Proseguendo il suo ciclo di catechesi sulla preghiera, Benedetto XVI è passato ieri, mercoledì 26 settembre, dalla preghiera nella Scrittura alla preghiera nella liturgia.
Nella liturgia è Dio che “ci offre le parole”, ha detto il papa. “Noi dobbiamo entrare all’interno delle parole [liturgiche], nel loro significato, accoglierle in noi, metterci noi in sintonia con queste parole; così diventiamo figli di Dio, simili a Dio”.
Se dalla dottrina, però, si passa alla pratica, le cose cambiano. Si sa che vari preti hanno un concetto “creativo” della liturgia, nel quale gli attori e gli inventori sono loro. In una parrocchia della Toscana, ad esempio, c’è un prete che fa e parla a modo suo, quando distribuisce la comunione.
Evidentemente perché non crede nella presenza reale di Gesù nel pane e nel vino consacrati. (Sottolineatura nostra n.d.r.)
La cosa è arrivata all’orecchio del professor Pietro De Marco, che da Firenze ci ha trasmesso questo commento acuminato.
* “IN MEMORIA DI CRISTO” di Pietro De Marco
Mi raccontano, non senza preoccupata ironia, che un parroco di una diocesi toscana, noto per varie eccentricità, amministra l’eucaristia o, come dicono i messali, “presenta l’ostia” ai comunicandi, con le parole “In memoria di Cristo”, invece che con la vincolante ed essenziale formula: “Il corpo di Cristo”.
Poiché tale parroco ama dichiararsi un “professionista” ecclesiale, è certo che, da professionista, usa quella formula consapevolmente. Per esibire e trasmettere, senza timore, la sua negazione della presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche.
Ora, sull’evento “reale” della consacrazione non vi è alcuna incertezza nella “lex orandi”, cioè negli enunciati del canone liturgico.
Non per nulla, dopo le parole della consacrazione, il sacerdote “adora subito l’ostia”.
E altrettanto dovrebbero fare i fedeli, invece del disordine dei comportamenti attuali e specialmente dello stare in piedi suggerito da qualche liturgista.
La dottrina della fede è altrettanto ferma e costante. Rileggiamo “pro memoria” il mai abrogato “Decretum de SS. Eucharistia” del Concilio di Trento, fino ai canoni conclusivi (Denzinger-Hünermann, nn. 1651-1656), e il recente e obbligante Catechismo della Chiesa Cattolica, promulgato esattamente venti anni fa, ai nn. 1373 e seguenti.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica va considerato la trascrizione di ciò che è dogmaticamente rilevante nel “corpus” dei documenti del Vaticano II.
La cultura teologica diffusa, invece, su questo punto ha oscillato e oscilla dannosamente, così da essere responsabile di questi effetti, anzitutto nel clero.
L’arrischiato parroco di cui sopra è sicuramente il frutto degli insegnamenti ricevuti in seminario o in qualche facoltà teologica, o dei maestri della letteratura teologica internazionale, letta od orecchiata successivamente.
Leggevamo non ieri, ma anni fa, che la maggior parte del clero olandese delle ultime generazioni non crede nella presenza reale di Gesù nell’eucaristia. In ragione di cosa, se non di un insegnamento dogmatico e liturgico ammiccante e aberrante?
Quale che sia l’estensione delle responsabilità, l’uso della formula “In memoria di Cristo” in luogo di “Il corpo di Cristo” non è solo imprudente o inopportuno.
È molto di più: suppone una convinzione che ad essere massimamente prudenti si direbbe che “ha sapore di eresia”.
Al caso particolare saprà far fronte il vescovo competente, dopo opportuna indagine. Interessa qui sottolineare, ancora una volta, lo scandalo continuato, anche su materie meno gravi, indotto da una spigliata confidenza, accoppiata ad ignoranza o a corruttela teologica, con la dottrina della fede.
Preti come questi hanno deliberatamente distrutto in sé stessi e probabilmente nei collaboratori laici e in parte del loro popolo la verità sacramentaria, colpendo l’essenziale dell’esistenza e del fondamento della Chiesa: la retta fede del popolo cristiano.
E nel valutare questo peccato e “crimen” la Chiesa è sola.
Non ha né il supporto né lo stimolo concorrenziale delle magistrature civili, come negli episodi di pedofilia. L’esercizio ispettivo e correttivo le spetta ed è tenuta ad esercitarlo.
Azione doverosa e coraggiosa perché, appunto, il contesto generatore di questi fatti particolari è esteso.
Non sarebbe difficile cogliere, in una quantità di libri teologici tradotti da editori cattolici, pagine (mai sottoposte a critica da chi dovrebbe) che istigano, di fatto, ad atti di svalutazione, metaforizzazione, vaga spiritualizzazione della transustanziazione, mascherati con parole equivoche.
L’eventualità che quanto nel piccolo caso toscano è esplicitato con sicumera sia in altri preti tenuto nascosto, nicodemiticamente, fa tremare.
Il compito dell’imminente Sinodo dei vescovi, col suo esercito di periti sapientemente dosati, sarebbe a mio avviso non quello di confermare un cinquantennio di moderne esortazioni all’annuncio cristiano, ma di ricostruire energicamente nel clero e nel laicato quella comune dottrina della fede senza cui ogni enunciato che venga dalla Chiesa sarà indistinguibile da quelli del nichilismo ordinatore della postmodernità.
Se i vescovi di tutto il mondo, frenati da prudenze pastorali e di governo e talora da incertezza dottrinale, non avessero la forza di provvedere, toccherebbe ai semplici fedeli – quelli che in virtù di una buona formazione cristiana ancora possono farlo – discernere opinioni e condotte diffuse palesemente erronee, catechismo alla mano, e dire “no”.