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lunedì 11 aprile 2016

L'istinto della fede

Riprendiamo e traduciamo dal blog L'homme nouveau dello scorso 8 aprile un intervento a caldo dell'Abbé Claude Barthe sull'Esortazione Apostolica "Amoris laetitita".


Due successive sessioni del Sinodo dei Vescovi sul tema della Famiglia, ben inquadrate in ciò che si potrebbe chiamare “Sinodo dei Media”, hanno focalizzato l’attenzione sull’ammissione, in certi casi, delle persone che vivono pubblicamente nell’adulterio ai sacramenti della penitenza e dell’eucarestia. In un articolo de L’Homme Nouveau del 14 marzo 2015, «L’istinto della fede e la crisi della dottrina del matrimonio», evocavamo la possibilità che i paragrafi ambigui delle relazioni finali delle due sessioni potessero esser ripresi dall’esortazione postsinodale che doveva seguire. Ci siamo arrivati.
Molti competenti analisti si accingono a commentare l’esortazione, intitolata Amoris lætitia, che porta la data dello scorso 19 marzo. Ne sottolineeranno bellissimi passaggi sulla famiglia cristiana, considerazioni opportune su aspetti raramente trattati dai documenti pontifici (i genitori anziani, le difficoltà concrete dell’educazione, ecc.). Apprezzeranno il fatto che il testo affronta direttamente le reali situazioni della famiglia nel mondo contemporaneo.
Ma noteranno pure che, sin dall’inizio, l’esortazione, nel momento stesso in cui si avvia a trattare un certo numero di problemi dottrinali già definiti dal magistero della Chiesa, afferma tuttavia la legittimità della libera discussione quanto alle applicazioni in taluni casi: «desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero. Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano». Ciò lascia, d’altra parte, una grande libertà di discutere l’esortazione, che dunque si colloca, in premessa, al di fuori del campo degli «interventi magisteriali».

In funzione di ciò, l’ottavo capitolo («Accompagnare, discernere e integrare la fragilità»), specialmente i nn. 296-312, aprono una breccia nella dottrina morale precedente: «i divorziati che vivono una nuova unione, per esempio, possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale» (n. 298); «accolgo le considerazioni di molti Padri sinodali, i quali hanno voluto affermare che “i battezzati che sono divorziati e risposati civilmente devono essere più integrati nelle comunità cristiane nei diversi modi possibili, evitando ogni occasione di scandalo”» (n. 299); «è possibile soltanto un nuovo incoraggiamento ad un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari (...).Il colloquio col sacerdote, in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa» (n. 300). Incidentalmente, la possibilità di vivere «come fratello e sorella» per i coniugi in situazione irregolare è messa in discussione dalla nota a piè di pagina n. 329, con un richiamo indebito al n. 51 di Gaudium et spes, che tratta degli atti coniugali all’interno della famiglia legittima, ove l’astinenza è difficile. Con la conclusione pratica tanto attesa, formulata in termini un po’ imbarazzati dalla nota n. 336: una norma [si prende in considerazione quella che concerne i divorziati impegnati in una nuova unione] può, in certi casi, essere addolcita «per quanto riguarda la disciplina sacramentale».
Da parte nostra, in queste considerazioni a caldo, ci limiteremo a sollevare la questione dell’imputabilità. «Non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante» (n. 301). Dal che questa proposizione: «Nel contesto di queste convinzioni, considero molto appropriato quello che hanno voluto sostenere molti Padri sinodali: “In determinate circostanze le persone trovano grandi difficoltà ad agire in modo diverso. […] Il discernimento pastorale, pur tenendo conto della coscienza rettamente formata delle persone, deve farsi carico di queste situazioni. Anche le conseguenze degli atti compiuti non sono necessariamente le stesse in tutti i casi» [Relatio finalis 2015, n. 85].
Il testo non invoca la tradizionale buona fede – di cui Dio è giudice -, che può, effettivamente, in certi casi, scusare dal peccato. Esso suppone, al contrario, un soggetto «che conosce bene la norma». In ogni caso, e molto concretamente, si trasforma un’eventuale non-imputabilità soggettiva in non-imputabilità oggettiva, che permetterà di ricevere i sacramenti pur restando in una situazione oggettiva di peccato. Tutto ciò, d’altra parte, non fa che incoraggiare una pratica liberale già consolidata in molti luoghi.
Ma ancor prima, c’è la coscienza sacerdotale, quella del pastore d’anime che dovrà rispondere al giudizio di Dio dei consigli che avrà dato. Il sacerdote, confessore o meno, che accompagna queste persone, si troverà nel caso seguente: dei soggetti in stato di pubblico adulterio, reputando di non poter rinunciare agli atti di per sé riservati al matrimonio legittimo, vogliono essere da lui considerati come responsabili, al massimo, di peccato veniale. Pur supponendo di trovarsi nel caso limite che queste persone abbiano la certezza, in coscienza, che la precedente unione fosse invalida (n. 298, con rinvio a Familiaris consortio 22, che in questo caso richiede di vivere la seconda unione come fratello e sorella), non c’è – almeno al momento – un nuovo matrimonio sacramentale. Costoro si trovano, dunque, nella situazione di tutte le persone non sposate: l’attività carnale è loro proibita dal comandamento divino. La morale naturale e cristiana parla di fornicazione. Ecco dunque che, ormai, il sacerdote potrà affermare che questi atti, in certi casi, sarebbero al massimo peccati veniali. Il capovolgimento è considerevole.
Va da se che non siamo in presenza di un atto del magistero infallibile, cui si è tenuti ad aderire a pena di perdere la fede. Ma è permesso dire che la dottrina della Chiesa, quantomeno, non ne esce chiarita. Ed è qui necessario mettere in azione il sensus fidei/fidelium. Lo si è già visto dispiegarsi preventivamente presso eminenti pastori, come la trentina di cardinali che hanno manifestato la loro opposizione a una mutazione morale, dei quali parla Jean-Marie Guénois nel suo articolo sul Figaro di oggi, o ancora come gli autori di recenti libri collettivi (1). Nel nostro articolo del 10 marzo 2015, dicevamo che questa messa in opera dell’istinto della fede, non solo si oppone a una sorta di smagliarsi del magistero pontificio, ma pone anche le basi per la ritessitura magisteriale, per restare nel richiamo metaforico a Penelope. Oggi, molto concretamente, l’uso del sensus fidei/fidelium contribuisce a far appello – nel senso di interporre appello – al magistero morale come infallibile, e, dunque, al magistero in generale nella pienezza del suo esercizio salutare per le anime. È in gioco una posta istituzionale capitale per la Chiesa negli anni a venire. 


(1) I cardinali Walter Brandmüller, Raymond Leo Burke, Carlo Caffarra, Velasio De Paolis, Gerhard Ludwig Müller, Permanere nella verità di cristo. Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica, Cantagalli, 2014. Di nuovo il cardinal Caffarra, Arcivescovo di Bologna, e dieci altri cardinali: Cordes, già Presidente del Consiglio Cor Unum, Eijk, Arcivescovo di Utrecht, Ruini, già Cardinal Vicario di Roma, Sarah, Prefetto della Congregazione per il Culto divino, Urosa Savino, Arcivescovo di Caracas, Cleemis, Arcivescovo Maggiore dei Siro-Malankaresi, Duka, Arcivescovo di Praga, Meisner, Arcivescovo emerito di Colonia, Ruoco Valera, Arcivescovo emerito di Madrid, Onaiyekan, Arcivescovo d’Abuja in Nigeria, Matrimonio e famiglia. Prospettive pastorali di undici cardinali, Cantagalli, 2014.