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sabato 14 gennaio 2023

Traditionis Custodes e obbedienza: una riflessione di P. de Blignères, della Fraternità di San Vincenzo Ferrer #traditioniscustodes

Pubblichiamo di seguito la traduzione dall'originale francese, QUI su L'Homme Nouveau, di una riflessione molto interessante su Traditionis Custodes del P. Louis-Marie de Blignères; QUI la traduzione in inglese su Rorate  Caeli.
«La Chiesa non è una sorta di «partito comunista di persone pie», anche se nella storia ci sono stati Pontefici tirannici che hanno abusato del loro potere. Questa specificità essenziale è riconosciuta dal diritto (can. 601)».
Questa traduzione è stata realizzata grazie alle donazioni dei lettori di MiL.
Luigi

Il Papa e il diritto proprio dei religiosi.
Fr. L. M. de Blignières, Priore della Fraternità di San Vincenzo Ferrer, 
L'Homme Nouveau18/01/2022

Fondatore e priore della Fraternité Saint-Vincent-Ferrier di Chémeré-le-Roi, padre Louis-Marie de Blignières sviluppa qui il «diritto proprio dei religiosi» nel nuovo contesto nato dalla pubblicazione del Motu Proprio Traditonis custodes (la cui traduzione francese non è ancora disponibile sul sito del Vaticano) e dei Responsa esplicativi, che oggi rendono quasi impossibile celebrare tutti i sacramenti - ad eccezione della Messa entro certi limiti - secondo i libri liturgici precedenti alla riforma liturgica.

In seguito ai recenti Responsa della Congregazione per il Culto Divino, come altri superiori, ho mantenuto (Messaggio di Natale del 23 dicembre, intervista a Present del 28 dicembre) l'opinione che le norme decretate non ci riguardassero, poiché il nostro diritto proprio ci garantiva l'uso dei quattro libri liturgici tradizionali. Infatti, «una legge universale non deroga in alcun modo al diritto particolare o speciale, a meno che non sia disposto espressamente altro dal diritto» (CJC, can. 20). Questa importanza del diritto proprio, nella linea più classica del principio di sussidiarietà, della dottrina sociale della Chiesa e della prassi canonica, è oggi gravemente fraintesa: sia dai teologi progressisti sia da alcuni tradizionalisti. Questo è un effetto combinato del centralismo quasi giacobino delle società moderne, di una filosofia del diritto fortemente positivista e di un'ecclesiologia ultra-romana, che vede nella Chiesa una «monarchia assoluta» e nel Papa una sorta di potentato dai poteri illimitati...
Ci è stato quindi obiettato in particolare che:

«Il Papa può benissimo modificare gli statuti di comunità o associazioni, o anche sopprimerle, se lo ritiene prudentemente opportuno: queste comunità emanano da lui perché egli o i suoi predecessori le hanno erette quando lo hanno ritenuto opportuno».

Infatti, non è corretto dire, senza ulteriori precisazioni, che il Papa può «cambiare le Costituzioni da lui approvate». Fondamentalmente, la pratica effettiva dei consigli evangelici è un dono di Cristo e un diritto dei fedeli. La Chiesa lo conserva fedelmente (cfr. can. 575). Questo è stato un insegnamento costante del magistero fin dal IV secolo (cfr. Leone I, Denzinger-Schönmetzer, n. 321), fino al Vaticano II (Lumen Gentium, n. 43, con riferimenti al magistero di Pio XI e Pio XII) e all'Esortazione apostolica Vita Consecrata (1996):

«La professione dei consigli evangelici è parte integrante della vita della Chiesa, alla quale dà un prezioso impulso per una sempre maggiore coerenza evangelica» (n. 3).

In secondo luogo, è richiesta l'organizzazione canonica dell'osservanza di questi consigli, affinché essi costituiscano uno stato pubblico di perfezione nella Chiesa (cfr. can. 576). Ma attenzione! La gerarchia non crea le diverse forme di vita religiosa, che esprimono - come si dice oggi - diversi carismi. È contrario alla realtà ecclesiale e storica (e in fondo abbastanza mostruoso) sostenere che queste forme e questi carismi «emanino» dalla gerarchia. La gerarchia li verifica, li migliora, scarta gli eventuali errori (come la povertà assoluta dei francescani spirituali) o le pratiche imprudenti o pericolose per la perfezione della vita morale, etc.

Il Vaticano II, su questo punto, ha fortunatamente richiamato la dottrina tradizionale, che (forse a causa di un eccessivo «papismo»?) prima era meno enfatizzata. Gli istituti religiosi non sono nella loro essenza un'emanazione del potere di giurisdizione o del magistero, ma provengono dalla vita della Chiesa.

«Seguendo con docilità gli impulsi dello Spirito Santo, essa [la gerarchia n.d.t.] accetta le norme proposte da uomini o da donne eminenti e, dopo averle messe a punto più perfettamente, dona loro un'approvazione autentica» (Lumen Gentium 45, cfr. Perfectae Caritatis, 1).

La gerarchia discerne e accoglie (o meno) ciò che proviene dai fondatori, e lo approva conferendo all'Istituto uno statuto canonico; ma non lo crea ex nihilo. Se il vescovo (o il Sommo Pontefice) svolge un ruolo di «perfezionatore (perfector)» nei confronti dei religiosi «perfetti (perfecti)», come dice San Tommaso (Summa Theologiae, IIa IIae, q. 184, a. 5), è attraverso la vigilanza sulla fede e sui costumi. Non creano il carisma né si sostituiscono alla «giusta autonomia» dell'Istituto, che invece devono tutelare (cfr. can. 586).

La gerarchia interviene poi, se necessario, perchè i mezzi rimangano in linea con il fine (cfr. Pastor bonus, art. 107). Se ci sono deviazioni o abusi, può nominare un Commissario, che però deve sempre governare secondo il diritto proprio dell'Istituto (Regola, Costituzioni, Direttorio...). Se le circostanze fanno sì che alcuni mezzi non siano più praticabili o non siano più efficaci in vista del fine proprio dell'Istituto, la gerarchia può chiedere per quel motivo di introdurre delle modifiche alle Costituzioni. Così quelle della Fraternità di San Vincenzo-Ferrier affermano (n. 3):

«I mezzi per raggiungere il nostro fine sono, oltre al voto pubblico dei consigli evangelici di obbedienza, castità e povertà, la vita comune con l'osservanza regolare secondo le usanze tradizionali tra i figli di San Domenico, la celebrazione solenne della Santa Liturgia e lo studio assiduo della scienza sacra. Questi mezzi non possono essere da noi né soppressi né modificati sostanzialmente; tuttavia, ad eccezione dei voti, possono essere in qualche misura opportunamente adattati secondo le esigenze dei tempi e delle circostanze, per aumentare la loro capacità di raggiungere più facilmente il fine e affinché godano di una maggiore efficacia».

Esiste quindi uno «zoccolo duro» che deve essere sempre rispettato. «Il pensiero dei fondatori e il loro progetto, che la competente autorità ecclesiastica ha riconosciuto circa la natura, il fine, lo spirito e il carattere dell'istituto, nonché le sue sane tradizioni, tutte cose che costituiscono il patrimonio dell'istituto, devono essere fedelmente mantenuti da tutti» (can. 578). Nella disciplina attuale, sono i Capitoli generali degli Istituti che apportano le modifiche e (tranne il caso di Ordini antichi che hanno il privilegio legislativo, come i Frati Predicatori) la Santa Sede che le approva o meno.

L'Autorità può anche, in casi molto gravi (è raro, ma è stato il caso dei gesuiti sotto la pressione delle monarchie nel secolo dei Lumi...) sopprimere l'Istituto. Per esempio, se il suo scopo non esiste più (gli Ordini militari per la riconquista della Terra Santa), se ha deviato totalmente dal suo obiettivo, o se ha commesso gravi abusi, crimini... ma essa non può cambiare il suo patrimonio essenziale e la sua finalità.

Non dobbiamo dimenticare che la professione religiosa costituisce un contratto tra l'Istituto e il professo. Come ogni contratto, è specificato dall'oggetto e cade se l'oggetto viene sostanzialmente modificato. Se il cambiamento delle Costituzioni riguarda un punto sostanziale, i sudditi non sono più vincolati ai loro voti. Per la nostra Fraternità, gli usi tradizionali (soprattutto nella liturgia) fanno chiaramente parte del patrimonio citato nel Decreto di erezione (1988) e nelle Costituzioni approvate definitivamente (1995).

Questa realtà della specificità dell'obbedienza religiosa è un fatto che ha a che fare con la natura stessa della vita e della professione religiosa, e non con una semplice disposizione positiva che la gerarchia potrebbe modificare. La Chiesa non è una sorta di «partito comunista di persone pie», anche se nella storia ci sono stati Pontefici tirannici che hanno abusato del loro potere. Questa specificità essenziale è riconosciuta dal diritto (can. 601). E essa si applica agli ordini del Sommo Pontefice «al quale ciascun [religioso] è tenuto a obbedire come al suo più alto Superiore, anche in ragione del sacro vincolo di obbedienza» (can. 590, § 2). Questo punto è universalmente riconosciuto dai teologi. Prendiamo come esempio due membri della Compagnia di Gesù, dove l'obbedienza gioca un ruolo così forte. Citiamo Lucien Choupin (Nature et obligations de l'État religieux, Beauchesne, Paris, 1923, pp. 481-482). In questo testo fa due riferimenti all'illustre dottore gesuita Suarez (De religiosis, tr. VII, L. X, c. VIII, nn. 1 e 11).

«Quali sono i limiti entro i quali deve essere confinato il comando dei superiori? Il potere dei Superiori si estende più o meno lontano, a seconda che la Giurisdizione e l'autorità che hanno sui religiosi siano più o meno estese. Tuttavia, è sempre limitato dalle regole, dalle costituzioni. Quindi, per quanto assoluta sia l'autorità di cui il Sommo Pontefice gode su tutti gli Istituti religiosi, egli non può, in virtù del voto di obbedienza, ordinare nulla che sia al di sopra della regola o contrario all'Istituto».

«A questo riguardo egli ha solo l'autorità che spetta agli stessi Superiori dell'Ordine o della Congregazione. Ora il comando dei Superiori è veramente legittimo, obbligatorio, solo se è conforme alla regola. I Superiori sono gli interpreti della regola, ma non devono superare, in ciò che esigono, i limiti imposti dalla natura e dalle costituzioni dell'Istituto».

È una fortuna vedere questa verità sottolineata in modo così luminoso da due teologi della Compagnia di Gesù, istituto in cui la volontà e l'obbedienza hanno un ruolo così universale.

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