L'omelia del prefetto della Congregazione per il Clero in occasione della festa di Santa Cecilia
ROMA, mercoledì, 23 novembre 2011 (ZENIT.org).- Riprendiamo l'omelia pronunciata ieri nella basilica romana di Santa Cecilia in Trastevere dal cardinale Mauro Piacenza, prefetto della Congregazione per il Clero, durante la Celebrazione Eucaristica nella festa di Santa Cecilia, Vergine e Martire. […]
In quella straordinaria espressione artistica dell’uomo che chiamiamo “musica”, è possibile riconoscere, forse meglio e più intensamente che in ogni altro “luogo”, la presenza del Mistero.
Affermava il Santo Padre Benedetto XVI nell’Udienza generale dello scorso 31 agosto: «Ci sono espressioni artistiche che sono vere strade verso Dio, la Bellezza suprema, anzi sono un aiuto a crescere nel rapporto con Lui, nella preghiera. […] Mi torna in mente un concerto di musiche di Johann Sebastian Bach, a Monaco di Baviera, diretto da Leonard Bernstein. Al termine dell’ultimo brano, una delle Cantate, sentii, non per ragionamento, ma nel profondo del cuore, che ciò che avevo ascoltato mi aveva trasmesso verità, verità del sommo compositore, e mi spingeva a ringraziare Dio. Accanto a me c'era il vescovo luterano di Monaco e spontaneamente gli dissi: “Sentendo questo si capisce: è vero; è vera la fede così forte, e la bellezza che esprime irresistibilmente la presenza della verità di Dio».
La bellezza che così si sperimenta è la gloria di Dio che trasfigura il mondo!
La bellezza, così intesa, non è immagine statica da contemplare, ma è attiva e dinamica, è in movimento, è forza che agisce e compie: la percezione della bellezza è un varco che si apre su una realtà più grande, è un varco che si apre nel mondo di Dio.
La bellezza si realizza in una forma che, se assumesse un significato finalizzato a se stesso, fossilizzerebbe la vita, ridurrebbe il rapporto tra il cuore dell’uomo e l’Infinito.
Al contrario, è proprio attraverso questo rapporto con l’infinito che si realizza la creatività stessa, che contempla questa bellezza e la traduce in una certa forma, ma la bellezza è eterna, mentre la forma è provvisoria.
La musica è via maestra di bellezza e, mi si permetta, di evangelizzazione!
In un epoca nella quale non esistevano ancora tutti i sistemi di riproduzione musicale della nostra società, ascoltare musica, soprattutto nella Liturgia, era realmente una “esperienza celestiale”.
In tal senso la musica è eterna, anche perché sempre riproducibile.
Mi ha sempre colpito l’esempio di Marija Judina, una dei più grandi pianisti russi del ‘900, la pianista che commosse Stalin. «Sconosciuta in Occidente ed emarginata in patria - dove pure era considerata un prodigio di perfezione musicale e tecnica - perché il regime aveva paura della sua fede senza riserve, del suo temperamento indomito e della sua indipendenza di vedute. Tutti aspetti, questi, che non venivano semplicemente dal suo carattere, ma da un nucleo interiore che lei riconosceva come ineliminabile, irriducibile nell’uomo. Al tocco delle sue dita («artigli d’aquila», le definì Šostakovic), i tasti del pianoforte evocavano un altro mondo, trasfigurato, purificando la realtà da miserie e piccinerie, infondendole significato e speranza, donandole la bellezza».
Il critico musicale Piero Rattalino racconta in un’intervista che quando Stalin ascoltò, nel 1943, alla radio l’esecuzione dal vivo di Marija Judina, del Concerto per pianoforte e orchestra n. 23 in La Maggiore K 488 di Mozart, ne restò colpito e volle a tutti i costi il disco.
Nessuno ebbe il coraggio di dirgli che il concerto non era stato registrato, che era una diretta effettuata negli studi della radio di Mosca e così venne inciso nella notte, in gran segreto.
Il disco venne confezionato in pochi esemplari e recapitato al tremendo ammiratore.
Stalin si mostrò generoso, e fece avere alla Judina ventimila rubli, una cifra strepitosa per l’epoca. Ma lei li rifiutò per sé e così rispose al dittatore: «La ringrazio per il Suo aiuto, Iosif Vissarionovič. Pregherò giorno e notte per Lei e chiederò al Signore che perdoni i Suoi gravi peccati contro il popolo e la nazione. Dio è misericordioso, La perdonerà. I soldi li devolverò per i restauri della mia parrocchia». Si dice che il disco con il concerto della Judina fosse sul grammofono di Stalin, quando lo trovarono morto nella sua dacia».
La pianista amava ripetere di essere consapevole delle proprie debolezze, ma pensava che la grandezza dell’uomo non fosse principalmente nelle sue doti, bensì nell’impulso «ad “osare” che nasce con lui e muore solo dopo di lui, nel suo cuore che ha sete d’infinito»; per tacitarlo – diceva citando Dostoevskij, «bisognerebbe tagliare la lingua a Cicerone, cavare gli occhi a Copernico, lapidare Shakespeare…».
L’incontro con gli artisti attraverso le loro opere e le loro esecuzioni (musicali, canore, pittoriche, scultoree, architettoniche, poetiche e letterarie) è, allora, incontro con la loro anima, con la loro sete d’infinito che può esprimersi in forme diverse.
Certamente, a maggior ragione, questo accade con la musica composta, pensata, scritta per Dio, per la divina Liturgia.
La Parola di Dio espressa in parole di uomini conserva un “non dicibile” che si esprime in canto, affinché l’indicibile divenga udibile; questo vuol dire che la musica sacra, espressione della Parola e del silenzio percepito in essa, ha bisogno di un sempre nuovo ascolto di tutta la pienezza del Logos.
La liturgia è parusia anticipata, è l’irrompere del «già» nel nostro «non ancora» e la liturgia terrena è realmente tale solo per il fatto che si inserisce in ciò che è più grande, nella liturgia celeste già da sempre in atto.
San Benedetto, nella Regola, al Cap. XIX, intitolato: “L’atteggiamento da tenere durante la recita dei Salmi”, cita il Salmo 46,8 «Cantate inni con arte» e il Salmo 137,1 «A te voglio cantare davanti agli angeli» per indicare ai monaci - ma si può riferire a tutti noi -, di riflettere, quando si canta, «su come dobbiamo comportarci al cospetto della divinità e dei suoi angeli, e quando partecipiamo all’ufficio divino il nostro animo sia in armonia con la nostra voce», «et sic stemus ad psallendum ut mens nostra concordet voci nostrae».
Cosa vuol dire questo se non quanto si è detto già anche per le grandi espressioni musicali?
Nella Liturgia quindi (ma si è visto anche nel rapporto con l’Infinito che determina una grande espressione artistica) non è l’uomo ad inventare qualcosa e poi a cantarlo, ma il canto “proviene dagli angeli”, cioè - ed è questo che afferma san Benedetto - l’uomo deve innalzare il suo cuore affinché concordi (abbia lo stesso cuore) con la tonalità che gli giunge dall’alto, stando davanti a Dio, in adorazione.
Solo un “cuore concorde”, solo la persona che adora il Signore può esprimere una musica adeguata alla liturgia.
È l’Atteggiamento delle vergini della parabola evangelica: è sufficiente, per l'ultimo giorno, il desiderio di "entrare alle nozze", non basta riconoscere "la voce dello sposo".
È necessario coltivare il buon “olio della fede”, perché non abbia a mancare nel momento giusto, quando riecheggerà, per ciascuno, diventando visione, la parola del Profeta Osea: «Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore».
È la grande lezione che ci imparte la dolcissima Vergine e Martire Cecilia la cui vita è armonia, è musica, è canto, inserita nel commovente, incantevole concertato della ecclesiale communio sanctorum!
ROMA, mercoledì, 23 novembre 2011 (ZENIT.org).- Riprendiamo l'omelia pronunciata ieri nella basilica romana di Santa Cecilia in Trastevere dal cardinale Mauro Piacenza, prefetto della Congregazione per il Clero, durante la Celebrazione Eucaristica nella festa di Santa Cecilia, Vergine e Martire. […]
In quella straordinaria espressione artistica dell’uomo che chiamiamo “musica”, è possibile riconoscere, forse meglio e più intensamente che in ogni altro “luogo”, la presenza del Mistero.
Affermava il Santo Padre Benedetto XVI nell’Udienza generale dello scorso 31 agosto: «Ci sono espressioni artistiche che sono vere strade verso Dio, la Bellezza suprema, anzi sono un aiuto a crescere nel rapporto con Lui, nella preghiera. […] Mi torna in mente un concerto di musiche di Johann Sebastian Bach, a Monaco di Baviera, diretto da Leonard Bernstein. Al termine dell’ultimo brano, una delle Cantate, sentii, non per ragionamento, ma nel profondo del cuore, che ciò che avevo ascoltato mi aveva trasmesso verità, verità del sommo compositore, e mi spingeva a ringraziare Dio. Accanto a me c'era il vescovo luterano di Monaco e spontaneamente gli dissi: “Sentendo questo si capisce: è vero; è vera la fede così forte, e la bellezza che esprime irresistibilmente la presenza della verità di Dio».
La bellezza che così si sperimenta è la gloria di Dio che trasfigura il mondo!
La bellezza, così intesa, non è immagine statica da contemplare, ma è attiva e dinamica, è in movimento, è forza che agisce e compie: la percezione della bellezza è un varco che si apre su una realtà più grande, è un varco che si apre nel mondo di Dio.
La bellezza si realizza in una forma che, se assumesse un significato finalizzato a se stesso, fossilizzerebbe la vita, ridurrebbe il rapporto tra il cuore dell’uomo e l’Infinito.
Al contrario, è proprio attraverso questo rapporto con l’infinito che si realizza la creatività stessa, che contempla questa bellezza e la traduce in una certa forma, ma la bellezza è eterna, mentre la forma è provvisoria.
La musica è via maestra di bellezza e, mi si permetta, di evangelizzazione!
In un epoca nella quale non esistevano ancora tutti i sistemi di riproduzione musicale della nostra società, ascoltare musica, soprattutto nella Liturgia, era realmente una “esperienza celestiale”.
In tal senso la musica è eterna, anche perché sempre riproducibile.
Mi ha sempre colpito l’esempio di Marija Judina, una dei più grandi pianisti russi del ‘900, la pianista che commosse Stalin. «Sconosciuta in Occidente ed emarginata in patria - dove pure era considerata un prodigio di perfezione musicale e tecnica - perché il regime aveva paura della sua fede senza riserve, del suo temperamento indomito e della sua indipendenza di vedute. Tutti aspetti, questi, che non venivano semplicemente dal suo carattere, ma da un nucleo interiore che lei riconosceva come ineliminabile, irriducibile nell’uomo. Al tocco delle sue dita («artigli d’aquila», le definì Šostakovic), i tasti del pianoforte evocavano un altro mondo, trasfigurato, purificando la realtà da miserie e piccinerie, infondendole significato e speranza, donandole la bellezza».
Il critico musicale Piero Rattalino racconta in un’intervista che quando Stalin ascoltò, nel 1943, alla radio l’esecuzione dal vivo di Marija Judina, del Concerto per pianoforte e orchestra n. 23 in La Maggiore K 488 di Mozart, ne restò colpito e volle a tutti i costi il disco.
Nessuno ebbe il coraggio di dirgli che il concerto non era stato registrato, che era una diretta effettuata negli studi della radio di Mosca e così venne inciso nella notte, in gran segreto.
Il disco venne confezionato in pochi esemplari e recapitato al tremendo ammiratore.
Stalin si mostrò generoso, e fece avere alla Judina ventimila rubli, una cifra strepitosa per l’epoca. Ma lei li rifiutò per sé e così rispose al dittatore: «La ringrazio per il Suo aiuto, Iosif Vissarionovič. Pregherò giorno e notte per Lei e chiederò al Signore che perdoni i Suoi gravi peccati contro il popolo e la nazione. Dio è misericordioso, La perdonerà. I soldi li devolverò per i restauri della mia parrocchia». Si dice che il disco con il concerto della Judina fosse sul grammofono di Stalin, quando lo trovarono morto nella sua dacia».
La pianista amava ripetere di essere consapevole delle proprie debolezze, ma pensava che la grandezza dell’uomo non fosse principalmente nelle sue doti, bensì nell’impulso «ad “osare” che nasce con lui e muore solo dopo di lui, nel suo cuore che ha sete d’infinito»; per tacitarlo – diceva citando Dostoevskij, «bisognerebbe tagliare la lingua a Cicerone, cavare gli occhi a Copernico, lapidare Shakespeare…».
L’incontro con gli artisti attraverso le loro opere e le loro esecuzioni (musicali, canore, pittoriche, scultoree, architettoniche, poetiche e letterarie) è, allora, incontro con la loro anima, con la loro sete d’infinito che può esprimersi in forme diverse.
Certamente, a maggior ragione, questo accade con la musica composta, pensata, scritta per Dio, per la divina Liturgia.
La Parola di Dio espressa in parole di uomini conserva un “non dicibile” che si esprime in canto, affinché l’indicibile divenga udibile; questo vuol dire che la musica sacra, espressione della Parola e del silenzio percepito in essa, ha bisogno di un sempre nuovo ascolto di tutta la pienezza del Logos.
La liturgia è parusia anticipata, è l’irrompere del «già» nel nostro «non ancora» e la liturgia terrena è realmente tale solo per il fatto che si inserisce in ciò che è più grande, nella liturgia celeste già da sempre in atto.
San Benedetto, nella Regola, al Cap. XIX, intitolato: “L’atteggiamento da tenere durante la recita dei Salmi”, cita il Salmo 46,8 «Cantate inni con arte» e il Salmo 137,1 «A te voglio cantare davanti agli angeli» per indicare ai monaci - ma si può riferire a tutti noi -, di riflettere, quando si canta, «su come dobbiamo comportarci al cospetto della divinità e dei suoi angeli, e quando partecipiamo all’ufficio divino il nostro animo sia in armonia con la nostra voce», «et sic stemus ad psallendum ut mens nostra concordet voci nostrae».
Cosa vuol dire questo se non quanto si è detto già anche per le grandi espressioni musicali?
Nella Liturgia quindi (ma si è visto anche nel rapporto con l’Infinito che determina una grande espressione artistica) non è l’uomo ad inventare qualcosa e poi a cantarlo, ma il canto “proviene dagli angeli”, cioè - ed è questo che afferma san Benedetto - l’uomo deve innalzare il suo cuore affinché concordi (abbia lo stesso cuore) con la tonalità che gli giunge dall’alto, stando davanti a Dio, in adorazione.
Solo un “cuore concorde”, solo la persona che adora il Signore può esprimere una musica adeguata alla liturgia.
È l’Atteggiamento delle vergini della parabola evangelica: è sufficiente, per l'ultimo giorno, il desiderio di "entrare alle nozze", non basta riconoscere "la voce dello sposo".
È necessario coltivare il buon “olio della fede”, perché non abbia a mancare nel momento giusto, quando riecheggerà, per ciascuno, diventando visione, la parola del Profeta Osea: «Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore».
È la grande lezione che ci imparte la dolcissima Vergine e Martire Cecilia la cui vita è armonia, è musica, è canto, inserita nel commovente, incantevole concertato della ecclesiale communio sanctorum!
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