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sabato 24 dicembre 2011

Approfondimento del Professor Jean-Michel Gleize, sacerdote della FSSPX

Pubblichiamo la prima parte di uno studio di Don Jean-Michel Gleize, professore al Seminario San Pio X di Ecône e membro della Commissione della Fraternità San Pio X per le discussioni con Roma. Tale disanima, che fa seguito all’articolo di Monsignor Fernando Ocáriz recentemente apparso su "L’Osservatore Romano", vuole essere un approfondimento sul valore magisteriale del Concilio Vaticano II e si inserisce nel vivace e ricco dibattito in corso (C.S.)


UNA QUESTIONE CRUCIALE
L’Osservatore Romano del 2 dicembre 2011 ha pubblicato uno studio di Mons. Fernando Ocáriz, uno dei quattro esperti che hanno rappresentato la Santa Sede negli ultimi colloqui dottrinali con la Fraternità San Pio X (da ottobre 2009 ad aprile 2011). In esso si affronta in tutta chiarezza (§1), ma in una maniera che rimane del tutto insufficiente (§2), la questione centrale del valore magisteriale del Concilio Vaticano II.

1

DEI PRINCIPI INCONTESTABILI

Nella prima parte del suo studio, il prelato spagnolo ricapitola le nozioni fondamentali già ricordate da Pio XII nella Humani generis [1]: il fatto che un atto del magistero della Chiesa non sia garantito dal carisma dell’infallibilità, proprio delle definizioni solenni, non significa che esso possa essere considerato «fallibile», nel senso che trasmetterebbe una «dottrina provvisoria» o anche delle «autorevoli opinioni». In senso lato questo significa che, quando non dà delle definizioni solenni e infallibili, il magistero è sempre assistito da Dio, e questa assistenza è necessaria per assicurare la trasmissione indefettibile del deposito della fede. In questo senso anche il semplice magistero ordinario beneficia di un certo carisma di verità[2]. L’infallibilità del magistero deve dunque estendersi in senso analogo, cioè a gradi diversi[3].
Ne deriva evidentemente che anche l’adesione dovuta alla verità proposta dal magistero si intende in modi diversi. Le definizioni solenni infallibili propongono ordinariamente, come tali, delle verità formalmente rivelate, alle quali è dovuto un assenso di fede teologale. Gli altri insegnamenti non definitori, per la verità proposta richiedono una adesione intellettuale indicata come assenso religioso interno, che comporta, oltre all’assenso nei confronti della verità propriamente detta, una certa parte di obbedienza nei confronti dell’autorità magisteriale. Infine, gli atti magisteriali possono contenere elementi che, non costituendo materia d’insegnamento propriamente detto, in quanto tali non esigono alcuna adesione.

2. UNA PROBLEMATICA INSUFFICIENTE

Questi richiami generali non presenterebbero alcuna difficoltà, se Mons. Ocáriz non li applicasse agli insegnamenti del Vaticano II. Infatti, secondo lui, anche se l’ultimo concilio non ha voluto definire alcun dogma, il carisma della verità e l’autorità magisteriale vi furono certamente presenti, al punto che il negarle all’insieme dell’episcopato riunito cum Petro et sub Petro per dare un insegnamento alla Chiesa universale, significherebbe negare una parte dell’essenza stessa della Chiesa. Di modo che, le affermazioni del Concilio che richiamano delle verità di fede richiedono evidentemente l’adesione di fede teologale, non perché siano state insegnate da questo Concilio, ma perché erano già state insegnate come tali in maniera infallibile dalla Chiesa, sia in virtù di una decisione solenne, sia col magistero ordinario e universale. Lo stesso assenso pieno e definitivo è richiesto per le altre dottrine richiamate dal Concilio e già proposte con un atto definitivo dai precedenti interventi magisteriali. Gli altri insegnamenti dottrinali del Concilio richiedono dai fedeli l’assenso religioso della volontà e dell’intelligenza.
Senza dubbio, ci si potrebbe felicitare nel vedere infine un teologo della Santa Sede introdurre tutte queste sfumature e con questo opporre il diniego più formale, quantunque implicito, a tutte le esposizioni unilaterali che fino ad oggi hanno presentato il Concilio Vaticano II in un’ottica massimalista, come fosse un dogma assolutamente intoccabile, «ancora più importante di quello di Nicea»[4]. Tuttavia, per quanto sia seducente per le sfumature e le distinzioni apportate, una simile analisi veicola alla sua radice un postulato che è lungi dall’essere evidente. In questo modo, lo studio di Mons. Ocáriz evita di rispondere alla domanda cruciale, rimasta ancora pendente tra la Fraternità San Pio X e la Santa Sede. Più esattamente, agli occhi del prelato dell’Opus Dei sembra che la risposta a questa domanda sia del tutto implicita, come se non fosse mai stato necessario affrontare la questione o come se non si fosse mai svolto alcun dibattito.
Esso invece si impone più che mai. Infatti, è lungi dall’essere evidente che il carisma della verità e l’autorità del magistero siano stati sicuramente presenti nell’ultimo concilio e che l’insieme dell’episcopato riunito cum petro et sub Petro abbia beneficiato dei lumi dello Spirito Santo per insegnare alla Chiesa universale. Che lo si voglia o no, non è scontato che l’ultimo concilio possa imporsi agli occhi dei cattolici, in tutto e per tutto come l’esercizio di un vero magistero, tale da richiedere la loro adesione ai diversi gradi indicati. Infatti, noi lo neghiamo, per delle ragioni seriamente fondate. In effetti, se si richiama la definizione tradizionale di magistero (§ 3-5) si è proprio obbligati a constatare che le procedure del Vaticano II non vi si conformano (§ 6-7). Tanto più che questa novità integrale del 21° concilio ecumenico si spiega in profondità in ragione di presupposti assolutamente inediti (§ 8-12).


3. LA RAGION D’ESSERE DEL MAGISTERO


L’unità della Chiesa e l’unità nella fede sono inseparabili, e giustamente il magistero ha il compito di salvaguardarle. A questo fine gli è necessario il carisma della verità, come il mezzo richiesto perché si conservi il bene comune della Chiesa, che è il bene dell’unità nella professione di una stessa fede. È la ragione addotta dalla costituzione Pastor aeternus del Concilio Vaticano I: «Perciò questo carisma di verità e di fede, giammai indefettibile, è stato accordato da Dio a Pietro e ai suoi successori in questa Cattedra, perché […] dopo aver eliminato ciò che porta allo scisma, tutta la Chiesa si mantenesse una»[5]. Allo stesso modo, San Tommaso spiega perché il papa, quando insegna il dogma, dev’essere divinamente assistito, e dev’esserlo precisamente in quanto agisce come capo, per salvaguardare l’unità della Chiesa: « E la ragione di ciò sta nel fatto che la Chiesa deve avere un'unica fede, secondo l'ammonimento di S. Paolo (1 Cor, 1, 10): “Dite tutti la stessa cosa, e non ci siano tra voi degli scismi”. Ma questo non si può osservare se, quando sorge una questione di fede, non viene definita da chi presiede su tutta la Chiesa, in modo che la sua decisione sia accettata dalla Chiesa intera con fermo consenso» [6]. È questa dunque la causa finale dell’attività del magistero, che spiega la sua indefettibilità nella fede. Il magistero è assistito da Dio nella misura in cui deve assicurare l’unità della Chiesa, che è l’unità della professione comune della fede. Questa assistenza non è dunque assoluta, ma limitata: essa accompagna la trasmissione della Rivelazione e non altro. Cristo ha detto ai suoi Apostoli che lo Spirito Santo li avrebbe assistiti per insegnare tutto ciò che Lui stesso aveva insegnato loro, né più, né meno[7].
Dunque, lungi dal costituire la dottrina, l’atto del magistero non fa altro che conservarla e dichiararla[8]: il magistero si definisce come tale in dipendenza oggettiva della rivelazione divina, di cui deve assicurare la trasmissione. Al momento dei dibattiti che precedettero l’adozione della costituzione Lumen gentium, i principali rappresentanti del «Coetus internationalis patrum», fra cui Mons. Lefebvre, proposero un emendamento significativo[9]. Questa modifica del testo dava ad intendere che, se le definizioni del romano pontefice sono irreformabili per se stesse e non perché la Chiesa darebbe loro l’assenso, è perché l’assistenza dello Spirito Santo non permette che esse possano mai contraddire la fede comune della Chiesa o allontanarsi da essa. La ragione di questo emendamento era proprio quella di mostrare (soprattutto al cospetto degli scismatici orientali) che il papa non ha il potere di definire arbitrariamente ogni specie di verità, anche al di fuori del deposito della fede. In occasione del primo concilio del Vaticano, il relatore incaricato di spiegare, a nome della Santa Sede, l’esatto significato del testo della Pastor aeternus, insistette nello stesso senso: dal momento che l’esercizio del magistero ha per ragion d’essere il bene comune dell’unità della fede, l’assistenza è data al papa perché egli possa preservare la fede comune della Chiesa[10]. Come è stato giustamente fatto notare[11], se, per una falsa prospettiva, si perde di vista il giusto rapporto che fa dipendere il magistero dalla Tradizione oggettiva, il Deus revelans rischia di passare in secondo piano a vantaggio della custos et magistra. Il mezzo per evitare questo rischio consiste nel ricordare qual è la definizione essenziale del magistero: una potenza ordinata al suo oggetto.
Poiché l’unità di una potenza deriva da quella del suo oggetto, l’unità del magistero è quella della verità rivelata[12]. L’una richiama l’altra, poiché la dottrina rivelata è il principio e il fondamento degli insegnamenti magisteriali, come l’oggetto specifico di un atto.


(Prima parte)


NOTE

[1] «Infatti è vero che generalmente i Pontefici lasciano liberi i teologi in quelle questioni che, in vario senso, sono soggette a discussioni fra i dotti di miglior fama; però la storia insegna che parecchie questioni, che prima erano oggetto di libera disputa, in seguito non potevano più essere discusse. Né si deve ritenere che gli insegnamenti delle Encicliche non richiedano, per sé, il nostro assenso, col pretesto che i Pontefici non vi esercitano il potere del loro Magistero Supremo. Infatti questi insegnamenti sono del Magistero ordinario, di cui valgono poi le parole: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Luc. X, 16); e per lo più, quanto viene proposto e inculcato nelle Encicliche, è già per altre ragioni patrimonio della dottrina cattolica. Se poi i Sommi Pontefici nei loro atti emanano di proposito una sentenza in materia finora controversa, è evidente per tutti che tale questione, secondo l'intenzione e la volontà degli stessi Pontefici, non può più costituire oggetto di libera discussione fra i teologi». (DS 3884-5).
[2] Su questo punto, Mons. Ocáriz fa riferimento alla costituzione Dei Verbum del Vaticano II (n. 8), ma San Pio X sottolinea la stessa idea nel Giuramento antimodernista: «Conservo pertanto e conserverò fino all'ultimo soffio di vita la fede dei padri nel carisma certo della verità, che è, è stato e sempre sarà nella “successione dell'episcopato dagli apostoli”; non perché si mantenga quello che possa sembrare migliore e più adatto secondo la cultura propria e di ogni epoca, ma perché “non sia mai diversamente creduta, mai diversamente” compresa, l’assoluta e immutabile verità predicata fin dall’inizio dagli apostoli. (Motu proprio Sacrorum antistitum dell’1 settembre 1910, DS 3549).
[3] Su questo punto si veda Charles Journet, L’Eglise du Verbe incarné, t. 1, 2° edizione del 1955, pp. 426-435. A fianco di un’assistenza assoluta, che è alla base dell’infallibilità in senso stretto, propria delle definizioni solenni, esiste anche un’assistenza prudenziale, che è alla base di una infallibilità in senso lato, propria della predicazione ordinaria e quotidiana del magistero.
[4] Lettera di Paolo VI a Mons. Lefebvre del 29 giugno 1975, in Itinéraires. La condamnation sauvage de Mgr Lefebvre, numero speciale fuori serie (dicembre 1976), p. 67.
[5] DS 3071.
[6] Somma Teologica. II – II, questione 1, articolo 10.
[7] Mt, 28, 20 ; Gv, 14, 26 ; Gv, 16, 13. Cfr. Cardinal Jean-Baptiste Franzelin, La Tradition, thèse 5, n° 60-66, Courrier de Rome 2008, p. 67-70 e thèse 22, n° 456-479, p. 325-336.
[8] « Fideliter custodienda et infallibiliter declaranda » (DS 3020) o « Sancte custodiendum et fideliter exponendum » (DS 3070).
[9] Cfr. gli Acta synodalia, t. II, parte I, p. 652. Al testo che parlava dell’infallibilità bisognava aggiungere l’inciso che qui riportiamo in grassetto: « Definitiones Romani Pontificis quae propter Spiritus sancti assistentiam nunquam extra vel contra fidem communem Ecclesiae proferuntur ex sese tamen et non ex consensu Ecclesiae irreformabiles esse ».
[10] «In effetti, il papa è infallibile se, e solo se, assolvendo alla sua funzione di dottore di tutti i cristiani, rappresentante tutta la Chiesa, egli giudica e definisce ciò che tutti devono credere o rigettare. E in questo non potrebbe separarsi dalla Chiesa, non più di quanto la fondazione possa discostarsi dall’edificio che deve sostenere. […] Questo è evidente se si considera il fine in vista del quale Dio ha accordato l’infallibilità al papa, che è di conservare la verità nella Chiesa» (Mons. Gasser, Mansi, t. 52, col. 1213 C).
[11] Cfr. Jean-François Chiron, L’Infaillibilité et son objet. L’autorité du magistère infaillible de l'Eglise s’étend-elle aux vérités non-révélées ? Cerf, 1999, pp. 501-503.
[12] Per il fatto stesso che deve proporre la verità rivelata, che è il suo oggetto primario, il magistero propone anche altre verità in connessione logicamente necessaria col deposito rivelato, o anche dei fatti contingenti in connessione moralmente necessaria col primo fine della Chiesa, che è di conservare ed esplicitare il deposito rivelato. La connessione è così stretta che la negazione di queste verità e di questi fatti metterebbe in pericolo la rivelazione. Questo dominio corrisponde all’oggetto secondario del magistero e comprende la proposizione del rivelato virtuale. Vi si trovano, per esempio, tutta la dottrina della Chiesa relativa alla legge naturale, i giudizi dottrinali che la Chiesa emette sugli scritti, la canonizzazione dei santi (ove si afferma il duplice fatto della glorificazione e della virtù eroica del santo), l’approvazione degli ordini religiosi (ove si afferma che tale regola di vita è atta a condurre alla perfezione).

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