Una dura riflessione sull'afasia della maggior parte dei vescovi sui temi fondamentali della Chiesa e del mondo (Cordileone e Aquila, come eccezioni, QUI e QUI).
Luigi
25-05-2022, La Nuova Bussola Quotidiana, Stefano Fontana
Sono molto pochi i vescovi che oggi parlano, come dimostra il clamore attorno al caso Cordileone-Pelosi. Oggi il vescovo ha scarsissimo potere reale nella sua diocesi. Prima di tutto, a influenzarlo, c’è la curia, poi le cordate tra sacerdoti, le conferenze episcopali, i rapporti con Roma, ecc. Sullo sfondo il grande problema: l’ambiguità sulla dottrina. Di fronte a cui tutti, o quasi, tacciono.
Da tempo siamo davanti ad una situazione nuova: il silenzio dei vescovi cattolici. Non il silenzio delle commissioni episcopali o delle conferenze episcopali - quelle parlano anche troppo - ma il silenzio dei singoli vescovi, come singoli successori degli Apostoli.
L’arcivescovo di San Francisco, Salvatore Joseph Cordileone, ha indicato a tutti i sacerdoti della sua arcidiocesi di non dare la Comunione a Nancy Pelosi, cattolica, speaker della Camera e spinta sostenitrice dell’aborto di Stato. Il fatto è stato visto come un evento eccezionale e alcuni suoi confratelli hanno parlato di comportamento “eroico”. Letto al contrario, ciò dimostra che per mille che tacciono, uno solo parla. La percentuale è veramente molto bassa. Perfino i rabbini ebrei parlano di più dei vescovi cattolici: è dei giorni scorsi la notizia di aver diffidato lo Stato di Israele dall’aderire alla nuova gestione monocratica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ve lo immaginate qualche vescovo italiano che intervenga su un argomento simile? Quali i motivi di questo silenzio?
Una prima cosa, molto concreta, da osservare è che il vescovo oggi ha scarsissimo potere reale, ammesso che ancora ne abbia, nella sua diocesi. Si può dire che sia esautorato di fatto. Prima di tutto c’è la curia, ossia il vicario generale, il consiglio episcopale e gli officiali di curia. Il vescovo deve contrattare o comunque tenere conto delle loro posizioni e resistenze, che riflettono l’equilibrio dei poteri reali nella realtà diocesana. Nessun vescovo può sfuggire a queste logiche, che spesso sono di ricatto.
Poi ci sono le cordate tra i sacerdoti in base alle loro affinità elettive, alla loro visione teologica e della pastorale, alle loro amicizie maturate durante lo studio in seminario o in altri luoghi, ai loro legami personali con il vescovo precedente, alle loro aspettative di carriera ecclesiastica, ai loro contatti con Roma. Nessun presbiterio diocesano è immune da queste dinamiche, varia solo il grado della loro pesantezza.
Poi ci sono i confratelli riuniti nelle conferenze episcopali regionali e nazionali. Questo segna una ragnatela in cui ogni vescovo rimane impaniato, specialmente in un tempo come il nostro in cui un vescovo può essere destituito - è stato il caso di Porto Rico (riguardante mons. Daniel Fernández Torres) - per non aver saputo “collaborare” con i suoi confratelli e in cui l’unico valore che conta è la cosiddetta sinodalità. I legami nelle conferenze episcopali sono spesso molto negativi, impediscono ai vescovi di dire la propria, impongono scelte pastorali impegnative e basate su un consenso formale, per compiacenza, o per evitare i conflitti. Nel clima di sospetto e di incertezza di questo pontificato, i singoli vescovi si premurano di non dire mai nulla su niente. I documenti collettivi sono quindi smunti e generici, parlano molto ma non dicono niente nemmeno quelli.
Poi c’è il magistero dell’attuale Papa che spesso saltella di qua e di là, dice e non dice, oppure dice e poi contraddice. Si slancia e poi si ritira, butta il sasso e nasconde la mano, dice e poi smentisce, parla di trasparenza ma poi colpisce di netto, tollera molte cose ma su altre è intransigente, parla di misericordia ma non perdona. I singoli vescovi faticano a seguirlo. I nuovi nominati rispondono a queste medesime caratteristiche e quindi moltiplicano nelle diverse conferenze episcopali regionali questa incertezza da stop and go. C’è incertezza, ma anche inquietudine, sospetto reciproco, senso di solitudine, cautela nel parlare anche in privato. Solo dei vescovi eroici possono superare questa situazione, ma l’eroismo uno non se lo può dare se non ce l’ha. Da qui il compromesso del silenzio.
Poi ci sono i rapporti con i dicasteri della Santa Sede. Un vescovo non ha potere sugli insegnanti del suo seminario, se questo ha dei legami con la Congregazione per l’educazione cattolica oppure con delle università pontificie. Ancora più non ne ha se si tratta di un seminario interdiocesano (cosa ormai assai frequente e in aumento, data la necessità per ovvi motivi di accorpare l’istruzione dei seminaristi di più diocesi limitrofe). Il vescovo oggi ordina sacerdoti sulla cui formazione non ha nessun potere di intervento. Se nota che in seminario ci sono insegnanti atei può farci ben poco. Sono molti, purtroppo, i vescovi che aspettano i 75 anni come una liberazione.
Infine c’è l’argomento forse più importante. La dottrina non più chiara, lo sperimentalismo pastorale azzardato e imposto, l’incertezza sulle cose da insegnare, l’ordine implicito di dire solo cose che non siano divisive, l’obbligo di dimostrarsi aperti e misericordiosi ad oltranza, l’indicazione perentoria di non opporsi mai frontalmente al mondo. Capita così che o il vescovo si adegua o preferisce tacere. Non è detto che tutti quanti tacciono è perché non si adeguano, né è detto che tacere sia la cosa migliore da fare in questo momento per il bene della Chiesa. Però, intanto, tacciono.