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giovedì 14 marzo 2019

Arte Sacra: Ádám Kisléghi “Lux in tenebris lucet – La rinascita del chiaroscuro spirituale”

La recentissima nomina del Maestro Ádám Kisléghi come Membro ad honorem della Pont. Accademia dei Virtuosi al Pantheon ci fa ricordare la bella mostra di alcune opere di soggetto sacro dell'Artista inaugurata il 17 marzo 2016 a Roma presso l'Accademia d'Ungheria e il significativo intervento introduttivo tenuto da Mons. Daniel E. Estivill, docente di Iconografia e Iconologia della Pontificia Università Gregoriana. 
Ci congratuliamo con il Maestro Ádám Kisléghi per la prestigiosa nomina pontificia . 
AC  



“Lux in tenebris lucet – La rinascita del chiaroscuro spirituale”  
«La luce splende nelle tenebre»

Con questa citazione del Prologo del Vangelo di San Giovanni (Gv 1, 5) si apre questa mostra quale degno preludio alla Settimana Santa ormai alle porte. 
Il sottotitolo – la rinascita del chiaroscuro spirituale – è anche altamente significativo, in quanto esprime in modo conciso uno dei tratti più rilevanti della produzione artistica di Ádám Kisléghi, ovverosia, quella tecnica pittorica che in lui diventa espressione visiva di un percorso personale di fede.  

La tematica proposta dalla mostra, da una parte, accenna alla rinascita del glorioso
passato della tradizione artistica occidentale, caratterizzata da un continuo evolversi alla ricerca di forme stilistiche in armonia con le movenze culturali contemporanee. Dall’altra parte, il chiaroscuro diventa l’angolazione specifica secondo la quale siamo invitati a contemplare le opere esposte. 
Sembra, dunque, più che opportuno soffermarsi su questa tecnica pittorica, ben visibile nella ricca varietà di soggetti iconografici che compongono la mostra.  

La tecnica del chiaroscuro, così come viene adoperata da Kisleghi, rivela, tra l’altro, la sua vicinanza a Michelangelo Merisi da Caravaggio. Vicinanza che non è mera imitazione di una maniera di dipingere, bensì una vera esplorazione alla ricerca di emozioni visive e spirituali del più alto livello.  

Come è ben noto, il primo scopo di questo modo di dipingere è rendere la raffigurazione della realtà estremamente veritiera.
Così il Merisi, con il suo dipingere in chiave di chiaroscuro, non fece altro che mettersi al servizio dei principi dell’arte tridentina. Infatti, il Card. Gabriele Paleotti suggeriva al pittore di attirare gli occhi dell’osservatore ad ammirare il dipinto «con la vaghezza e la varietà dei colori, ora chiari ora scuri, ora delicati ora forti, a seconda della natura del soggetto» (Discorso intorno alle immagini sacre e profane, Libro II, cap. LII). 

In questo modo Caravaggio è riuscito ad inserirsi nella più nobile tradizione della spiritualità cristiana, che ha avuto molteplici moduli espressivi nella storia dell’iconografia sacra, ma in lui divenne un peculiare leitmotiv figurativo, nel quale la luce del divino entra nella quotidianità della fede vissuta.  

Orbene, sulla scia di questo grande pittore, Kisléghi ha voluto studiare in ogni personaggio le ombre proprie e quelle proiettate con una doppia finalità: dare realismo alla raffigurazione ed usare la luce come elemento simbolico del mondo spirituale. 
In questo, egli rivela la sua conoscenza della feconda tradizione spirituale della Chiesa, nella quale la luce è sempre segno dell’essenza del divino, della bontà di ogni cosa e dell’ausilio della grazia. 
Invece l’oscurità è simbolo del peccato, dell’assenza del bene e del luogo dove si nasconde lo spirito del male. In effetti, già nelle prime pagine della Sacra Scrittura, il racconto della creazione allude alla primordiale separazione della luce dalle tenebre (cf. Gn 1, 3-4). 
Poi, nella pienezza dei tempi, l’incarnazione del Verbo divino viene presentata come luce che splende nelle tenebre (cf. Gv 1,5) e illumina la storia degli uomini (cf. Gv 8,12). 
A questi dati della rivelazione segue una costante e prolifica predicazione della Chiesa lungo i secoli, secondo la quale il trionfo del bene sul male, della vita sulla morte, è presentato visivamente come passaggio dalle tenebre alla luce. 
Basti solo ricordare la liturgia pasquale che la Chiesa celebra contemplando il Cristo risorto. Egli, vincitore della morte e Signore della luce, è rappresentato nella vigilia del Sabato Santo dal Cero pasquale, che il celebrante accende mentre pronuncia le note parole: «Lumen Christi glorióse resurgéntis díssipet ténebras cordis et mentis» (La luce del Cristo che risorge glorioso disperda le tenebre del cuore e dello spirito).  

Secondo questa visione, nelle composizioni di Ádám Kisleghi la luce, benché concepita con estremo realismo, gioca un ruolo decisivo all’ora di una lettura spirituale dell’opera. 
In essa il contrasto tra le ombre e le luci può essere facilmente percepito come simbolo dell’esistenza umana che, nella penombra della sua condizione itinerante, viene illuminata dalla grazia che la trasfigura.  

Mi sia ora permesso attirare l’attenzione, nonché vostra la curiosità, su alcune opere qui esposte dove Kisleghi è egregiamente riuscito ad esprimere con il suo pennello ciò che poveramente io sto cercando di comunicare a parole.
Ad esempio, nel San Francesco è evidente che la luce, proveniente dall’alto, diventa simbolo di quell’illuminazione interiore che apre l’anima del santo alla speranza durante la meditazione sulla morte. 
Analogamente nel San Girolamo la luce, collocata al di fuori del quadro compositivo, si diffonde in modo radente sul corpo del santo, dall’alto verso il basso, quasi ad indicare la fonte dell’ispirazione della Parola di Dio, che lo scrittore si accinge a trascrivere. 
Anche nelle grandi tele, come il ciclo pittorico della Cattedrale di Szombathely, i cui bozzetti sono qui esposti, è possibile apprezzare il gioco di luci e ombre nel quale esprime il mistero cristologico della redenzione nei suoi momenti culminanti: l’Annunziazione a Maria, l’Adorazione dei Pastori, la Deposizione dalla croce e la Pentecoste. 
E così via, nelle diverse opere esposte è possibile scoprire come il chiaroscuro diventa manifestazione della sacralità dei soggetti iconografici. 

Scriveva il Card. F. Borromeo, a proposito della devozione di colui che dipinge opere d’arte sacra: «...come riesce vano lo sforzo dell’oratore per commuovere gli animi se prima non sarà lui stesso commosso, così io penso che ai pittori avvenga alcunché di simile, di modo che se essi stessi prima non si saranno sforzati di eccitare nel proprio animo i sentimenti, non potranno comunicare nelle loro opere ciò che essi non sentano, cioè la pietà e i nobili sentimenti dell’animo» (Borromeo F., De pittura sacra, Libro I, cap. XI).
Se ciò è vero, non possiamo non intuire che l’opera di Ádám Kisleghi sia il frutto, non solo di una conoscenza profonda delle regole dell’arte della pittura e di una solida formazione nella dottrina cristiana, ma soprattutto di una devozione personale, che riesce a coinvolgere l’osservatore invitandolo all’atto di fede e alla lode divina.
Daniel E. Estivill

Fonte: Ambasciata d'Ungheria presso la Santa Sede QUI 

Il sito del Maestro QUI

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