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lunedì 14 dicembre 2009

La voce (Vangelo della III domenica di Avvento)

Ai messi dei Farisei che gli domandavan chi fosse (se il Cristo aspettato, se Elia, se un profeta), Giovanni rispose: «lo sono una voce».

Era un uomo, era un profeta, «anzi più che un profeta», era «quell'Elia che doveva venire», era il nunzio del Cristo, e gli parve assai rappresentarsi in quel modo: «lo sono una voce». Infatti, senza la voce, Giovanni non sarebbe stato Giovanni. Per essere una voce era nato, perché era una voce (voce di rimprovero) morì. A Zaccaria che chiedeva un segno per credere nelle parole dell'angelo che gli annunziava tal figlio l'angelo tolse la voce. «Ecco, tu diventerai muto». Muto. cioè l'opposto di quel Giovanni promesso, il quale doveva essere essenzialmente «una voce». Egli stesso, finché non fu pienamente «una voce», si tenue nascosto, come inesistente: «Il bambino intanto cresceva... e stava nelle solitudini fino al giorno di darsi a conoscere a Israele». Che cos'è dunque la voce, se un uomo definito da Cristo come il più grande degli uomini si definì semplicemente «una voce»?

Si potrebbe dir che la voce è l'uomo, e lo disse già Omero dando alla nostra specie l'epiteto di «parlanti». E, se non possiamo dir che la voce è Dio, possiamo dir che la voce è ciò che principalmente ci fa simili a Dio. Per creare, Dio si servì della voce. Dixitque Deus… Dixit quoque Deus… Dixit vero Deus… Dixit autem Deus… Dixit etiam Deus… «Dio disse», e fu la luce e fu il firmamento e furono la terra e il mare e furono il sole e la luna e le stelle e furono gli animali e fu l'uomo. Con Dio, la voce partecipa, in figura, dell'eternità. La generazione del Figlio, quale il Figlio medesimo ce la riferisce nel primo introito di Natale, non è senza un parlare di Dio: Dominus dixit ad me: Filius meus es tu, ego hodie genui te: «Il Signore m'ha detto: tu se' mio Figlio, oggi stesso io t'ho generato». E il Figlio si chiama Verbo, cioè Parola. Il Figlio discorre col Padre, come sì sente, a modo d'esempio, nell'introito di Pasqua: Resurrexi et adhuc, tecum sum: «Son risorto: eccomi ancora con te»; e il Padre gli risponde, sede a dextris meis, «siedi alla mia destra». Della Terza Persona, quella che si manifestò un giorno in «lingue» di fuoco e suono di vento impetuoso, canta l'introito di Pentecoste ch'essa «ha la scienza d'ogni voce», scientiam habet vocis; e sappiamo che l'effetto istantaneo della sua discesa negli uomini fu ch'essi «incominciarono a parlare»: repleti sunt omnes Spiritu Sancto et coeperunt loqui.

Comune a Dio e agli uomini, incorporea, invisibile come Dio, e sensibile e intelligibile come gli uomini, la voce è il segno maggiore di somiglianza fra gli uomini e Dio, ed è il mezzo di accessione fra l'Inaccessibile e gli abitatori della terra.

Dio non aveva necessità di articolar suoni, di parlare, per farsi intendere dalle sue creature, e tuttavia egli ha parlato, s'è servito della voce, come per creare, così per comunicare con l'opera del suo Verbo. Ha parlato con Adamo, con Eva, con Caino, con Noè, con Abramo, con Isacco, con Giacobbe, con Mosè; ha parlato coi re, coi capitani, coi profeti, coi sacerdoti del suo popolo; ha parlato con autorità nel paradiso di delizia, con terrore sul Sinai, con dolcezza sul monte delle beatitudini, con sdegno nel tempio, con dolore nel Getsemani, parlerà con giustizia sulle nuvole alla fine dei giorni.

Dio s'è servito della voce per trattare con l'uomo, e l'uomo si serve della voce per trattare con Dio, per lodarlo, per placarlo, per supplicarlo, per ringraziarlo. Dirò di più: con la voce (è il massimo della sua potenza) l'uomo rende a Dio quasi la pari: di creatura si fa «creatore» e «creatore» di Dio. Alle sette parole con le quali Dio fece un po' di fango esser uomo — faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram — si possono infatti contrapporre le cinque parole con le quali un uomo, sacerdote (sia pur peccatore e sia pur distratto nel dirle), fa un po' di pane esser Dio: hoc est enim corpus meum. Il fango non era maggiormente libero, dopo quelle, di restar fango, di quel che il pane sia libero, dopo queste, di non diventar Dio.

Dinanzi a questo sublime potere di cui è investita la voce (il sacerdote può esser cieco, sordo, privo di molti sensi, essere appena l'ombra d'un uomo: basta gli rimanga la voce) sarebbe superfluo numerare altri titoli, ricordare altre parole, Ego te baptizo, Ego te absolvo, Ego coniungo, per cui la voce, Verbo» dell'uomo, rivaleggia in potenza col Verbo creatore di Dio nel dar la vita, nel renderla, nel moltiplicarla.

È della voce come dell'aria e dell'acqua: la loro abbondanza, la loro invenialità fa che ne dimentichiamo il valore, che ne usiamo e spandiamo senza risparmio. Chi di noi pensa alla grandezza di questo nostro potere allorché discorriamo per riposo coi nostri simili, allorché diciamo a un amico le nostre pene o le nostre gioie. a una fanciulla il nostro amore, a un bambino, a un vecchio, a un povero, a un malato la nostra tenerezza, a un maestro il nostro entusiasmo, a un consigliere i nostri dubbi, a un sacerdote le nostre colpe, allorché nel pianto sfoghiamo il nostro dolore, o nelle note di una canzone la nostra allegrezza? Ci pensiamo almeno, per contrapposto, allorché vediamo un essere apparentemente simile a noi mover senza suono le mani e le braccia come una campana senza battaglio o come un albero a dicembre allorché nudo d'ogni foglia non può rispondere al vento che lo trapassa da ogni parte se non col tentennar de' suoi rami? Ci pensiamo forse perché il Vangelo ci avverta che d'ogni parola oziosa, d'ogni parola sciupata, quasi d'una perla gettata, dovremo render ragione?

Bisogna essere stati a lungo rinchiusi per gustar l'aria di un poggio travalicato dal vento; bisogna aver camminato ore e ore sotto la faccia ,del sole quando più arse stridono le cicale per intender, presso una fonte fatta con la corteccia di un albero, all'ombra di un faggio, che deliziosa cosa sia l'acqua; e bisognerebbe forse, come il padre di san Giovanni, restar muti qualche spazio di tempo per comprendere il dono divino ch'è la voce e l'uso divino che ne va fatto.

Benedictus Dominus Deus Israel… Parole di benedizione, al Dio eterno e nascituro, usciron dai labbri di Zaccaria allorché, dopo nove mesi, la lingua gli si risciolse; e quali altre dovrebbero uscir dai nostri? Le campane stesse, sciogliendosi, ogni anno, dopo due giorni di forzato silenzio, in quell'inno al Dio morto e risorto che apre la gran letizia pasquale, insegnano a noi uomini, a noi redenti, come si debba usar della voce.


Testo tratto da: TITO CASINI, Il Pane sotto la neve, Firenze: LEF, 1935/2, pp. 99-104.

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