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venerdì 21 gennaio 2022

Echi (pre)tridentini in gastronomia: lo stufato di cinghiale di S. Uberto di Liegi (3 novembre), una conversione di Venerdì Santo

Continuiamo la nostra "cura" gastronomica, con questa bella storia su S. Uberto di Liegi (che si convertì un Venerdì santo di tanti secoli fa, e che la Chiesa commemora il 3 novembre). 
Luigi


21-11-2021, La Nuova Bussola Quotidiana, Liana Marabini
Aveva preferito andare a caccia di cervi, la sua grande passione, anziché in chiesa per le funzioni del Venerdì Santo. Non immaginava quello che gli sarebbe successo allora. E che sarebbe diventato sant’Uberto, primo vescovo di Liegi.
Il giovane aspira a pieni polmoni l’aria pungente di quel mattino di marzo del 680 d.C., mentre stringe le briglie del suo cavallo, fatte di prezioso cuoio con borchie d’argento. Sta uscendo dalla città a piccolo trotto e guarda il mondo dall’alto. Sorride vedendo la folla che si dirige verso la chiesa. Sono tutti vestiti con gli abiti della domenica e hanno facce di circostanza, solo che oggi è venerdì: l’uomo sente compassione per loro, che si accingono ad ascoltare le parole noiose del prete per due ore. Invece lui passerà una bella mattinata dando la caccia al cervo. Si sente un privilegiato, non è da tutti poter cacciare il cervo. In effetti, è un appannaggio della nobiltà, i cui membri vengono addestrati a questo tipo di caccia che richiede talenti particolari. E lui è un ottimo cacciatore, anche perché passa la maggior parte del suo tempo a caccia, perciò ha una notevole esperienza nella materia.

Nobile di famiglia (è nato intorno al 656, primogenito del duca Bertrando di Aquitania), Uberto (questo è il nome del giovane), aveva passato la giovinezza a Metz, come conte palatino alla corte di re Teodorico III (651-691) re dell’Austrasia (quindi re di tutti i Franchi). Qui vale la pena aprire una parentesi e parlare un po’ di questo Teodorico, che, insieme a Clotario III e Clodoveo III, sono considerati dalla Storia “i re fannulloni”, cioè manipolati dai loro maggiordomi di palazzo.

Il “maggiordomo di palazzo”, detto anche “maestro di palazzo” - in latino maior domus, (“maggior servitore della casa”) - era, nella Gallia merovingia e poi in quella carolingia, il funzionario che sovrintendeva al palazzo reale, all’epoca vero e proprio cuore amministrativo del regno. Ebbene, il povero Teodorico fu scalzato proprio dal suo maggiordomo di palazzo, Ebroino. Il quale, non gradendo gli alleati del re, indusse costoro a sparpagliarsi un po’ dappertutto. Questa è la ragione per la quale il nostro Uberto lasciò Metz, per trasferirsi alla corte di Pipino di Herstal (640-714), maggiordomo di Austrasia: era un territorio che costituiva la parte nord-orientale del regno merovingio dei Franchi fra il VI e l’VIII secolo. Il regno si estendeva a nord-est (da cui il nome Ostreich o regno dell’est, appunto), fino al confine coi Sassoni, sulle sponde del fiume Reno. Quindi, ricevuto benevolmente da Pipino di Herstal, Uberto conduceva una vita di ozio, dedicandosi alla sua passione principale, la caccia.

Ritorniamo a quel giorno in cui lo vediamo a cavallo, pieno di anticipazione per il piacere di andare a caccia. Uberto si era lasciato la città alle spalle e ora stava penetrando nel bosco fitto, per lui così familiare. Il profumo della terra che si sveglia, degli arbusti che lasciavano spuntare foglie e boccioli e il canto degli uccelli gli diedero un intenso sentimento di benessere. Sorrise e alzò la testa per capire da quale parte soffiasse il vento: per la caccia al cervo, il cacciatore doveva stare in contro-vento e lui rispettava rigorosamente questa regola, che era una delle principali ragioni del suo successo nella caccia di cervi. Arrivò ai margini di una radura e lì scese da cavallo. L’animale si allontanò di poco. Uberto si vantava del fatto che aveva addestrato il suo cavallo, che sapeva rimanere dietro a lui, contro-vento e in silenzio. Si appostò dietro ad un arbusto fitto di ginepro (preferiva questa pianta, sempreverde), pose un ginocchio a terra e sistemò l'arco e la freccia affilatissima, pronto a sparare. Sentiva il profumo dell'arbusto di ginepro e un'eccitazione inspiegabile.

Non dovette aspettare molto, finalmente un cervo si materializzò nella radura e si accinse ad attraversarla. Uberto aspettò pazientemente: voleva che l'animale si girasse, per potergli sparare in fronte: in questo modo sarebbe morto subito. Solo così la pelle sarebbe rimasta intatta, la carne squisita e le corna intonse. Tirargli una freccia nel fianco l’avrebbe sì ucciso lo stesso, ma sarebbe corso per un bel po' con la freccia infilata: le tossine avrebbero invaso il corpo, rendendo dura la carne e la pelle avrebbe avuto un buco nella parte più pregiata. Oltre al fatto che a volte, nel tentativo di liberarsi dalla freccia, si sarebbe rovinato le corna.

Qualche istante dopo il cervo si girò e guardò negli occhi l'incredulo Uberto. Tra le corna maestose il cervo reggeva un crocifisso d'oro, tempestato di pietre. Lo guardò e dai grandi occhi una lacrima solcò la fine pelliccia che gli copriva il muso fremente. Uberto era come ipnotizzato, il dito curvo sulla freccia e un dolore nel braccio teso che reggeva l'arco. Ebbe l'impressione di leggere negli occhi del cervo e di vedere la Creazione in tutto il suo splendore. La complessità dell'animale, i dettagli di cui era fatto, la forza che sprigionava, lo fecero sentire insignificante, inerme e indegno di tanta bellezza. Lentamente abbassò il braccio, lasciò cadere arco e freccia e si alzò in piedi. Sussurrò, chiedendo perdono al cervo (che nell’iconografia cristiana è simbolo di Cristo che vince il demonio). L'animale si girò e con due balzi sparì dalla visuale dell'uomo. Uberto rimase immobile per un bel po'. Il cuore gli batteva all'impazzata, un leggero sudore freddo gli imperlava la fronte e tutto il suo corpo era come indolenzito. Ebbe un senso di nausea, che si trasformò in esaltazione: sapeva cosa doveva fare.

Così, quella mattina di marzo - era il Venerdì Santo - la sua vita cambiò per sempre. Rientrato nel suo palazzo, stupì tutti con la decisione di rinunciare a tutti i suoi beni e al titolo, a favore di suo fratello minore Oddone, il quale divenne così duca d'Aquitania e di Guascogna. Non solo, ma Uberto decise di diventare sacerdote. Si pose sotto la direzione spirituale di Lamberto, vescovo di Maastricht, studiò teologia e venne ordinato sacerdote.

Le sue predicazioni lo resero famoso: accorreva gente da ogni dove per ascoltarlo. Diventò il principale assistente di Lamberto. Quest'ultimo fu ucciso nel 706, per ordine di Pipino di Herstal (diventando così martire e santo). Uberto gli succedette e fondò la diocesi di Liegi, di cui lui divenne il primo vescovo. Nella cattedrale che fece costruire nella sua nuova sede episcopale fece anche traslare il corpo di Lamberto. Uberto compì una grande missione di evangelizzazione delle zone orientali del Belgio (Brabante, Ardenne) con le sue predicazioni.

Ma il destino era in agguato: mentre pescava in una barca sul fiume Mosa, Uberto fu vittima di un grave incidente che gli creò delle lesioni. Un’infezione gli invase il corpo, ma sopravvisse ancora poco più di un anno. Venne sepolto a Liegi nella Chiesa di San Pietro. Nell’825 i suoi resti mortali furono trasferiti nelle Ardenne, nell’abbazia di Andage. Gli ugonotti hanno distrutto le sue reliquie nel 1568.

Nel Medioevo, la sua venerazione come santo ebbe ampia diffusione: era invocato contro il morso dei cani, ma anche contro la rabbia. La sua tomba fu meta di numerosi pellegrinaggi di gente che arrivava dai quattro angoli del mondo. Sant’Uberto è il patrono dei cacciatori, degli arcieri, dei macellai, dei pellicciai, dei tornitori, degli ottici, dei metallurgici, dei fonditori, dei matematici e dei cani da caccia. Viene festeggiato il 3 novembre, giorno della traslazione delle reliquie.

La sua storia ci parla della rivelazione delle cose nascoste allo sguardo superficiale che a volte gli umani hanno per le cose essenziali. Ma anche di redenzione e della capacità dell’essere umano di migliorare e di cambiare la propria vita, quando meno se l’aspetta.

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