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lunedì 9 aprile 2018

#chiesacattolicadovevai? Le relazioni dei Cardinali Brandmüller e Burke


Pubblichiamo i testi dei primi due interventi del Convegno "Chiesa Cattolica, dove vai?" comparsi in rete: "On Consultingthe Faithful in Matters of Doctrine". Sulla consultazione dei fedeli in questioni di dottrina, del Card. Walter Brandmüller e La “Plenitudo Potestatis” del Romano Pontefice nel servizio dell'unità della Chiesa del Card. Raymond Leo Burke (fonte: Stilum Curiae).
Nei prossimi giorni saranno resi disponibili anche gli altri. 


"On Consulting the Faithful in Matters of Doctrine".
Sulla consultazione dei fedeli in questioni di dottrina
di Walter Brandmüller



On Consulting the Faithful in Matters of Doctrine". È questo il titolo di un famoso saggio del 1859 del beato John Henry Newman, che intendo dare anche alle seguenti osservazioni. Domanderò pertanto quale spazio, quale peso vada dato alla voce dei fedeli nelle questioni di dottrina. E porrò questa domanda di fronte a una crisi della fede che oggi scuote la Chiesa nel profondo.

Parlando di laici, qualcuno potrebbe pensare che s'intenda contrapporre qui esperti e "laici", laddove questi ultimi meno sono "afflitti" da conoscenza di causa, più facilmente fanno sentire la propria voce anche sulle questioni più complesse, basti pensare al problema del cambiamento climatico.

Ma non è di questo che si tratta qui e adesso.

Nel presente contesto, "laico" non designa un non-esperto in materia di teologia, bensì un cristiano battezzato, confermato, che però non ha ricevuto il sacramento dell’ordine. Domanderò quindi quale ruolo compete ai “laici” nell'interpretazione, spiegazione, proclamazione, formulazione della dottrina della fede; e, non ultimo, porrò tale domanda sullo sfondo della situazione attuale. Anche la Commissione teologica internazionale, presieduta dal cardinale Müller, nel 2014 ha pubblicato un importante documento a questo riguardo, che verrà preso in considerazione.

I- Diamo però prima uno sguardo alla storia. Di fatto, vi troviamo non poche testimonianze del ruolo di rilievo della testimonianza di fede dei laici. È sempre il cardinale Newman a portare il nostro sguardo sulla crisi dell’arianesimo del IV secolo. In quella situazione, in cui si trattava della uguale natura della divinità di Gesù con il Padre e la cui posta in gioco era di fatto l’essere o il non essere della Chiesa, i vescovi fallirono abbondantemente. "Parlarono in maniera non univoca, l’uno contro l’altro; dopo Nicea, per quasi 60 anni non ci fu una testimonianza ferma, costante, coerente".


Mentre l’episcopato era destabilizzato e diviso, "la tradizione divina, affidata alla Chiesa infallibile, fu proclamata e mantenuta molto più dai fedeli che dall’episcopato". Newman afferma: "Ma io sostengo che, in quel tempo di grandissima confusione, il sommo dogma della divinità del nostro Salvatore sia stato annunciato … e custodito molto più dalla 'Ecclesia docta' che dalla 'Ecclesia docens'; che la totalità dell’episcopato come corpo non è stato fedele al suo ministero, mentre il laicato nel complesso è rimasto fedele alla sua grazia battesimale…" (cfr. p. 271d).

Saltiamo poi le testimonianze analoghe nel Medioevo e all’inizio dell’età moderna, che parlano di preferenza della testimonianza di fede dell’intera Chiesa, senza distinguere tra titolari del magistero e fedeli. Vi si parla volentieri della "infallibilitas in credendo", ovvero della infallibilità passiva della Chiesa, che non può, nella sua totalità, incorrere nell’eresia.

Il "sensus fidei" dei credenti, però, non agisce solo quando si tratta di respingere l’errore, ma anche nella testimonianza della verità.

Esempi molto significativi dell'importanza che alcuni papi hanno attribuito alla testimonianza di fede dei laici, li troviamo negli ultimi due secoli, e più precisamente nel contesto dei dogmi mariani del 1854 e del 1950.

In entrambi i casi, prima della loro definizione tutti i vescovi furono invitati a verificare e a riferire come loro stessi, insieme al clero e ai fedeli, si ponevano dinanzi a tale intenzione. In tal modo, sia Pio IX sia Pio XII si accertarono della convinzione di fede viva nella Chiesa riguardo alle due verità mariane. L’approvazione dei due dogmi fu – salvo alcune rare eccezioni – generale. "Securus iudicat orbis terrarum". Già Agostino aveva contrapposto questa convinzione alle eresie del suo tempo.

Evidentemente sia Pio IX sia Pio XII erano consapevoli del peso che la testimonianza dei fedeli ha anche rispetto al supremo maestro della fede, facendovi poi di fatto espresso riferimento nelle rispettive bolle di definizione dei dogmi.

II- Si tratta dunque del "sensus", del "consensus fidei", in virtù del quale la testimonianza dei fedeli ha un proprio peso nella conservazione, nell’approfondimento e nella proclamazione della verità di fede rivelata.

Quando il cardinale Newman dice che si tratta, da parte del magistero, di un "consulting" dei fedeli, si potrebbe avere l’impressione che intenda una sorta di sondaggio, addirittura un plebiscito. Naturalmente questo è impossibile. La Chiesa non è una società costituita democraticamente, bensì il "Corpus mysticum" del Cristo risorto e glorificato, con il quale e nel quale i fedeli sono uniti come le membra di un corpo, quasi a formare un organismo soprannaturale. Chiaramente per questo valgono leggi diverse da quelle sociologiche e politiche; a emergere qui è la realtà della grazia.

Come insegna la fede, per mezzo del sacramento del battesimo alla persona viene infusa la grazia santificante, che è una realtà ontologica soprannaturale e quindi rende l’uomo santo, giusto e gradito a Dio. Con la grazia santificante – si potrebbe anche dire grazia giustificante – vengono infuse anche le tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità. Fede, speranza e carità sono "habitus", predisposizione dell’anima, che rendono quest’ultima capace di agire, di comportarsi conformemente.

Un modo in cui la virtù teologale della fede diventa efficace è, tra le altre cose, il "sensus fidei" dei fedeli.

Questa efficacia può, positivamente, rendere capaci di una visione più profonda della verità rivelata, di una comprensione più chiara e di una professione più forte.

Negativamente, invece, il "sensus fidei" agisce come una sorta di sistema immunitario spirituale, che fa riconoscere e rifiutare istintivamente ai fedeli qualsiasi errore. Su questo "sensus fidei" poggia dunque – a prescindere dalla promessa divina – anche l’infallibilità passiva della Chiesa, ovvero la certezza che la Chiesa, nella sua totalità, non potrà mai incorrere in una eresia.

Di fatto, al numero 12 della costituzione "Lumen gentium", il concilio Vaticano II insegna: "La totalità dei fedeli, avendo l'unzione che viene dal Santo, (cfr. 1 Gv 2, 20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando 'dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici' mostra l'universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, […] il popolo di Dio […] con retto giudizio penetra in essa [fede] più a fondo e più pienamente l'applica nella vita”.

Pertanto, il consenso dei fedeli e la manifestazione dello stesso hanno un’importanza non irrilevante.

III- Ora, indubbiamente nella storia della Chiesa si sono verificati casi del genere. Così è stato, per esempio, con il movimento cosiddetto della Pataria in Nord Italia, che, vicino ai tentativi di riforma romani, nella seconda metà del XII secolo si sollevò con forza contro l’investitura dei laici, la simonia e il concubinato sacerdotale. Poi ci furono le masse di fedeli che nel 1300 si misero in cammino per raggiungere le tombe degli apostoli, inducendo papa Bonifacio VIII a istituire l’Anno Santo e a esporre la dottrina dell’indulgenza con la bolla "Antiquorum habet fida relatio". Non va poi dimenticato quanto è stato importante l’ultramontanismo del XIX secolo per i dogmi del concilio Vaticano I.

Ma l’esperienza della storia insegna anche che la verità non sta necessariamente con la maggioranza, con i grandi numeri.

Che cosa si sarebbe dovuto dire, infatti, quando, per esempio, il nunzio apostolico Girolamo Aleandro riferì dal Reichstag di Worms del 1521 che nove decimi dei tedeschi avevano gridato "Lutero" e "abbasso la curia romana"? Che cosa si deve dire quando oggi le nostre comunità parrocchiali applaudono forte un sacerdote che nell’omelia ha annunciato le sue imminenti nozze? Che cosa è accaduto quando il Katholikentag tedesco del 1968 ha reagito con proteste eccessive, addirittura con odio, all’enciclica "Humanae vitae"?

Davvero in tali casi era – ed è – all’opera il "sensus fidei", il "consensus fidelium", alimentato dalla virtù teologale? Appare evidente, in questi e in altri casi analoghi, che il "consensus fidei fidelium" non può essere paragonato alla "volonté generale" di Rousseau.

Pertanto, quando dei cattolici en masseconsiderano legittimo risposarsi dopo il divorzio, la contraccezione o altre cose simili, ciò non è una testimonianza di massa a favore delle fede, bensì un allontanamento di massa dalla stessa.

Il "sensus fidei" non è un’entità che si può determinare democraticamente, in modo demoscopico. L'unica domanda è in che cosa la testimonianza di massa si distingue dall’allontanamento di massa.

Così, già san Giovanni Paolo II ha sottolineato la necessità di distinguere attentamente tra "opinione pubblica" e "sensus fidei fidelium".

Anche la Commissione teologica internazionale a questo riguardo dice con grande chiarezza: "È evidente che non è possibile identificare in modo puro e semplice il "sensus fidei" con l’opinione pubblica o della maggioranza. Non sono in alcun modo la stessa cosa" ("Il 'sensus fidei'nella vita della Chiesa", n. 118). Ciò vale anche per l’opinione pubblica o della maggioranza all’interno della Chiesa. "Spesso nella storia del popolo di Dio non è stata la maggioranza, ma piuttosto una minoranza a vivere autenticamente la fede e a renderle testimonianza […]. È dunque particolarmente importante discernere e ascoltare le voci dei 'piccoli che credono' (Mc 9, 42)“ (ibidem).

È straordinario ciò che segue: "L’esperienza della Chiesa dimostra come alle volte la verità della fede sia stata conservata non dagli sforzi dei teologi né dall’insegnamento della maggioranza dei vescovi, ma nel cuore dei credenti" (ibid., n. 119).

Un esempio particolare di questo è dato dalla confusione ariana intorno al concilio di Nicea già ricordata da Newman, dove perfino i sinodi dei vescovi o sostenevano l’eresia, o la diffondevano. Lo stesso lo si potrebbe osservare pensando alle opinioni sostenute oggi dai consigli diocesani, pastorali e di altro genere istituiti nel periodo postconciliare. È forse un po’ lontano dalla realtà quando il citato documento "Sensus fidei" li definisce in generale degli “strumenti istituzionali” per valutare il "sensus "fidelium" (ibid., n. 125).

Di fatto, come già dimostra l’esempio citato dei sinodi post-niceni, possono cadere nell’errore. Diventa allora ancor più essenziale il discernimento.

Tale necessità viene evidenziata dal documento "Il 'sensus fidei' nella vita della Chiesa" del 2014: "Occorre esaminare come discernere e identificare le sue [del 'sensus fidei'] manifestazioni autentiche. Un tale discernimento è richiesto in particolare nelle situazioni di tensione, nelle quali è necessario distinguere il 'sensus fidei' autentico dalla semplice espressione dell’opinione comune, di interessi particolari o dello spirito dei tempi" (n. 87).

Ancora una volta si può fare riferimento a J. H. Newman, che nel suo "Essay on the Development of Christian Doctrine" propone un elenco di criteri che rendono possibile distinguere lo sviluppo organico-legittimo della dottrina dall’errore. Basti ricordare qui l'indispensabile mancanza di contraddizione rispetto alla tradizione autentica.

E dunque, questo documento sviluppa anche dei criteri, ovvero "le disposizioni necessarie a partecipare in modo autentico al 'sensus fidei'" (ibid., n. 73). Ciò significa che non tutti coloro che si definiscono cattolici, possono avanzare la pretesa di essere presi sul serio come organo di questo "sensus fidei".

In breve: "Una partecipazione autentica al "sensus fidei" richiede la santità. […] Essere santi significa fondamentalmente […] essere battezzati e vivere la fede nella potenza dello Spirito Santo" (ibid., n. 99). Viene così definito un requisito molto alto.

Una volta date queste premesse, occorre di fatto tener conto di ciò che il concilio Vaticano II insegna al numero 12 di "Lumen gentium": "È necessario che i cattolici siano pienamente coscienti di avere quella vera libertà di parola e di espressione, che si fonda sul 'senso della fede' [il 'sensus fidei'] e sulla carità" ("Lumen gentium" 12; "Il 'sensus fidei' nella vita della Chiesa", n. 124). Perciò anche il canone 212 § 3 stabilisce: "In modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa; e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l'integrità della fede e dei costumi".

Ora, però, si pone la domanda su come discernere il "sensus fidelium" autentico, e quindi teologicamente rilevante.

Nella fase preparatoria dei sinodi dei vescovi, per esempio, sono stati distribuiti dei questionari a tal fine. Non sono in grado di giudicare fino a che punto queste azioni siano state svolte in maniera professionale, ovvero tenendo conto dei metodi sviluppati dalla moderna demoscopia. È però evidente che tali questionari giungano molto più facilmente ai quadri delle organizzazioni cattoliche che alla normale comunità dei fedeli. C’era quindi da aspettarsi che i risultati della consultazione più che rispecchiare la vera opinione pubblica del popolo dei fedeli fossero influenzati dal pensiero promosso dalle singole associazioni, e così via.

Un altro problema è costituito dalla scelta, ovvero dalla formulazione delle domande proposte. In tal modo era facile poter manipolare i risultati. È alquanto dubbio che ciò consenta di sperimentare il vero "sensus fidei fidelium".

Il "sensus fidei fidelium", ritengo, si esprime in modo molto più autentico attraverso dichiarazioni spontanee. Un esempio molto evidente di ciò lo offrono le manifestazioni di massa "Manif pour tous" in Francia.

È degna di nota anche la partecipazione di centinaia di migliaia di persone alle marce per la vita.

Infine, quasi un milione di cattolici hanno indirizzato al Santo Padre una petizione riguardo alle questioni sorte con "Amoris laetitia", seguiti da oltre 200 eminenti studiosi da tutto il mondo.

Sono queste le forme in cui si manifesta oggi il "sensus fidei", l’istinto di fede del popolo credente.

Sarebbe ora che il magistero prestasse la dovuta attenzione a questa testimonianza di fede.

Nell'opera citata all’inizio, "On Consulting the Faithful in Matters of Doctrine", J. H. Newman ha scritto: “Dunque non credo affatto che potranno mai ritornare tempi come quelli degli ariani”.

Oggi staremmo tutti meglio se avesse avuto ragione.




La “Plenitudo potestatis” del Romano Pontefice
nel servizio dell’unità della Chiesa
di Raymond Leo Burke


In memoria del Cardinale Joachim Meisner

Prima di entrare nel cuore del mio argomento, in questo contesto di riconoscente ed affettuoso ricordo del compianto Card. Carlo Caffarra e di ardente desiderio di continuare il suo lavoro di amore disinteressato e totale per Cristo e il Suo Corpo Mistico, la Chiesa, vorrei dire alcune parole per onorare la memoria del Card. Joachim Meisner. Egli fu, dall’inizio della buona battaglia per difendere e promuovere le verità fondamentali sul matrimonio e sulla famiglia, completamente unito al Card. Caffarra, al Card. Walter Brandmüller ed a me. Egli, da vero pastore del gregge del Signore, riteneva suo primo dovere la presentazione instancabile dell’insegnamento di Cristo nella Chiesa. Ricordo due momenti, in particolare, in questa sua ultima battaglia per servire Cristo e la Chiesa.

Dopo la prolusione del Card. Walter Kasper durante il Concistoro Straordinario del febbraio del 2014, mentre uscivamo dall’aula sinodale, egli si avvicinò a me ed espresse tutta la sua preoccupazione per la falsa direzione nella quale la predetta prolusione avrebbe condotto la Chiesa se non ci fosse stata un’adeguata e repentina correzione. Inoltre aggiunse: “Tutto ciò finirà in uno scisma”. Da quel momento, egli ha fatto tutto il possibile per difendere la parola di Cristo sul matrimonio.

L’ultima volta che ho avuto il piacere di vedere il Card. Meisner è stato il 3 marzo dell’anno scorso, quando ho visitato l’Arcidiocesi di Colonia per una presentazione accademica alla quale anche egli partecipava. Il Card. Meisner fu veramente contento di potermi esprimere di persona tutto il suo appoggio per il lavoro svolto al fine di ottenere una giusta risposta del Santo Padre ai “dubia” suscitati dall’Esortazione Post-sinodale “Amoris Laetitia”. Mentre egli era chiaramente e profondamente preoccupato per lo stato attuale della Chiesa, non tralasciava di esprimere tutta la sua fiducia nel Signore che non mancherà di sostenere il Suo Corpo Mistico nella verità della fede.

Oggi, onorando la memoria del grande Card. Carlo Caffarra, onoriamo anche, come sono certo che il Card. Caffarra avrebbe voluto che facessimo, la memoria del Card. Joachim Meisner, che, insieme col Card. Caffarra, secondo le parole di san Paolo, ha combattuto la buona battaglia della fede, ha terminato la corsa della sua missione episcopale per il bene di innumerevoli fedeli, e, con fedeltà e generosità, ha conservato la fede (1). “Requiescat in pace”!

Introduzione

In una delle discussioni aperte durante la sessione del Sinodo dei Vescovi, tenuta nell’ottobre del 2014, i Padri Sinodali stavano dibattendo sulla possibilità di permettere a coloro che vivono in una unione irregolare l’accesso ai Sacramenti della Penitenza e della Santa Eucaristia. Ad un certo momento, uno dei Cardinali, ritenuto esperto in diritto canonico, intervenne proponendo una soluzione, che a suo giudizio, avrebbe superato tutte le difficoltà. Facendo riferimento alla dissoluzione di un matrimonio in favore della fede, egli sostenne, con grande convinzione, che noi non avevamo del tutto compreso l’estensione della pienezza del potere (la “plenitudo potestatis”) del Romano Pontefice. La conclusione fu che la pienezza del potere, che per diritto divino inerisce all’Ufficio Petrino, permetterebbe al Santo Padre di prendere una decisione in contrasto con le parole del Signore riportate nel capitolo 19 del Vangelo secondo san Matteo e con l’insegnamento costante della Chiesa, in fedeltà alle stesse parole:

“Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio” (2).

L’affermazione assai scioccante del Cardinale, mi fece pensare nuovamente a quanto il Santo Padre stesso aveva detto a tutti i Padri sinodali all’inizio di quella sessione del Sinodo dei Vescovi nel 2014.

Egli disse ai Padri Sinodali: “Bisogna dire tutto ciò che si sente con parresia” (3). Concludendo: “E fatelo con tanta tranquillità e pace, perché il Sinodo si svolge sempre ‘cum Petro et sub Petro’, e la presenza del Papa è garanzia per tutti e custodia della fede” (4). La giustapposizione delle parole classiche che descrivono il potere del Papa, cosicché tutto nella Chiesa deve essere sempre con Pietro e sotto Pietro, con la presenza fisica del Papa stesso in un incontro, rischia di generare un fraintendimento circa l’autorità del Papa, che non è magica, ma deriva dalla sua obbedienza al Signore.

Tale pensiero magico si riflette anche nella risposta docile di alcuni fedeli a tutto ciò che viene affermato dal Romano Pontefice, secondo l’idea che, se il Santo Padre dice qualcosa, allora bisogna accettarla quale insegnamento papale. In ogni caso, sembra opportuno riflettere un po’ sulla nozione del potere inerente all’Ufficio Petrino e, in particolare, sulla nozione della pienezza del potere del Romano Pontefice.

La pienezza del potere nella Tradizione

La storia dell’espressione “pienezza del potere” (plenitudo potestatis), per esprimere la natura della giurisdizione del Romano Pontefice, è descritta succintamente in un contributo del Professore John A. Watt dell’Università di Hull in Inghilterra redatto per il Secondo Congresso Internazionale di Diritto Canonico Medievale (Second International Congress of Medieval Canon Law), tenuto al Boston College dal 12 al 16 agosto del 1963 (5). Come egli spiega, il termine venne utilizzato per la prima volta da Papa San Leone Magno nel 446. Nella sua Lettera 14, egli utilizza queste parole per descrivere l’autorità del Vescovo: “Perciò abbiamo affidato alla vostra carità i nostri doveri, cosicché voi siete chiamati a partecipare alla sollecitudine, ma non alla pienezza del potere” (6). Nel suo abituale Latino cristallino, Papa San Leone Magno esprime il rapporto tra il Romano Pontefice ed i Vescovi. Mentre il Romano Pontefice ed i Vescovi condividono la sollecitudine per il bene della Chiesa universale, solo il Romano Pontefice esercita la pienezza del potere, affinché l’unità della Chiesa universale sia efficacemente salvaguardata e promossa.

La terminologia “pienezza del potere” si trova estensivamente nei trattati sull’autorità papale, specialmente nella letteratura canonica. Graziano include il dettato di Papa San Leone Magno, insieme con altri due canoni, nei suoi Decreti. Questi decreti sottolineano “il primato papale come espresso nella suprema giurisdizione di appello e nella riserva di tutte le questioni maggiori” (7). San Bernardo di Chiaravalle contribuì fortemente alla recezione della terminologia, cosicché “al tempo di Uguccione questa raggiunse un alto livello di sviluppo” (8).

Papa Innocenzo III, individuando la base teologica del termine nella realtà dell’ufficio Papale quale Vicario di Cristo sulla terra, “Vicarius Christi”, ha sottolineato la posizione del Romano Pontefice “supra ius” e quale “iudex ordinarius omnium” (9). Per quanto riguarda il termine, supra ius, è sempre stato chiaro che il Romano Pontefice potesse dispensare dalla legge o interpretare la legge, ma solo allo scopo di servire il fine proprio della stessa e mai per sovvertirla. La descrizione dell’esercizio della pienezza del potere, quale azione di Cristo stesso tramite il Suo Vicario sulla terra, si presenta con “il requisito secondo cui il Papa deve evitare di decretare qualsiasi cosa che sia peccaminosa o possa condurre al peccato o alla sovversione della Fede” (10).

Il Card. Enrico da Susa, detto l’Ostiense, illustre canonista del 13° secolo, trattò ampiamente la nozione della pienezza del potere del Romano Pontefice, utilizzando il termine in 71 contesti individuali dei suoi scritti: la “Summa”, l’”Apparatus” o “Lectura” sulla “Gregoriana”, e l’”Apparatus” o le “Extravagantes” di Innocenzo IV. Nella prima appendice al suo articolo, il Professor Watt presenta un elenco rappresentativo dei testi di Papa Innocenzo III nei quali egli utilizza il termine “pienezza del potere”, mentre nella seconda appendice egli propone un elenco di tutti i 71 usi del termine da parte dell’Ostiense (11).

L’Ostiense introduce una distinzione tra due usi del termine “pienezza del potere”: “l’ordinario potere, ‘potestas ordinaria’ o ‘ordinata’ del Papa quando in virtù del suo ‘plenitudo officii’, egli agisce secondo la legge già stabilita”, e “il suo potere assoluto, ‘potestas absoluta’ quando in virtù della sua ‘plenitudo potestatis’, egli oltrepassa o trascende la legge esistente” (12). L’aggettivo, assoluto, deve essere inteso nel contesto della Legge Romana [Diritto Romano] e del suo servizio allo sviluppo della disciplina canonica, e non secondo il pensiero di Machiavelli o dei dittatori totalitari.

Nella Legge Romana, il potere assoluto si sostanziava nel poter dispensare dalla legge e nel poter supplire ad un difetto della stessa. Nelle parole del Professor Watt:

“La dispensa era un uso del potere assoluto di mettere da parte la legge esistente; la ‘suppletio’ (la supplenza) era un atto di potere assoluto per rimediare a difetti che erano emersi sia per l’inosservanza della legge esistente, sia perché la legge esistente era inadeguata a soddisfare le circostanze particolari. In entrambi i casi, il potere assoluto, la ‘plenitudo potestatis’, si rivela come un potere discrezionale sull’ordinamento giuridico stabilito, un potere prerogativa di agire per il bene comune al di fuori di quell’ordine se, secondo il giudizio del Papa, le circostanze lo rendessero necessario” (13).

In altre parole, la pienezza del potere non fu intesa come un’autorità sulla costituzione stessa della Chiesa o sul suo Magistero, ma come una necessità per il governo della Chiesa in piena fedeltà alla sua costituzione e al suo Magistero. L’Ostiense la descrisse come uno strumento necessario affinché “l’opera della Curia fosse velocizzata, i ritardi accorciati, il contenzioso ridotto” (14) mentre, allo stesso tempo, “riteneva che fosse un potere da utilizzare con grande cautela, come un potere, secondo la frase Paolina, ‘allo scopo di edificazione e non per la distruzione’, un potere discrezionale per mantenere la costituzione della Chiesa, non per minarla” (15).

È chiaro che la pienezza del potere è stata data da Cristo stesso e non da qualche autorità umana o costituzione popolare, e che, perciò, può essere esercitata solo in obbedienza a Cristo. Scrive ancora il Professor Watt:

“Era assiomatico che qualsiasi potere che era stato dato da Cristo alla Sua Chiesa fosse allo scopo di realizzare il fine della società che Egli aveva fondato, non per contrastarla. Pertanto il potere prerogativa poteva essere esercitato solo entro questi termini. Quindi “l’assolutismo” (solutus a legibus) non costituiva la licenza per un governo arbitrario. Se era vero che la volontà del principe faceva la legge, nel senso che non c’era un’altra autorità che potesse farla; era anche vero, come corollario, che quando questa volontà minava le fondamenta della società per il cui bene la volontà esisteva, non era legge. La Chiesa era una società per la salvezza delle anime. L’eresia ed il peccato impedivano la salvezza. Qualsiasi atto del papa, ‘in quantum homo’, che fosse eretico o peccaminoso di per sé o che potesse favorire l’eresia o il peccato, minò le fondamenta della società e fu perciò nullo” (16).

In altre parole, la nozione della pienezza del potere fu, sin dall’inizio, molto ben definita.

Si comprese che essa non permetteva di fare determinate cose al Romano Pontefice. Per esempio, egli non poteva agire contro la Fede Apostolica. Inoltre, per il bene del buon ordine della Chiesa, fu un potere da utilizzare con parsimonia e con la più grande prudenza. Il Professor Watt osserva:

“Non era conveniente allontanarsi troppo dal diritto comune [ius commune] o farlo senza causa [sine causa]. Il Papa avrebbe potuto farlo, ma non avrebbe dovuto, perché l’esercizio della ‘plenitudo potestatis’ serve per promuovere l’’utilitas ecclesiae’ et la ‘salus animarum’ e non l’interesse personale degli individui. L’accantonamento dello ‘ius commune’ deve quindi sempre essere un atto eccezionale richiesto da gravi motivi. Se il Papa agisse in tal modo ‘sine causa’ o arbitrariamente, metterebbe in pericolo la sua salvezza” (17).

Visto che la nozione della pienezza del potere contiene le suindicate limitazioni, come si giudicano e correggono le violazioni delle limitazioni?

Che cosa si dovrebbe fare, se il Romano Pontefice agisse in tale modo? L’Ostiense è chiaro nell’asserire che il Papa non è soggetto al giudizio umano: “Egli deve essere avvertito sull’errore delle sue azioni e perfino pubblicamente ammonito, ma non potrebbe essere chiamato in causa, se persistesse nella sua linea di condotta” (18). Secondo il celebre canonista, il Collegio dei Cardinali, anche se non condivide la pienezza del potere, “dovrebbe agire come un controllo de facto contro l’errore papale” (19).

L’Ostiense ha riconosciuto il bisogno dell’esercizio della pienezza del potere in certi momenti al fine di “correggere le imperfezioni dell’ordine stabilito o ostacolare coloro che lo manipolavano per interessi privati” (20), ma egli ha altresì “pensato come regola generale che il Papa dovrebbe raramente discostarsi dal diritto comune e ha anche pensato che egli dovrebbe ottenere il consiglio fraterno dei suoi consiglieri designati prima di farlo (21). A parte il pubblico ammonimento e la preghiera per l’intervento divino, il nostro autore non offre un rimedio cogente per l’abuso nell’esercizio della “plenitudo potestatis”. Se, secondo la coscienza ben formata, un fedele ritenga che un particolare atto di esercizio della pienezza del potere sia peccaminoso e, di conseguenza, non riesca ad essere in pace nella sua coscienza sulla questione, “il Papa deve essere, per dovere, disobbedito, e le conseguenze della disobbedienza, sofferte con pazienza cristiana” (22).

Il tempo non mi permette di esaminare più ampiamente la questione della correzione del Papa che abusasse della pienezza del potere annesso alla primazia della Sede di Pietro. Come molti sapranno, esiste una letteratura abbondante sul tema. Certamente il trattato “De Romano Pontifice” di san Roberto Bellarmino ed altri studi classici vanno esaminati. Per il momento, basta affermare che, come dimostra la storia, è possibile che il Romano Pontefice, esercitando la pienezza del potere, possa cadere nell’eresia o nell’abbandono del suo primo dovere di salvaguardare e promuovere l’unità della fede, del culto e della disciplina. Siccome egli non può essere assoggetto ad un processo giudiziale, secondo il primo canone sul foro competente del Codice di Diritto Canonico: “La prima Sede non è giudicata da nessuno” (“Prima Sedes a nemine iudicatur”) (23), come si dovrebbe affrontare la questione?

Una breve e preliminare risposta, basata sul diritto naturale, sui Vangeli e sulla tradizione canonica, indicherebbe di procedere in due fasi: nella prima, la correzione del presunto errore o abbandono del suo dovere andrebbe rivolta direttamente al Romano Pontefice; e, poi, se egli continuasse ad errare o non rispondesse, si dovrebbe procedere ad una pubblica dichiarazione. Secondo il diritto naturale, la retta ragione richiede che gli individui siano governati secondo la regola del diritto (regula iuris) e, in caso contrario, prevede che essi possano ricorrere contro quelle azioni che violano lo stato di diritto. Cristo stesso insegna la via della correzione fraterna, che si applica a tutti i membri del Suo Corpo Mistico (24). Vediamo il Suo insegnamento incarnato nella correzione fraterna operata da san Paolo nei confronti di san Pietro, quando quest’ultimo non voleva riconoscere la libertà dei cristiani da certe regole rituali della fede giudaica (25). Finalmente, la tradizione canonica è riassunta nella norma del can. 212 del Codice di Diritto Canonico del 1983. Mentre la prima parte del canone in questione enuncia il dovere di osservare “con cristiana obbedienza ciò che i sacri Pastori, in quanto rappresentano Cristo, dichiarano come maestri della fede o dispongono come capi della Chiesa” (26), la terza parte dichiara il diritto e il dovere dei fedeli “di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa e di renderlo noto agli altri fedeli, salvo restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità delle persone” (27).

Per concludere questo breve esame dello sviluppo della nozione della pienezza del potere dal tempo di Papa San Leone Magno, si deve osservare che il contributo dei canonisti medievali costituisce un approfondimento della comprensione della fede della Chiesa circa il Primato petrino. Tale approfondimento, in nessuna maniera, pretendeva di offrire novità dottrinali. Il Professor Watt riassume la materia con queste parole:

“Che il concetto di sovranità ecclesiastica espressa da questo particolare termine fosse stato formulato prima che Ostiense scrivesse, è chiaro dalle decretali di Innocenzo III e dal suo primo commento. L’esame del retroterra decretista al lavoro decretalista iniziale, chiarisce che nessuna novità di essenza dottrinale era qui coinvolta. Le decretali registrano una cristallizzazione della terminologia; segno sicuro della maturità della comprensione canonica della nozione in questione. La ‘Professio fidei’ nota al Secondo Concilio di Lione non fu che un’accettazione più solenne di una posizione tenuta generalmente molto prima, non in ultimo tra i canonisti, espressa ora con l’aiuto di un termine che i canonisti avevano tecnicizzato. Nella forma adottata a Lione, ‘plenitudo potestatis’ rappresentava due cose, entrambe esattamente corrispondenti alla sua storia canonica: il principio del primato giurisdizionale in quanto tale, in tutti i suoi aspetti giudiziari, legislativi, amministrativi e magistrali, e più strettamente, il principio che i prelati derivavano la loro giurisdizione dal Papa.

“C’era, tuttavia, un terzo livello di interpretazione del termine: la pienezza del potere nella sua forma giuridica più pura. Questo era il livello nel quale i canonisti erano più profondamente impegnati, in quanto riguardava le applicazioni pratiche dell’autorità suprema e considerava il suo rapporto con la legge già in essere e con un ‘ordo iuris’ già stabilito. In breve, un problema di teoria giuridica sviluppata, il concetto del potere del sovrano sulla legge e l’ordine giuridico.

“Il progresso si raggiunse con alcune semplici distinzioni sulla natura di questo potere. Si diceva che la giurisdizione del Papa fosse esercitata in due modi. C’era un esercizio che aveva un posto riconosciuto e regolare, stabilito dalla legge esistente e tradotto in pratica dalle procedure esistenti: il suo potere ordinario. Vi era inoltre il suo potere straordinario, che lo ereditava personalmente e solo, mediante il quale – manifestazione per eccellenza dell’autorità sovrana – la legge esistente e le procedure stabilite potevano essere sospese, abrogate, chiarite, integrate. Questo era il potere prerogativa del Papa supra ius; la pienezza del potere vista nella sua forma giuridica più caratteristica, come il diritto di regolare un apparato legale stabilito. ‘Solutus a legibus’, il sovrano assoluto potrebbe ridefinire qualsiasi meccanismo di legge. Facendo così, la pienezza del potere fu dispiegata nella sua forma più pratica.

“Una volta che la ‘plenitudo officii’ (pienezza dell’ufficio) era stata distinta dalla ‘plenitudo potestatis’ (pienezza del potere) e la ‘potestas’ ordinaria (potere ordinario) dalla ‘potestas absoluta’ (potere assoluto) (e con queste distinzioni Ostiense sembra aver dato il suo contributo individuale all’insieme comune delle idee canoniche sul potere papale), appare logico che le circostanze nelle quali questo potere sia stato usato ‘extra ordinum cursum’ (fuori dal corso ordinario) dovrebbero essere esaminate” (28).

Infatti, la sempre più profonda comprensione della pienezza del potere del Romano Pontefice durante il periodo medievale, ha condotto allo studio costante del primato di Pietro e del suo potere annesso. Quindi, una qualsiasi discussione sulla materia sarebbe incompleta senza la presa in considerazione del lavoro essenziale svolto dai canonisti durante il Medioevo.

La pienezza del potere nel Magistero

Il termine, pienezza del potere, fu utilizzato nella definizione del primato papale dal Primo Concilio Ecumenico Vaticano nel 1870. Il quarto capitolo della Costituzione Dommatica “Pastor aeternus”, sulla Chiesa di Cristo, promulgata il 18 luglio 1870, dichiara:

“Con l’approvazione del Secondo Concilio di Lione, i Greci hanno professato: «La Santa Chiesa Romana ha il sommo e pieno primato e principato su tutta la Chiesa Cattolica, che essa riconosce, con verità e umiltà, di avere ricevuto, con la pienezza del potere, dallo stesso Signore nella persona del beato Pietro, principe e capo degli apostoli, di cui il Romano Pontefice è il successore. E come ha il dovere di difendere soprattutto la verità della fede, così le dispute che sorgessero a proposito della fede devono essere risolte da suo giudizio” (29).

La definizione dommatica esprime chiaramente che la pienezza del potere del Romano Pontefice è necessaria affinché la Fede Apostolica sia salvaguardata e promossa nella Chiesa universale.

Inoltre, nello stesso capitolo della “Pastor aeternus”, i Padri Conciliari dichiarano:

“Infatti ai successori di Pietro lo Spirito Santo non è stato promesso perché manifestassero, per sua rivelazione, una nuova dottrina, ma perché con la sua assistenza custodissero santamente ed esponessero fedelmente la rivelazione trasmessa agli apostoli, cioè il deposito della fede. La loro dottrina apostolica è state accolta da tutti i venerati Padri, rispettata e seguita dai santi Dottori ortodossi che sapevano perfettamente che questa sede di Pietro rimane sempre immune da ogni errore, secondo la promessa divina del nostro Signore e Salvatore al principe dei suoi discepoli: ‘Io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli’ [Lc 22:32].

“Perciò questo carisma di verità e di fede, giammai defettibile, è stato accordato da Dio a Pietro e ai suoi successori su questa cattedra, perché esercitassero questo loro altissimo ufficio per la salvezza di tutti, perché l’universale gregge di Cristo, allontanato per opera loro dall’esca avvelenata dell’errore, fosse nutrito col cibo della dottrina celeste, e, eliminata ogni occasione di scisma, tutta la Chiesa fosse conservata nell’unità e, stabilita sul suo fondamento, si ergesse incrollabile contro le porte dell’inferno” (30).

Seguendo l’insegnamento costante della Chiesa lungo i secoli, i Padri Conciliari insegnarono che il Primato petrino, e la conseguente pienezza del potere del Romano Pontefice, istituti da Cristo nella Sua costituzione della Chiesa quale Suo Corpo Mistico, sono diretti esclusivamente alla salvezza delle anime tramite la salvaguardia e la promozione della dottrina sana, trasmessa mediante quella linea ininterrotta che è la Tradizione Apostolica.

Il n. 22 della Costituzione Dommatica “Lumen Gentium” del Secondo Concilio Ecumenico Vaticano, utilizzò, allo stesso modo, il termine pienezza del potere. Descrivendo il rapporto tra il Collegio dei Vescovi ed il Romano Pontefice, i Padri Conciliari dichiararono:

“Il collegio o corpo episcopale non ha però autorità, se non lo si concepisce unito al Pontefice Romano, successore di Pietro, quale suo capo, e senza pregiudizio per la sua potestà di primato su tutti, sia pastori che fedeli. Infatti il Romano Pontefice, in forza del suo Ufficio, cioè di Vicario di Cristo e Pastore di tutta la Chiesa, ha su questa una potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente. D’altra parte, l’ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale si perpetua il corpo apostolico, è anch’esso insieme col suo capo il Romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa sebbene tale potestà non possa essere esercitata se non col consenso del Romano Pontefice. Il Signore ha posto solo Simone come pietra e clavigero della Chiesa (cfr. Mt 16,18-19), e lo ha costituito pastore di tutto il suo gregge (cfr. Gv 21,15 ss); ma l’ufficio di legare e di sciogliere, che è stato dato a Pietro (cfr. Mt 16,19), è noto essere stato pure concesso al collegio degli apostoli, congiunto col suo capo (cfr. Mt 18,18; 28,16-20)” (31).

L’ufficio distinto del Romano Pontefice in rapporto al Collegio dei Vescovi ed alla Chiesa universale è descritto nel numero seguente della Lumen Gentiumcon queste parole: “Quale successore di Pietro, il Romano Pontefice è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli” (32).

In una parte precedente della stessa Costituzione Dommatica, i Padri Conciliari avevano spiegato che:

“Sulle orme del Concilio Vaticano I e in accordo con esso, questo Sacrosanto Sinodo insegna e dichiara che Gesù Cristo pastore eterno ha edificato la santa Chiesa, inviando gli apostoli così come egli stesso era stato mandato dal Padre [cfr. Gv 20,21], e ha voluto che i loro successori i vescovi siano i pastori della Chiesa, pastori fino alla fine dei tempi. Affinché poi l’episcopato resti uno e indiviso, prepose agli altri apostoli il beato Pietro, e in lui ha istituto il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità della fede e della comunione” (33).

Dopo il simposio intitolato “Il Primato del Successore di Pietro”, organizzato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e svolto dal 2 al 4 dicembre del 1996, la Congregazione pubblicò alcune considerazioni riguardanti il concetto dell’Ufficio Petrino ed il potere ad esso conferito.

Per quanto concerne il rapporto tra l’Ufficio Petrino e l’ufficio del Vescovo, il documento afferma:

“Tutti i Vescovi sono soggetti della ‘sollicitudo omnium Ecclesiarum’ in quanto membri del Collegio episcopale che succede al Collegio degli Apostoli, di cui ha fatto parte anche la straordinaria figura di San Paolo. Questa dimensione universale della loro ‘episkopè’ (sorveglianza) è inseparabile dalla dimensione particolare relativa agli uffici loro affidati. Nel caso del Vescovo di Roma – Vicario di Cristo al modo proprio di Pietro come Capo del Collegio dei Vescovi –, la ‘sollicitudo omnium Ecclesiarum’ acquista una forza particolare perché è accompagnata dalla piena e suprema potestà nella Chiesa: una potestà veramente episcopale, non solo suprema, piena e universale, ma anche immediata, su tutti, sia pastori che altri fedeli. Il ministero del Successore di Pietro, perciò, non è un servizio che raggiunge ogni Chiesa particolare dall’esterno, ma è iscritto nel cuore di ogni Chiesa particolare, nella quale «è veramente presente e agisce la Chiesa di Cristo», e per questo porta in sé l’apertura al ministero dell’unità. Questa interiorità del ministero del Vescovo di Roma a ogni Chiesa particolare è anche espressione della mutua interiorità tra Chiesa universale e Chiesa particolare” (34).

L’Ufficio Petrino, perciò, sia per quanto concerne la propria essenza, sia per quanto concerne il suo esercizio, è sostanzialmente diverso da un ufficio di un governo secolare.

Il documento della Congregazione continua spiegando come il Romano Pontefice svolga il suo ufficio come servizio, cioè, in obbedienza a Cristo:

“Il Romano Pontefice è – come tutti i fedeli — sottomesso alla Parola di Dio, alla fede cattolica ed è garante dell’obbedienza della Chiesa e, in questo senso, servus servorum. Egli non decide secondo il proprio arbitrio, ma dà voce alla volontà del Signore, che parla all’uomo nella Scrittura vissuta ed interpretata dalla Tradizione; in altri termini, la episkopè del Primato ha i limiti che procedono dalla legge divina e dall’inviolabile costituzione divina della Chiesa contenuta nella Rivelazione. Il Successore di Pietro è la roccia che, contro l’arbitrarietà e il conformismo, garantisce una rigorosa fedeltà alla Parola di Dio: ne segue anche il carattere martirologico del suo Primato” (35).

La pienezza del potere del Romano Pontefice non può essere giustamente intesa ed esercitata se non come obbedienza alla grazia di Cristo Capo e Pastore del gregge di ogni tempo e in ogni luogo.

La legislazione canonica

La pienezza del potere del Romano Pontefice era così formulata nel can. 218 del Codice di Diritto Canonico del 1917:

“Il Romano Pontefice, che è il successore di San Pietro nel primato, possiede non soltanto un primato di onore, ma supremo e pieno potere di giurisdizione nella Chiesa intera nelle materie che appartengono alla fede ed ai costumi così come in quelle che appartengono alla disciplina e al governo della Chiesa in tutto il mondo. Questo potere è veramente episcopale, ordinario ed immediato su tutte e ciascuna delle chiese e su tutti e ciascuno dei pastori e dei fedeli, ed è indipendente da ogni autorità umana” (36).

Quello che preliminarmente è importante notare è che la pienezza del potere è un requisito del primato del Romano Pontefice, che non è meramente onorario ma sostanziale; in altre parole, è un requisito per l’adempimento della responsabilità suprema, ordinaria, piena e universale di salvaguardare la regola della fede (regula fidei) e la regola della legge (regula iuris).

Il can. 331 del Codice di Diritto Canonico del 1983 contiene sostanzialmente la stessa legislazione:

“Il Vescovo della Chiesa di Roma, in cui permane l’ufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro, primo degli Apostoli, e che deve essere trasmesso ai suoi successori, è capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale; in forza del suo Ufficio egli gode, pertanto, nella Chiesa di una potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente” (37).

Il potere del Romano Pontefice è definito dagli aggettivi che lo qualificano.

È ordinario perché è stabilmente connesso all’ufficio primaziale in forza della volontà di Cristo stesso. Fa parte dello ‘ius divinum’. È una disposizione divina (38). È supremo, cioè si tratta dell’autorità più alta nella gerarchia, che non è sottomessa a nessun potere umano, mentre rimane sempre subordinata a Cristo vivo nella Chiesa mediante la Tradizione salvaguardata e trasmessa tramite la regola della fede e la regola del diritto. È pieno perché viene fornito con tutte le facoltà contenute nel sacro potere di insegnare, di santificare e di governare. In tal modo è connesso con l’esercizio del magistero infallibile e con il magistero autentico non-infallibile (cann. 749 § 1, and 752), con il potere legislativo e giudiziale, e con la moderazione della vita liturgica e del culto divino della Chiesa universale. È immediato, ovvero si può esercitare sui fedeli e i loro pastori ovunque e senza condizione, ed è universale, cioè si estende all’intera comunità ecclesiale, a tutti i fedeli, alle Chiesa particolari e alle loro congregazioni, ed a tutte le materie che sono soggette alla giurisdizione e responsabilità della Chiesa.

Quello che è evidente nella legislazione canonica è che “il Papa non esercita il potere connesso al suo Ufficio quando egli agisce come una persona privata o semplice membro dei fedeli” (39). Inoltre, dato il supremo carattere della pienezza del potere affidato al Romano Pontefice, egli non ha un potere assoluto nel senso politico contemporaneo e, perciò, è tenuto ad ascoltare Cristo e il Suo Corpo Mistico, che è la Chiesa. Secondo le considerazioni offerte dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1998:

“Ascoltare la voce delle Chiese è, infatti, un contrassegno del ministero dell’unità, una conseguenza anche dell’unità del Corpo episcopale e del ‘sensus fidei’ dell’intero Popolo di Dio; e questo vincolo appare sostanzialmente dotato di maggior forza e sicurezza delle istanze giuridiche – ipotesi peraltro improponibile, perché priva di fondamento – alle quali il Romano Pontefice dovrebbe rispondere. L’ultima ed inderogabile responsabilità del Papa trova la migliore garanzia, da una parte, nel suo inserimento nella Tradizione e nella comunione fraterna e, dall’altra, nella fiducia nell’assistenza dello Spirito Santo che governa la Chiesa” (40).

Così un canonista commenta circa la pienezza del potere del Papa:

“Senza dubbio, il fine e la missione della Chiesa indicano limiti ben articolati, che però non sono di facile formulazione giuridica. Ma, se volessimo delle formulazioni giuridiche, potremmo affermare che questi limiti sono quelli che la legge divina, naturale e positiva, stabilisce. Soprattutto, il Papa deve esercitare il suo potere in comunione con tutta la Chiesa (can. 333, § 2). Perciò, questi limiti stanno in rapporto con la comunione nella Fede, nei Sacramenti e nel governo ecclesiastico (can. 205). Il Papa deve rispettare il deposito della fede – egli ha l’autorità di esprimere il Credo in un modo più adeguato ma non può agire in contrasto con la fede – , egli deve rispettare tutti e ciascuno i Sacramenti – non può sopprimere né aggiungere qualsiasi cosa che vada contro la sostanza dei Sacramenti – e, infine, egli deve rispettare la regola ecclesiale dell’istituzione divina (non può prescindere dall’episcopato e deve condividere con il Collego dei Vescovi l’esercizio del pieno e supremo potere)” (41).

Conclusione

Spero che queste riflessioni, aventi un carattere iniziale e quindi bisognose di maggiore approfondimento, possano aiutarvi a comprendere la necessità ed allo stesso tempo la grande prudenza che occorre nell’esercizio della pienezza del potere del Romano Pontefice in ordine alla salvaguardia ed alla promozione del bene della Chiesa universale. Secondo le Sacre Scritture e la Sacra Tradizione, il Successore di San Pietro gode di un potere che è universale, ordinario ed immediato su tutti i fedeli. Egli è il giudice supremo dei fedeli, il quale non ha su di sé autorità umana più alta, neanche quella di un concilio ecumenico. Al Papa appartiene il potere e l’autorità di definire dottrine e di condannare errori, di promulgare ed abrogare leggi, di agire quale giudice in tutte le materie della fede e dei retti costumi, di decretare e infliggere pene, di nominare e di rimuovere, se vi è necessità, i pastori. Poiché tale potere viene da Dio stesso, esso è limitato dal diritto naturale e dal diritto divino, che sono le espressioni della verità e della bontà eterna ed immutabile che vengono da Dio, sono pienamente rivelati in Cristo e sono stati trasmessi nella Chiesa ininterrottamente. Perciò, qualsiasi espressione della dottrina o della prassi che non sia in conformità con la Divina Rivelazione, contenuta nelle Sacre Scritture e nella Tradizione della Chiesa, non può configurare un esercizio autentico del ministero Apostolico o Petrino e deve essere rifiutata dai fedeli. Come ha dichiarato san Paolo:

“Mi meraviglio che, così in fretta, da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo voi passiate a un altro vangelo. Però non ce n’è un altro, se non che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo. Ma se anche noi stessi, oppure un angelo dal cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anàtema!” (42).

Come cattolici devoti, dobbiamo sempre insegnare e difendere la pienezza del potere che Cristo ha voluto conferire al Suo Vicario sulla terra. Allo stesso tempo, però, dobbiamo insegnare e difendere quel potere entro l’insegnamento sulla Chiesa e la difesa della Chiesa quale Corpo Mistico di Cristo, un corpo organico di origine divina e di vita divina. Concludo con le parole del “Decreto” di Graziano:

“Nessun mortale dovrebbe avere l’audacia di rimproverare un Papa in ragione dei suoi difetti, perché colui che ha il dovere di giudicare tutti gli uomini non può essere giudicato da nessuno, a meno che non debba essere richiamato all’ordine per aver deviato dalla fede; per il cui stato perpetuo tutti i fedeli tanto insistentemente pregano quanto loro avvertono che la sua salvezza più grandemente dipende dalla sua incolumità (43).
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(1) Cf. 2 Tm 4, 7.
(2) Mt 19, 9.
(3) “Saluto del Santo Padre Francesco ai Padri Sinodali, 6 ottobre 2014”, La famiglia è il futuro. Tutti i documenti del Sinodo straordinario 2014, ed. Antonio Spadaro (Milano: Àncora Editrice, 2014), p. 118.
(4) Ibid.
(5) Cf. J. A. Watt, “The Use of the Term ‘Plenitudo Potestatis” by Hostiensis,” in Stephen Ryan Joseph Kuttner, ed., Proceedings of the Second International Congress of Medieval Canon Law, Boston College,12-16 August 1963 (Città del Vaticano: S. Congregatio de Seminariis et Studiorum Universitatibus, 1965), pp. 161-187. [Watt].
(6) “Vices nostras ita tuae credidimus charitati, ut in partem sis vocatus sollicitudinis, non in plenitudinem potestatis.” [Ep. 14, PL 54.671], citato in Watt, p. 161.
(7) “… papal primacy as expressed in the supreme appellate jurisdiction and the reservation of all major issues”. Watt, p. 164.
(8) “… by the time of Huguccio it had reached a high level of development”. Watt, p. 164.
(9) Cf. Watt, p. 165.
(10) “… the qualification that the pope must avoid decreeing anything that was sinful or might lead to sin or subversion of the Faith”. Watt, p. 166.
(11) Cf. Watt, pp. 175-187.
(12) “… ordinary power, ‘potestas ordinaria’ or ‘ordinata’ when by virtue of his plenitudo officii, he acted according to the law already established, … his absolute power, ‘potestas absoluta’ when by virtue of his plenitudo potestatis, he passed over or transcended existing law”. Watt, p. 167.
(13) “Dispensation was a use of the absolute power to set aside existing law; suppletio was an act of absolute power to remedy defects that had arisen either through the non-observance of existing law or because existing law was inadequate to meet the particular circumstances. In both cases the absolute power, the plenitudo potestatis, stands revealed as a discretionary power over the established legal order, a prerogative power to act for the common welfare outside that order, if, in the pope’s judgment, circumstances made this necessary”. Watt, pp. 167-168.
(14) “… curia business could be expedited, delays shortened, litigation curtailed.” Watt, p. 168.
(15) … he considered that it was a power to be used with great caution, as a power in the Pauline phrase ‘unto edification and not for destruction,’ a discretionary power to maintain the constitution of the Church, not to undermine it.” Watt, p. 168. Cf. 2 Cor 13, 10.
(16) “It was axiomatic that any power which had been given by Christ to His Church was for the purpose of fulfilling the end of the society which He had founded, not to thwart it. Therefore the prerogative power could only be exercised within these terms. Therefore “absolutism” (solutus a legibus) was not licence for arbitrary government. If it was true that the will of the prince made the law, in the sense that there was no other authority which could make it; it was also true as a corollary that, where this will threatened the foundations of the society whose good the will existed to promote, it was no law. The Church was a society to save souls. Heresy and sin impeded salvation. Any act of the pope in quantum homo which was heretical or sinful in itself or might foster heresy or sin threatened the foundations of society and was therefore void”. Watt, p. 173.
(17) “It was unfitting to depart from the ius commune too frequently or to do so sine causa. The pope could do so, but he should not, for the exercise of the plenitudo potestatis was to further the utilitas ecclesie et salus animarum and not the self-interest of individuals. The setting aside of the ius commune must therefore always be an exceptional act impelled by grave reasons. If the pope did so act sine causa or arbitrarily, he put his salvation in danger”. Watt, p. 168.
(18) He should be warned of the error of his ways and even publicly admonished, but he could not be put on trial if he persisted in his line of conduct”. Watt, p. 169.
(19) “… should act as a de facto check against papal error”. Watt, p. 169.
(20) “… rectify the imperfections of the established order or thwart those who were manipulating it for private ends”. Watt, p. 174.
(21) “… thought as a general rule the pope should be slow to depart from the common law and he also thought that he should take the fraternal advice of his appointed advisers before doing so”. Watt, p. 174.
(22) “… the pope must, as a duty, be disobeyed, and the consequences of disobedience be suffered in Christian patience”. Watt, p. 173.
(23) Cf. can. 1404.
(24) Cf. Mt 18, 15-17.
(25) Cf. Gal 2, 11-21.
(26) “Quae sacri Pastores, utpote Christum repraesentantes, tamquam fidei magistri declarant aut tamquam Ecclesiae rectores statuunt.” Can. 212, § 1. English translation:
(27) “… sententiam suam de his quae ad bonum Ecclesiae pertinent sacris Pastoribus manifestent eamque, salva fidei morumque integritate ac reverentia erga Pastores, attentisque communi utilitate et personarum dignitate, ceteris christifidelibus notam faciant.” Can. 212, § 3.
(28) “That the concept of ecclesiastical sovereignty expressed by this particular term had been formulated before Hostiensis wrote, is clear from Innocent III’s decretals and the early commentary thereon. Examination of the decretist background to early decretalist work makes it clear that no novelty of doctrinal essence was here involved. The decretals register a crystallization of terminology; sure mark of the maturity of the canonist understanding of the notion in question. The Professio fidei known to the Second Council of Lyons was but a more solemn acceptance of a position held generally much earlier, not least among canonists, expressed now with the help of a term which the canonists had made a technical one. In the form adopted at Lyons, plenitudo potestatis represented two things, both of which corresponded exactly to its canonistic history: the principle of jurisdictional primacy as such, in all its judicial, legislative, administrative and magisterial aspects, and more narrowly, the principal that prelates derived their jurisdiction from the pope.
There was, however, a third level of interpretation of the term: the plenitude of power in its purest juristic form. This was the level at which the canonists were most deeply engaged, in that it concerned the practical applications of supreme authority and considered its relationship to law already in being and an ordo iuris already established. In short, a problem of developed legal theory, the concept of the power of the sovereign over law and the juridical order.
Progress was made with some simple distinctions about the nature of this power. The pope’s jurisdiction was said to be exercised in a two-fold way. There was an exercise which had a recognized and regular place, established by existing law and translated into practice by existing procedures: his ordinary power. There was further his extraordinary power, inhering him personally and alone, by which – manifestation par excellence of sovereign authority – existing law and established procedures might be suspended, abrogated, clarified, supplemented. This was the prerogative power of the pope supra ius; the plenitude of power seen in its most characteristic juristic form as the right to regulate established legal machinery. Solutus a legibus, the absolute ruler might redispose any of the mechanisms of law. In the doing thereof, the plenitude of power was deployed in its most practical form.
Once the plenitudo officii had been distinguished from the plenitudo potestatis and the potestas ordinaria from the potestas absoluta (and with these distinctions Hostiensis seems to have made his most individual contribution to the common stock of canonist ideas on papal power), it followed logically that the circumstances in which this power was used extra ordinarium cursum should be examined”. Watt, pp. 172-173.
(29) “Approbante vero Lugdunensi Concilio secondo Graeci professi sunt: ‘Sanctam Romanam Ecclesiam summum et plenum primatum et principatum super universam Ecclesiam catholicam obtinere, quem se ab ipso Domino in beato Petro Apostolorum principe sive vertice, cuius Romanus Pontifex est successor, cum potestatis plenitudine recepisse veraciter et humiliter recognoscit; et sicut prae ceteris tenetur fidei veritatem defendere, sic et, si quae de fide subortae fuerint quaestiones, suo debent iudicio definiri’.” Heinrich Denzinger, Enchiridion Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, 43ª edizione bilingue, ed. Peter Hünermann, versione italiana ed. Angelo Lanzoni e Giovanni Battista Zaccherini (Bologna: Edizioni Dehoniane, 1995), pp. 1068-1069, n. 3067. [Denzinger].
(30) Denzinger, pp. 1070-1071, nn. 3070-3071.
(31) “Collegium autem seu corpus Episcoporum auctoritatem non habet, nisi simul cum Pontifice Romano, successore Petri, ut capite eius intellegatur, huiusque integer manente potestate Primatus in omnes sive Pastores sive fideles. Romanus enim Pontifex habet in Ecclesiam, vi muneris sui, Vicarii scilicet Christi et totius Ecclesiae Pastoris, plenam, supremam et universalem potestatem, quam semper libere exercere valet. Ordo autem Episcoporm, qui collegio Apostolorum in magisterio et regimine pastorali succedit, immo in quo corpus apostolicum continuo perseverat, una cum Capite suo Romano Pontifice, et numquam sine hoc Capite subiectum quoque supremae ac plenae potestatis in universam Ecclesiam exsistit, quae quidem potestas nonnisi consentiente Roman Pontifice exerceri potest. Dominus unum Simonem ut petram et clavigerum Ecclesiae posuit [cf. Mt 16:18-19], eumque Pastorem totius sui gregis constituit [cf. Io 21: 15-19]; illud autem ligandi ac solvendi munus, quod Petro datum est [Mt 16:19], collegio quoque Apostolorum, suo Capiti coniuncto, tributum esse constat [Mt 18:18; 28:16-20].” Denzinger, pp. 1522-1523, n. 4146.
(32) Romanus Pontifex, ut successor Petri, est unitatis, tum Episcoporum tum fidelium multitudinis, perpetuum ac visibile principium et fundamentum.” Denzinger, pp. 1524-1525, n. 4147.
(33) Denzinger, pp. 1516-1517, n. 4142.
(34) “89. Il Primato del Successore di Pietro nel Mistero della Chiesa”, Congregazione per la Dottrina della Fede, Documenti (1966-2013) (Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 2017), pp. 480-481, n. 6. [CDF].
(35) DF, p. 481, n. 7.
(36) “Can. 218. – § 1. Romanus Pontifex, Beati Petri in primate Successor, habet non solum primatum honoris, sed supremam et plenam potestatem iurisdictionis in universam Ecclesiam tum in rebus quae ad fidem et mores, tum in iis quae ad disciplinam et regimen Ecclesiae per totum orbem diffusae pertinent.
§ 2. Haec potestas est vere episcopalis, ordinaria et immediate tum in omnes et singulas ecclesias, tum in omnes et singulos pastores et fidelis a quavis humana auctoritate independens.” Versione italiana dall’autore.
(37) “Can. 331 Ecclesiae Romanae Episcopus, in quo permanet munus a Domino singulariter Petro, primo Apostolorum, concessum et successoribus eius transmittendum, Collegii Episcoporum est caput, Vicarius Christi atque universae Ecclesiae his in terris Pastor; qui ideo vi muneris sui suprema, plena, immediata et universali in Ecclesia gaudet ordinaria potestate, quam semper libere exercere valet.” English translation: Canon Law Society of America, Code of Canon Law: Latin-English Translation, New English Translation, Washington, D.C.: Canon Law Society of America, 1998. [Hereafter, CLSA].
(38) Cf. cann. 131 § 1, and 145 § ; and Nota Explicativa Praevia of Lumen Gentium.
(39) “… el Papa no ejercita esta oitestad aneja a su oficio cunado actúa come persona privada o como simple fiel”. Eduardo Molano, “Potestad del Romano Pontifice,” Diccionario General de Derecho Conónico, Vol. VI (Cizur Menor [Navarra]: Editorial Aranzadi, SA, 2012), p. 304. Traduzione italiana dall’autore. [Molano].
(40) CDF, p. 483, n. 10.
(41) Milano, p. 306.
(42) Gal 1, 6-8.
(43) “Huius culpas istic redarguere presumit mortalium nullus, quia cunctos ipse iudicaturis a nemine est iudicandus, nisi deprehendatur devius; pro cuius perpetuo statu uniuersitas fidelium tanto instantius orat, quanto suam salutem post Deum ex illius incolumitate animaduertunt propensius pendere”. Decretum Magistri Gratiani. Concordia Discordantium Canonum, 1a, dist. 40, c. 6, Si papa; Item ex gestis Bonifacii Martyris.