Le parole importantissime del cardinal Müller sul Motu proprio Traditionis Custodes, riportate in inglese su The Catholic Thing, tradotte in italiano da Sabino Paciolla: le più speranzose “Le disposizioni della Traditionis Custodes sono di natura disciplinare, non dogmatica e possono essere nuovamente modificate da qualsiasi papa futuro.”
Le più dure: “invece di apprezzare l’odore delle pecore, il pastore le colpisce duramente col suo bastone”.
Roberto
La paganizzazione della liturgia cattolica – che nella sua essenza non è altro che il culto del Dio Uno e Trino – attraverso la mitologizzazione della natura, l’idolatria dell’ambiente e del clima, così come lo spettacolo della Pachamama, sono stati piuttosto controproducenti per il ripristino e il rinnovo di una liturgia dignitosa e ortodossa che rifletta la pienezza della fede cattolica.”
Un intervento del Card. Gerhard Ludwig Müller, prefetto emerito della Congregazione per la dottrina della fede, pubblicato su The Catholic Thing, nella traduzione in inglese dal tedesco da Robert Royal con mons. Hans Feichtinger. Ve la propongo nella mia [di Sabino Paciolla, n.d.r.] traduzione in italiano.
L’intenzione del Papa con il suo motu proprio, Traditionis Custodes, è di assicurare o restaurare l’unità della Chiesa. Il mezzo proposto per questo è l’unificazione totale del Rito Romano nella forma del Messale di Paolo VI (comprese le sue successive variazioni). Pertanto, la celebrazione della Messa nella Forma Straordinaria del Rito Romano, come introdotta da Papa Benedetto XVI con Summorum pontificum (2007) sulla base del Messale esistente da Pio V (1570) a Giovanni XXIII (1962), è stata drasticamente limitata. Il chiaro intento è quello di condannare la Forma Straordinaria all’estinzione nel lungo periodo.
Nella sua “Lettera ai vescovi di tutto il mondo“, che accompagna il motu proprio, Papa Francesco cerca di spiegare i motivi che lo hanno indotto, come portatore della suprema autorità della Chiesa, a limitare la liturgia nella forma straordinaria. Al di là della presentazione delle sue reazioni soggettive, però, sarebbe stata opportuna anche un’argomentazione teologica stringente e logicamente comprensibile. Perché l’autorità papale non consiste nell’esigere superficialmente dai fedeli una semplice obbedienza, cioè una sottomissione formale della volontà, ma, molto più essenzialmente, nel permettere ai fedeli di essere convinti anche con il consenso della mente. Come disse San Paolo, cortese verso i suoi Corinzi, spesso piuttosto indisciplinati, “nella chiesa preferisco dire cinque parole con la mente, in modo da istruire anche gli altri, che diecimila parole con [il dono delle] lingue.” (1 Cor 14:19)
Questa dicotomia tra buona intenzione e cattiva esecuzione si verifica sempre quando le obiezioni dei dipendenti competenti sono percepite come un ostacolo alle intenzioni dei loro superiori, e che quindi non vengono nemmeno offerte. Per quanto graditi possano essere i riferimenti al Vaticano II, bisogna fare attenzione a che le affermazioni del Concilio siano usate con precisione e nel loro contesto. La citazione di Sant’Agostino sull’appartenenza alla Chiesa “secondo il corpo” e “secondo il cuore” (Lumen Gentium 14) si riferisce alla piena appartenenza alla Chiesa della fede cattolica. Essa consiste nell’incorporazione visibile nel corpo di Cristo (comunione creaturale, sacramentale, ecclesiastico-gerarchica) e nell’unione del cuore, cioè nello Spirito Santo. Ciò che significa, tuttavia, non è l’obbedienza al papa e ai vescovi nella disciplina dei sacramenti, ma la grazia santificante, che ci coinvolge pienamente nella Chiesa invisibile come comunione con il Dio Trino.
Perché l’unità nella confessione della fede rivelata e la celebrazione dei misteri della grazia nei sette sacramenti non richiedono affatto una sterile uniformità nella forma liturgica esterna, come se la Chiesa fosse come una delle catene alberghiere internazionali dal design omogeneo. L’unità dei credenti tra di loro è radicata nell’unità in Dio attraverso la fede, la speranza e l’amore e non ha nulla a che fare con l’uniformità nell’aspetto, il passo di marcia di una formazione militare o il pensiero di gruppo dell’era big-tech.
Anche dopo il Concilio di Trento, c’è sempre stata una certa diversità (musicale, celebrativa, regionale) nell’organizzazione liturgica delle messe. L’intenzione di Papa Pio V non era quella di sopprimere la varietà dei riti, ma piuttosto di frenare gli abusi che avevano portato a una devastante mancanza di comprensione tra i riformatori protestanti riguardo alla sostanza del sacrificio della Messa (il suo carattere sacrificale e la Presenza Reale). Nel Messale di Paolo VI, l’omogeneizzazione ritualistica (rubricista) viene spezzata, proprio per superare un’esecuzione meccanica a favore di una partecipazione attiva interiore ed esteriore di tutti i fedeli nelle loro rispettive lingue e culture. L’unità del rito latino, tuttavia, deve essere conservata attraverso la stessa struttura liturgica di base e il preciso orientamento delle traduzioni all’originale latino.
La Chiesa romana non deve scaricare la sua responsabilità per l’unità del culto sulle Conferenze episcopali. Roma deve vigilare sulla traduzione dei testi normativi del Messale di Paolo VI, e anche dei testi biblici, che potrebbero oscurare i contenuti della fede. Le presunzioni che si possano “migliorare” i verba domini (per esempio pro multis – “per molti” – alla consacrazione, l’et ne nos inducas in tentationem – “e non ci indurre in tentazione” – nel Padre nostro), contraddicono la verità della fede e l’unità della Chiesa molto più che celebrare la Messa secondo il Messale di Giovanni XXIII.
La chiave della comprensione cattolica della liturgia risiede nell’intuizione che la sostanza dei sacramenti è data alla Chiesa come segno visibile e mezzo della grazia invisibile in virtù della legge divina, ma che spetta alla Sede Apostolica e, in conformità alla legge, ai vescovi ordinare la forma esterna della liturgia (nella misura in cui non esiste già dai tempi apostolici). (Sacrosanctum Concilium, 22 § 1)
Le disposizioni della Traditionis Custodes sono di natura disciplinare, non dogmatica e possono essere nuovamente modificate da qualsiasi papa futuro. Naturalmente, il papa, nella sua preoccupazione per l’unità della Chiesa nella fede rivelata, è da sostenere pienamente quando la celebrazione della Santa Messa secondo il Messale del 1962 è espressione di resistenza all’autorità del Vaticano II, cioè quando la dottrina della fede e l’etica della Chiesa sono relativizzate o addirittura negate nell’ordine liturgico e pastorale.
Nella Traditionis Custodes, il papa insiste giustamente sul riconoscimento incondizionato del Vaticano II. Nessuno può dirsi cattolico se vuole tornare indietro oltre il Vaticano II (o qualsiasi altro concilio riconosciuto dal papa) come il tempo della “vera” Chiesa o se vuole lasciarsi quella Chiesa alle spalle come passo intermedio verso una “nuova Chiesa”. Si può misurare la volontà di Papa Francesco di riportare all’unità i deplorati cosiddetti “tradizionalisti” (cioè coloro che si oppongono al Messale di Paolo VI) rispetto al grado della sua determinazione a porre fine agli innumerevoli abusi “progressisti” della liturgia (rinnovata secondo il Vaticano II) che equivalgono alla bestemmia. La paganizzazione della liturgia cattolica – che nella sua essenza non è altro che il culto del Dio Uno e Trino – attraverso la mitologizzazione della natura, l’idolatria dell’ambiente e del clima, così come lo spettacolo della Pachamama, sono stati piuttosto controproducenti per il ripristino e il rinnovo di una liturgia dignitosa e ortodossa che rifletta la pienezza della fede cattolica.
Nessuno può chiudere gli occhi sul fatto che anche quei sacerdoti e laici che celebrano la Messa secondo l’ordine del Messale di San Paolo VI vengono ora ampiamente declamati come tradizionalisti. Gli insegnamenti del Vaticano II sull’unicità della redenzione in Cristo, la piena realizzazione della Chiesa di Cristo nella Chiesa Cattolica, l’essenza interna della liturgia cattolica come adorazione di Dio e mediazione della grazia, la Rivelazione e la sua presenza nella Scrittura e nella Tradizione Apostolica, l’infallibilità del magistero, il primato del papa, la sacramentalità della Chiesa, la dignità del sacerdozio, la santità e l’indissolubilità del matrimonio – tutto questo viene ereticamente negato in aperta contraddizione con il Vaticano II da una maggioranza di vescovi e funzionari laici tedeschi (anche se mascherati da frasi pastorali).
E nonostante tutto l’apparente entusiasmo che esprimono per Papa Francesco, stanno negando categoricamente l’autorità conferitagli da Cristo come successore di Pietro. Il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede sull’impossibilità di legittimare i contatti sessuali omosessuali ed extraconiugali attraverso una benedizione è ridicolizzato da vescovi, preti e teologi tedeschi (e non solo tedeschi) come semplice opinione di funzionari curiali poco qualificati. Qui abbiamo una minaccia all’unità della Chiesa nella fede rivelata, che ricorda la dimensione della secessione protestante da Roma nel XVI secolo. Data la sproporzione tra la risposta relativamente modesta ai massicci attacchi all’unità della Chiesa nella “via sinodale” tedesca (così come in altre pseudo-riforme) e la dura disciplina della vecchia minoranza rituale, viene in mente l’immagine del vigile del fuoco mal consigliato che – invece di salvare la casa in fiamme – salva prima il piccolo fienile accanto ad essa.
Senza la minima empatia, si ignorano i sentimenti religiosi dei partecipanti (spesso giovani) alle Messe secondo il Messale Giovanni XXIII. (1962) Invece di apprezzare l’odore delle pecore, il pastore qui le colpisce duramente con il suo bastone. Sembra anche semplicemente ingiusto abolire le celebrazioni del “vecchio” rito solo perché attira alcune persone problematiche: abusus non tollit usum.
Ciò che merita particolare attenzione nella Traditionis Custodes è l’uso dell’assioma lex orandi-lex credendi (“Regola della preghiera – regola della fede”). Questa frase appare per la prima volta nell’Indiculus antipelagiano (“Contro le superstizioni e il paganesimo”) che parlava dei “sacramenti delle preghiere sacerdotali, tramandati dagli apostoli per essere celebrati uniformemente in tutto il mondo e in tutta la Chiesa cattolica, così che la regola della preghiera è la regola della fede.” (Denzinger Hünermann, Enchiridion symbolorum 3) Questo si riferisce alla sostanza dei sacramenti (in segni e parole) ma non al rito liturgico, di cui esistevano diversi (con diverse varianti) in epoca patristica. Non si può semplicemente dichiarare che l’ultimo messale sia l’unica norma valida della fede cattolica senza distinguere tra la “parte che è immutabile in virtù dell’istituzione divina e le parti che sono soggette a cambiamenti.” (Sacrosanctum Concilium 21). I mutevoli riti liturgici non rappresentano una fede diversa, ma testimoniano l’unica e medesima Fede Apostolica della Chiesa nelle sue diverse espressioni.
La lettera del papa conferma che permette la celebrazione secondo la forma più antica a certe condizioni. Egli indica giustamente la centralità del canone romano nel Messale più recente come cuore del rito romano. Questo garantisce la continuità cruciale della liturgia romana nella sua essenza, nello sviluppo organico e nell’unità interna. A dire il vero, ci si aspetta che i cultori dell’antica liturgia riconoscano la liturgia rinnovata; così come i seguaci del Messale di Paolo VI devono anche confessare che la Messa secondo il Messale di Giovanni XXIII è una vera e valida liturgia cattolica, cioè contiene la sostanza dell’Eucaristia istituita da Cristo e, quindi, c’è e può esserci solo “l’unica Messa di tutti i tempi”.
Un po’ più di conoscenza della dogmatica cattolica e della storia della liturgia potrebbe contrastare l’infelice formazione di partiti contrapposti e anche salvare i vescovi dalla tentazione di agire in modo autoritario, senza amore e con mentalità ristretta contro i sostenitori della “vecchia” Messa. I vescovi sono nominati come pastori dallo Spirito Santo: “Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge di cui lo Spirito Santo vi ha fatto custodi. Siate pastori della chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il proprio sangue”. (Atti 20, 28) Essi non sono semplici rappresentanti di un ufficio centrale – con possibilità di avanzamento. Il buon pastore si riconosce dal fatto che si preoccupa più della salvezza delle anime che di raccomandarsi a un’autorità superiore con un “buon comportamento” servile. (1 Pietro 5, 1-4) Se la legge di non contraddizione si applica ancora, non si può logicamente castigare il carrierismo nella Chiesa e allo stesso tempo promuovere i carrieristi.
Speriamo che le Congregazioni per i Religiosi e per il Culto Divino, con la loro nuova autorità, non si inebrino di potere e pensino di dover condurre una campagna di distruzione contro le comunità del vecchio rito – nella sciocca convinzione che così facendo stanno rendendo un servizio alla Chiesa e promuovendo il Vaticano II.
Se la Traditionis Custodes deve servire all’unità della Chiesa, ciò può significare solo un’unità nella fede, che ci permette di “giungere alla perfetta conoscenza del Figlio di Dio”, cioè l’unità nella verità e nell’amore. (cfr. Ef 4, 12-15).
Nessun commento:
Posta un commento