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martedì 22 ottobre 2024

Magister. "Sinodo e Chiesa reale. La voce fuori dal coro di un insigne storico e cardinale" #sinodo #sinodalità

Grazie a Sandro Magister per queste acute riflessioni del card. Walter Brandmüller.
QUI Michael Haynes.
Catholic World Report/CNA-Andrea Gagliarducci: Sinodo della Sinodalità – “E’ la messa a fuoco del ruolo delle chiese locali un cavallo di Troia?: “C'è qualcosa che va oltre l’apparenza nell'inquadramento delle discussioni sul governo ecclesiastico e sul rapporto tra le Chiese locali e la Chiesa universale - il principale argomento di conversazione al Sinodo sulla sinodalità della scorsa settimana? Si ha l'impressione che molti partecipanti al Sinodo vedano l'argomento come una sorta di cavallo di Troia, un tema che può sembrare innocuo in superficie, ma che può essere utilizzato per riportare all'ordine del giorno questioni messe in secondo piano come i sacerdoti sposati e le donne diacono. La sola possibilità che questo sia ciò che sta realmente accadendo ha messo in allarme coloro che vogliono mantenere la linea (tradizionale) sulla struttura di governo e sull'insegnamento morale della Chiesa.(…) Nel frattempo, all'interno della sala dell'assemblea, c'è stato accordo sulla necessità di sottolineare “l'importanza di preservare l'unità della Chiesa”, secondo Paolo Ruffini, prefetto del Dicastero della Comunicazione. Resta tuttavia da vedere come i delegati decideranno di articolare questo consenso nel documento finale dell'assemblea, che sarà presentato alla fine del mese. Il cardinale eletto Roberto Repole, arcivescovo di Torino, per esempio, ha segnalato che il documento non esprimerà le opinioni della maggioranza e dell'opposizione, ma piuttosto un consenso".
Luigi C.

21-10-24

(s.m.) Mentre il sinodo sulla sinodalità si trascina stancamente verso una conclusione ancora una volta provvisoria e vaga, da fuori due insigni cardinali ultranovantenni dicono e scrivono cose incomparabilmente più solide e vitali. Entrambi con uno sguardo all’intera storia della Chiesa.
Il primo è il cinese Joseph Zen Zekiun, 92 anni, già vescovo di Hong Kong, con un libro agile e tagliente uscito pochi giorni fa in Italia per i tipi di Ares: “Una, santa, cattolica e apostolica. Dalla Chiesa degli apostoli alla Chiesa sinodale”. Nel quale identifica la storia della Chiesa come una storia di martiri della fede.
Il secondo è il tedesco Walter Brandmüller (nella foto), 95 anni, una vita da studioso e docente di storia, presidente dal 1998 al 2009 del Pontificio comitato di scienze storiche, con il testo qui sotto, che ha scritto e offerto a Settimo Cielo per la pubblicazione.
La sua dotta e avvincente ricostruzione individua l’origine dell’autentica guida collegiale della Chiesa, fin dai primi secoli, nei concili o sinodi che facevano capo al rispettivo vescovo metropolita. Niente a che vedere con le moderne conferenze episcopali, che oggi aspirano a vedersi attribuita anche “qualche autorità dottrinale” (“Evangelii gaudium”, 32), ma in realtà nacquero per ragioni politiche e di rapporti “ad extra” con la società circostante.

Invece la vita della Chiesa “ad intra” è stata, e dovrebbe continuare ad essere, la competenza dei sinodi delle metropolie, in quanto “forma sacrale dell’esercizio del ministero docente e pastorale fondato sull’ordinazione dei vescovi riuniti”.

La dilatazione fuori misura del ruolo delle conferenze episcopali non è, a giudizio di Brandmüller, una semplice disfunzione organizzativa, perché ha aggravato il “processo strisciante di secolarizzazione della Chiesa ai giorni nostri”.

E infatti, l’atto di speranza con cui Brandmüller conclude è che, restituendo il loro ruolo originario e pieno ai concili delle metropolie e limitando le conferenze episcopali al loro ruolo “ad extra”, si compia “un passo importante in direzione dell’obiettivo della de-secolarizzazione e quindi di una rianimazione spirituale della Chiesa, specialmente in Europa”.

Ma ecco il testo del cardinale, qua e là abbreviato col suo consenso.

Conferenze episcopali e declino della fede. Come invertire la rotta

di Walter Brandmüller

Nella sua Lettera ai Romani, l’apostolo Paolo ammonisce i cristiani: “Non conformatevi a questo mondo…”. Indubbiamente il monito si riferisce allo stile di vita di ogni buon cristiano, ma riguarda anche la vita della Chiesa in generale. E non vale solo per i contemporanei dell’apostolo, ma per tutta la Chiesa in ogni tempo, quindi anche oggi. È su questo sfondo che si pone la domanda: la conferenza episcopale è – come spesso affermato – un organo di collegialità episcopale secondo gli insegnamenti del concilio Vaticano II?

Prima di rispondere a tale domanda, occorre rimandare all’organo di collegialità autentico e originario: il concilio provinciale. Quest’ultimo era l’assemblea dei vescovi di una data provincia ecclesiastica al fine dell’esercizio comune del ministero docente e pastorale.

La provincia ecclesiastica, a sua volta, era il risultato di un processo storico: la filiazione. Attraverso l’evangelizzazione, che partiva da una chiesa episcopale, si creavano nuove diocesi, i cui vescovi venivano ordinati dal vescovo della Chiesa madre. Ciò dava origine – e lo fa ancora oggi – alla struttura metropolitana, la provincia ecclesiastica. Pertanto, essa non è il frutto di un atto meramente burocratico-amministrativo, bensì di un processo organico sacramentale-gerarchico. La pratica della filiazione è “traditio in actu”, ovvero tradizione in atto. Oggetto della tradizione non è soltanto l’insegnamento, bensì l’intera realtà Chiesa; essa prende corpo nel sinodo provinciale. Ed è proprio in questo che ha radice la sua autorità docente e pastorale, come anche il carattere vincolante della legislazione sinodale.

La conferenza episcopale, invece, si distingue in modo fondamentale da tutto ciò. Essa è piuttosto l’assemblea dei vescovi le cui diocesi – in genere – si trovano nel territorio di uno stato laico, di una nazione.

Il principio organizzativo della conferenza episcopale, pertanto, non è di natura ecclesiologica bensì politica.

Il fine originale della conferenza episcopale era – e dovrebbe continuare a essere – quello di dibattere e decidere sulle questioni riguardanti la vita della Chiesa proprio in questa cornice politica di riferimento. Dalla storia e dai fini della conferenza episcopale emerge che si tratta prevalentemente della gestione dei rapporti tra la Chiesa e il contesto statale e sociale nel quale essa vive.

A partire dal XX secolo, tuttavia, gli sviluppi concreti hanno portato a far sì che la conferenza episcopale trattasse anche – se non soprattutto – tematiche interne alla Chiesa.

A sostegno di questa pratica si fa riferimento al numero 23 della Costituzione conciliare “Lumen gentium”, dove però viene detto solo a margine che la conferenza episcopale può apportare “un molteplice e fecondo contributo acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente”.

È proprio da questo testo che il giovane teologo Joseph Ratzinger aveva ritenuto di poter derivare la tesi secondo cui la conferenza episcopale poteva essere considerata la concretizzazione attuale dalla struttura sinodale della Chiesa dei primordi (in: J.C. Hampe, “Ende der Gegenreformation. Das Konzil: Dokumente und Deutung”, Magonza 1964, 161 seg.; titolo: “Konkrete Formen bischöflicher Kollegialität”).

È stata poi l’esperienza degli sviluppi post-conciliari a portarlo, ormai divenuto prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, a una visione disillusa e più critica della conferenza episcopale. Nel frattempo, infatti, erano state istituite conferenze episcopali ovunque e, specialmente in Europa, avevano sviluppato forme e procedure che davano loro l’apparenza di un’istanza gerarchica intermedia tra la Santa Sede e il singolo vescovo.

Le conseguenze di quel modo di vedere sono state assolutamente negative. Gli apparati burocratici delle conferenze episcopali si sono appropriati sempre più anche delle questioni che riguardavano il singolo vescovo. Così, col pretesto delle regolamentazioni uniformi, sono state – e continuano a essere – lese la libertà e l’autonomia dei singoli vescovi. Ratzinger in questo contesto parla anche di spirito di gruppo, conformismo e irenismo, di adeguamenti, per amore di pace, che possono determinare l’azione delle conferenze episcopali. Egli critica con particolare enfasi la pretesa di autorità docente della conferenza episcopale. […]

Così Ratzinger osserva anche che spesso i vescovi si sono opposti all’istituzione di una conferenza episcopale, ritenendo che avrebbe limitato i loro diritti.

Sta di fatto che l’esautorazione del singolo vescovo per mezzo di un apparato burocratico soffocante è motivo di grande preoccupazione, cosa dalla quale ha subito messo in guardia Giovanni Paolo II con il Motu proprio “Apostolos suos” del 1° maggio 1998. Questa preoccupazione è tanto più grande in quanto il potere pastorale del vescovo è direttamente di diritto divino. […]

A meritare più critiche è però il concetto di conferenza episcopale nazionale, in una Chiesa che è “di tutte le tribù, lingue e nazioni”. […] Non deve sorprendere che i papi non abbiano riconosciuto i concili nazionali in Francia sotto Napoleone I o che abbiano impedito in partenza che se ne tenesse uno in Germania nell’anno della rivoluzione 1848. In particolare, però, è stato per il pericolo che – seguendo l’esempio della “ecclesia gallicana” dell’ancien regime – ci potessero essere vere e proprie Chiese nazionali che, in unione tuttalpiù allentata con la sede di Pietro, vivessero una vita propria regolamentata dallo Stato.

Di fatto, la creazione di un’istanza nazionale costringe all’allentamento, se non allo scioglimento, della “communio” della Chiesa universale, che trova poi espressione in regolamentazioni nazionali speciali. Lo si sperimenta nella maniera più evidente nella liturgia; basti pensare all’introduzione delle lingue nazionali. […]

Allo stesso modo, come è accaduto di recente, costituiscono un grave attacco all’unità di fede nella Chiesa le interpretazioni contraddittorie che diverse conferenze episcopali hanno dato dell’Esortazione apostolica di Papa Francesco “Amoris laetitia” del 19 marzo 2016. […]

Sullo sfondo di questi sviluppi più recenti appare urgente una nuova riflessione sulla natura e sulla funzione della conferenza episcopale. Per prima cosa occorre assolutamente esaminare il contesto in cui l’istituzione conferenza episcopale è nata, nonché i suoi inizi. In quella fase, per la Chiesa si era trattato di orientarsi in un contesto socio-politico radicalmente mutato in seguito alla rivoluzione del 1789. Successivamente, in pieno contrasto con l’ideale rivoluzionario della libertà, fu istituito lo Stato autoritario ideologicamente liberale e al tempo stesso oppressivo della Restaurazione, che vedeva la Chiesa tutt’al più come un organo della “religion gendarme” per mantenere pace e ordine tra il popolo. Difficilmente si poteva parlare di “libertas ecclesiae”, ovvero del libero sviluppo della Chiesa. Per poter comunque creare spazi d’azione e rendere possibile la vita ecclesiastica in quella situazione servivano, di fatto, progetti e azioni comuni da parte dei vescovi, e più precisamente le azioni della Chiesa “ad extra”, ovvero nel contesto politico-sociale. Al fine di creare questa comunione nell’impegno per la libertà della Chiesa, la conferenza episcopale si rivelò una necessità.

Questa permane immutata ed è anzi perfino accresciuta, considerando le condizioni di secolarizzazione sempre più totalitaria degli Stati e delle società moderni.

Quel che però appare opportuno in queste circostanze è concentrare, ovvero limitare, le competenze della conferenza episcopale a quelle questioni che riguardano le relazioni “ad extra” della Chiesa. Queste coincidono largamente con le materie che vengono regolamentate attraverso concordati. A questo genere di finalità dovrebbe poi corrispondere anche il modo di agire della conferenza episcopale, che può senz’altro essere quello delle organizzazioni laiche o delle imprese: quindi, conferenze episcopali come “business meetings”.

Fondamentalmente diverso dalla natura volta “ad extra” della conferenza episcopale era ed è invece il sinodo provinciale, le cui competenze consultorie e decisionali riguardano la vita della Chiesa “ad intra”. Dottrina della fede, sacramenti, liturgia e azione pastorale: sono questi l’oggetto autentico dell’esercizio collegiale del ministero docente e pastorale da parte dei vescovi di un’associazione di Chiese particolari, ossia una provincia ecclesiastica sotto la presidenza del metropolita. La loro autorità di insegnare e guidare insieme scaturisce direttamente dalla loro ordinazione episcopale. Poggia quindi su basi sacramentali.

Proprio da questo risulta che il sinodo provinciale non è un “business meetings”clericale, bensì un evento sacrale: “Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18, 20). Ciò vale ancor più per l’assemblea sinodale dei successori degli apostoli. Questa intuizione ha portato a far sì che ben presto si siano sviluppate forme liturgiche per tali assemblee sinodali. Nacque l’”Ordo de celebrando concilio”, del quale sono state tramandate alcune prime forme del VII secolo, probabilmente risalenti a sant’Isidoro di Siviglia. […] Anche la presenza di laici era auspicata. […] I risultati venivano firmati da tutti i vescovi e presentati al popolo per l’approvazione. […]

Pur con alcune varianti, questa procedura è stata seguita per seicento anni. Anche l’ultima edizione, pubblicata nel 1984 con il titolo “De conciliis plenariis vel provincialibus et de synodo diocesano”, contiene disposizioni corrispondenti, che riprendono elementi fondamentali della tradizione. Di fatto, se venisse attuata emergerebbe con efficacia il carattere teologico-liturgico del sinodo.

Questo sinodo o concilio provinciale è, di fatto, già di per se stesso liturgia, essendo una forma sacrale dell’esercizio del ministero docente e pastorale fondato sull’ordinazione dei vescovi riuniti. Ma ai nostri giorni evidentemente la consapevolezza di ciò è largamente venuta meno, per cui da molto tempo il sinodo, il concilio provinciale, ha lasciato largamente il posto alla conferenza episcopale. Questo fatto è sia espressione sia causa di un processo strisciante di secolarizzazione della Chiesa ai giorni nostri.

Per potergli finalmente porre un freno – ed è una questione di sopravvivenza – servirebbero, tra altre cose, anche una chiara separazione delle funzioni e degli ambiti di competenza della conferenza episcopale e del sinodo, nonché il ripristino del sinodo come forma sacrale dell’esercizio della “sacra potestas” episcopale fondata sui sacramenti. A tal fine anche l’attuale “Caeremoniale episcoporum” sarebbe di grande aiuto.

Di fatto, se – “sperando contra spem” – si riuscisse a ravvivare questa forma autentica di azione episcopale collegiale, sarebbe un passo importante in direzione dell’obiettivo della de-secolarizzazione e quindi di una rianimazione spirituale della Chiesa, specialmente in Europa.

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