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mercoledì 21 gennaio 2009

Via della Bellezza, via della Fede

Da una recensione pubblicata da Massimo Introvigne nel sito del Cesnur, pubblichiamo alcuni estratti, quale alimento di riflessione circa l'importanza del Bello (in senso platonico ma anche di semplice estetica) che tante volte viene sminuita, specie in campo liturgico, dai fautori di celebrazioni "minimaliste", per non dire sciatte.

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Anche in questo documento [Via pulchritudinis, documento finale dell’Assemblea plenaria del 27-28 marzo 2006 del Pontificio Consiglio della Cultura] si sottolinea come in un’epoca di crisi la via del bello – che non è, ovviamente, l’unica via – può riuscire meno difficile rispetto alla via del vero o a quella del buono, anche se i tre elementi alla fine non potranno che convergere. Nelle parole del teologo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1988), ricordate dal documento, forse nel mondo moderno "gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica" e il bene "ha perduto la sua forza di attrazione", così che non resta che partire dal bello (II.3: questa e le successive citazioni che iniziano con un numero romano fanno tutte riferimento al documento La Via pulchritudinis). Ancora, il documento propone una citazione dello scrittore e dissidente anti-comunista russo Aleksandr I. Solženicyn (1918-2008) nel suo Discorso per la consegna del Premio Nobel per la Letteratura: "Questa antica triunità della Verità, del Bene e della Bellezza non è semplicemente una caduca formula da parata, come ci era sembrato ai tempi della nostra presuntuosa giovinezza materialistica. Se, come dicevano i sapienti, le cime di questi tre alberi si riuniscono, mentre i germogli della Verità e del Bene, troppo precoci e indifesi, vengono schiacciati, strappati e non giungono a maturazione, forse strani, imprevisti, inattesi saranno i germogli della Bellezza a spuntare e crescere nello stesso posto e saranno loro in tal modo a compiere il lavoro per tutti e tre"
Da un punto di vista sociologico, è certamente vero che oggi grandi folle percepiscono in modo intuitivo la bellezza del cristianesimo e della cristianità attraverso l’architettura, la pittura, la scultura. "Le opere d’arte di ispirazione cristiana, che costituiscono una parte incomparabile del patrimonio artistico e culturale dell’umanità, sono oggetto di una vera infatuazione da parte di folle di turisti, credenti o non credenti, agnostici o indifferenti al fatto religioso. Tale fenomeno è in continuo aumento e raggiunge tutte le categorie della popolazione" (III.2). Ma questa "infatuazione" dev’essere evangelizzata. "La via della bellezza non è priva di ambiguità e di deviazioni" (II.1).
La via pulchritudinis, in effetti, non è una via facile. Non tutto quello che passa per bello lo è veramente. Da una parte, secondo il documento del 2006, "una certa abitudine alla bruttezza, al cattivo gusto, alla volgarità, si vede promossa sia dalla pubblicità sia da alcuni "artisti folli" che fanno dell’immondo e del brutto un valore, al fine di suscitare scandalo" (II.2). Dall’altra, anche di fronte a qualche cosa che è effettivamente bello c’è sempre il rischio di considerare la bellezza delle realtà create come fine a se stessa e di restarvi intrappolati anziché elevare l’anima verso il Creatore: "L’uomo spesso rischia di lasciarsi intrappolare dalla bellezza presa in se stessa, icona divenuta idolo, mezzo che inghiottisce il fine, verità che imprigiona, trappola in cui cade un gran numero di persone, per mancanza di un’adeguata formazione della sensibilità e di una corretta educazione alla bellezza" (ibid.). Ne I fratelli Karamazov dello scrittore russo Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821-1881) Dmitrij Karamazov confida a suo fratello Alëša: “La Bellezza è una cosa terribile. E’ la lotta tra Dio e Satana e il campo di battaglia è il mio cuore" (ibid.).
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Le realtà del mondo minerale, vegetale, animale permettono a loro modo una prima "contemplazione sacrale dell’universo" a partire da quella "ammirazione" che ha a che fare con l’"innocenza primeva" e che permette di vedere nella bellezza delle creature un rimando e un simbolo della bellezza del Creatore.

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Il secondo sentiero costeggia la montagna della bellezza a un’altezza superiore, ed è quello delle arti. Il tema è straordinariamente delicato, perché – come già si è accennato, e come ricorda il documento del Pontificio Consiglio della Cultura – da una parte vi sono oggi "artisti folli", magari idolatrati dalla critica e da certi musei ed esposizioni, che propagandano il volgare e il brutto, dall’altra anche all’infuori di questi casi siamo oggi circondati da "difficoltà dovute ad un certo clima culturale creato da una critica d’arte ampiamente influenzata da ideologie materialistiche: mettere in evidenza soltanto l’aspetto estetico-formale delle opere, senza interesse per il loro contenuto che ha ispirato tanta bellezza, rende sterile l’arte, inaridisce il flusso vivificante della vita spirituale per rinchiuderla nella sola emozione sensibile" (III.2).
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Come ricorda pure il documento del 2006 del Pontificio Consiglio della Cultura, vi è un terzo sentiero della via pulchritudinis che si spinge ben più in alto rispetto a quelli della natura e dell’arte: la contemplazione della santità e della bellezza delle azioni umane ispirate dalla grazia, nella vita e nelle cerimonie della Chiesa e nell’opera dei santi, fino alle vette sublimi e inarrivabili della montagna del Bello rappresentate dalla bellezza della Vergine Maria e del Signore Gesù. Un caso esemplare è la bellezza della liturgia della Chiesa. È interessante notare come sia il documento del 2006 sia il volume che recensiamo [A Inocência primeva e a contemplação sacral do universo no pensamento de Plinio Corrêa de Oliveira, a cura di AA.VV., Artpress, San Paolo, 2008] evochino lo stesso episodio: la conversione del poeta francese Paul Claudel (1868-1955) durante il canto del Magnificat nei Vespri di Natale a Notre-Dame a Parigi, peraltro rievocata anche da Benedetto XVI nel corso dei Vespri celebrati a Notre-Dame il 12 settembre 2008 nel corso del suo viaggio apostolico in Francia. Il documento vaticano mette in relazione questo episodio con l’altro – citato da una conferenza dell’allora cardinale Joseph Ratzinger – dei messi del principe Vladimiro di Kiev (958-1015) che, inviati a Costantinopoli per indagare sul cristianesimo, dopo una "solenne liturgia nella basilica di Santa Sofia" tornano entusiasti ed esclamano: "Non sappiamo se siamo stati in cielo o sulla terra", determinando il principe a quel battesimo che è "alle origini del cristianesimo in Russia" (III.3).
Naturalmente, vi è anche un rovescio di medaglia. Se la maestà di una bella liturgia può convertire, il carattere sciatto di certe liturgie di oggi può facilmente mettere in fuga potenziali convertiti. Ci si può chiedere che cosa troverebbe oggi Claudel, che cosa riferirebbero i messi al principe Vladimiro. "La superficialità, e talvolta perfino la banalità, addirittura la negligenza di alcune celebrazioni liturgiche non solo non aiutano il credente a progredire nel suo cammino di fede, ma soprattutto offendono coloro che ritornano alle celebrazioni cristiane e, in particolare, all’Eucaristia domenicale. In questi ultimi decenni, alcuni sono arrivati a dare eccessiva importanza alla dimensione pedagogica e alla volontà di rendere la liturgia comprensibile perfino agli osservatori esterni, e hanno minimizzato la sua funzione principale: introdurci con tutto il nostro essere in un mistero che ci supera totalmente" (ibid.). Né aiutano "la bruttezza di certe chiese e delle loro decorazioni, la loro inadattabilità alla celebrazione liturgica" (III.2).
La più grande bellezza è la santità, che non va confusa con la semplice filantropia naturale. Il documento del Pontificio Consiglio della Cultura lo ricorda con le parole del sacerdote ortodosso e filosofo russo Pavel Florenskij (1882-1937), definito "cantore russo della bellezza, martire del XX secolo" (muore, infatti, fucilato per ordine del regime comunista l’8 dicembre 1937, dopo anni di detenzione in un gulag). Scrive Florenskij commentando un passo del Vangelo di san Matteo (5, 16): "I vostri "atti buoni" non vuole affatto dire "atti buoni" in senso filantropico e moralistico: tà kalà erga vuol dire "atti belli", rivelazioni luminose e armoniose della personalità spirituale – soprattutto, un volto luminoso, bello, di una bellezza per cui si espande all’esterno "l’interna luce" dell’uomo, e allora vinti dall’irresistibilità di questa luce, gli uomini lodano il Padre celeste, la cui immagine sulla terra così sfolgora" (III.3). Vi è qui una differenza fra il testo vaticano del 2006 e il volume che raccoglie i contributi di Corrêa de Oliveira. Lo schema generale è analogo, ma gli esempi di kalà, di "atti belli", nel documento del Pontificio Consiglio della Cultura sono i grandi eventi che segnano la presenza nel mondo della Chiesa (anzitutto la liturgia) e le vite dei santi. Corrêa de Oliveira, da laico, aggiunge esempi tratti dall’ordine temporale. Belle possono essere anche la testimonianza di chi ha guidato un popolo o uno Stato in armonia con la buona dottrina e le esigenze del bene comune, e la stessa struttura di una società bene ordinata, frutto della consecratio mundi cui è chiamato il laico cattolico nella sua missione temporale.
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