alcuni profeti, trasformò le sirene in uccelli notturni, che abitano le regioni desertiche e hanno natura diabolica. 
Con un canto dolce e mortifero, scrive S. Girolamo, attirano le anime nell’abisso perchè siano divorate dai lupi. 
Quel che la tradizione ci consegna, è ben riassunto da S. Ambrogio: “Le sirene (…) , come tramandano le storie pagane, erano delle giovani donne che cantavano con una voce soave e con le loro lusinghe spingevano i naviganti, tutti rapiti nell’ascolto, ad accostare a riva le loro navi (…) 
Così dunque la dolcezza del mondo ci avvince con le lusinghe della carne, per poterci ingannare” (Commento al Salmo 43, 75). 
Accanto alle Sirene non possono mancare né la nave né Ulisse, legato all’albero maestro. 
E difatti non mancano. 
La nave, chiaramente, è la Chiesa. 
E all’albero maestro della Croce è inchiodato Cristo. 
Ancora l’ottimo Ambrogio commenta: ” Hanno un prospero viaggio quelli che sulle loro navi guardano alla Croce come all’albero maestro da seguire”. 
E S. Massimo di Torino scrive: “Cristo Signore fu appeso alla croce per salvare il genere umano dal naufragio del mondo” (Omelia 49 sulla Croce del Signore, 1). 
Le parole del Papa si riferiscono ai singoli credenti, alle nostre povere vite sempre in bilico tra gli slanci elevati e la tentazione della mediocrità. 
Ma non possono non riferirsi all’insieme dei cattolici, perchè è la totalità che sostiene la singola parte, ed è nella totalità che questa confluisce. 
Non abbiamo un miliardo di chiese. 
Abbiamo un miliardo di membri della Chiesa, e ciascuno di esso deve riflettere in se stesso il mistero della Chiesa, e dalla Chiesa deve trarre la grazia che gli è necessaria per evitare il naufragio. 
I due termini si sovrappongono perfettamente anche in quest’ora della storia. 
Da una parte la nave, sballotatta dai marosi; dall’altra i cristiani, che sembrano guardare non l’albero, quanto piuttosto gli scogli, affascinati dal canto delle sirene. 

Hanno un volto, queste sirene. 

Non possiamo prenderci in giro. 
La Chiesa, chiamata a custodire la fede, non lo ha mai fatto. “Persa l’idea di una verità universale sul bene, conoscibile dalla ragione umana, è inevitabilmente cambiata anche la concezione della coscienza: questa non è più considerata nella sua realtà originaria, ossia un atto dell’intelligenza della persona, cui spetta di applicare la conoscenza universale del bene in una determinata situazione e di esprimere così un giudizio sulla condotta giusta da scegliere qui e ora; ci si è orientati a concedere alla coscienza dell’individuo il privilegio di fissare, in modo autonomo, i criteri del bene e del male e agire di conseguenza. 
Tale visione fa tutt’uno con un’etica individualista, per la quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri. Spinto alle estreme conseguenze, l’individualismo sfocia nella negazione dell’idea stessa di natura umana” (B. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica “Veritati splendor”, 32). 

Hanno un volto, queste sirene. 

Se fossero rimaste al di fuori della Chiesa, sugli scogli, potremmo distinguerle, ciascuna con il suo nome, la sua espressione ideologica, le sue correnti. Invece sono sulla nave, e ci distolgono dal fissare l’albero maestro. 
Se però distogliamo lo sguardo, la nostra fragilità ci porta a sentire il fascino di quel canto. 
E ci pare che la melodia non sia poi così anticristiana come la descrivono. 
Nel testo si parla di amore, di giustizia, di diritti, di fraternità. Perchè non cantare questa canzone? 
Ciascuno si chieda se si accontenti della mediocrità, ma si chieda anche se la sua mediocrità non finisca per rendere mediocre anche quella fede che tutti, con Pietro, dobbiamo custodire. 
Qualcuno aveva parlato di sale e di lievito, ma anche del rischio che si perdessero le qualità del sale e del lievito. 
La navigazione procede. 
E procederà di sicuro anche oltre di noi. 
Non è detto, però, che noi giungiamo al porto. Forse sarebbe il momento di deporre l’euforia generalizzata e di prendere sul serio gli ammonimenti del nostro nocchiero. 
Cominciando dall’evitare che diventi mediocre il futuro dei nostri figli, se ancora abbiamo uno scampolo di dignità cristiana, un anelito autentico alla libertà dal conformismo e dalle logiche di potere del mondo. 
Nel passaggio di questo stretto, in questo preciso momento della storia, si rinnova il dramma della salvezza. 
Non quella degli altri. 
Della mia e della tua. 

don Antonio Ucciardo 

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