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giovedì 11 dicembre 2025

Avvenire festeggia (maldestramente) la riforma liturgica e viene subissato di critiche

Abbiamo prudentemente atteso una settimana, osservando che la tendenza fosse confermata nei giorni successivi alla pubblicazione, ed è stato così.

Venerdì scorso, 5 dicembre, in occasione del 62º anniversario della promulgazione della costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra liturgia, il quotidiano Avvenire (il cui editore di riferimento è la Conferenza episcopale italiana) ha pubblicato un articolo di pomposa celebrazione delle magnifiche sorti della cosiddetta «riforma liturgica conciliare» (QUI) e, nel giro di poche ore, il post su Facebook viene subissato di critiche: al momento si contano 528 commenti e ben pochi (enumerabili sulle dita di due mani o poco più) si allineano all’articolo scritto da Marco Roncalli (QUI).

È questo indubbiamente il sintomo che smentisce innanzitutto l’asserto finale dell’articolo, secondo il quale si ha la

certezza – nonostante casi di stravolgimenti estranei al dettato della costituzione o nostalgie difficili da condividere – di essere testimoni di un processo irreversibile, cominciato proprio sessantadue anni fa.

Già le reazioni «popolari» dovrebbero far riflettere su questa sbandierata «certezza», la quale si accompagna alla conclamata ignoranza del contenuto della costituzione Sacrosanctum Concilium (QUI), la quale, è bene ricordarlo agli smemorati di turno:
  1. nulla dispone in merito al capovolgimento dell’altare verso il popolo;
  2. nulla dispone in merito al divieto della comunione in ginocchio sulla lingua e alla liceità della comunione in piedi sulla mano;
  3. dispone che «l’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini» e che «si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti» (n. 36 SC);
  4. «riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale» (n. 116 SC).

Ma occorre dire che, al di là del sentimento favorevole o meno alla glorificazione della riforma liturgica, l’articolista ci mette molto del suo per facilitare le critiche, a cominciare dal titolo, poi ripreso nel testo:

Il duplice intento della costituzione conciliare fu, quindi, quello di restituire la liturgia al popolo e il popolo alla liturgia: obiettivo teso a favorire nei fedeli l’incontro con il Signore e con il mistero della Rivelazione.

«Restituire»? Quindi ridare ciò che prima sarebbe stato tolto? Quindi quella cattivona della Chiesa pre-conciliarvaticansecondista, più di millecinquecento anni prima, avrebbe sottratto la liturgia al popolo e finalmente il Concilio Vaticano II, novello Robin Hood, la avrebbe riconsegnata a questo popolo che si sentiva depauperato da ciò di cui la Chiesa lo avrebbe privato per più di un millennio e mezzo?

E ancora, l’articolo e spiega come sarebbe avvenuta questa illuminata restituzione:

Facendo sì che i fedeli potessero seguire i riti, le preghiere, i simboli come attori e non come muti spettatori.

Ecco la tipica sentenza di chi non ha mai partecipato ad una liturgia tradizionale ma ne vuole scrivere esponendosi inevitabilmente al ridicolo: per brevità, vedasi alla voce «actuosa participatio» (Papa Leone XIII e San Pio X), della quale è ben consapevole chi frequenta (o ha frequentato anche solo una volta, ma senza paraocchi ideologici, la liturgia tradizionale).

Ancora l’articolo continua e giunge ad alcune frasi che davvero non riusciamo a comprendere nel loro significato (che forse non hanno):

Liturgia, dunque, considerata non come l’insieme tout court delle cerimonie sacre, bensì come l’epifania del Signore al suo popolo e con il suo popolo. Una costituzione, insomma, che, assolvendo il compito di promuovere e custodire la liturgia, ne ha ribadito la centralità, affidata al sentirsi con Cristo stesso e alla sua presenza orante con i fratelli. Aspetto reso più percepibile dal ministero ordinato dei presbiteri e dei vescovi e dall’assemblea, espressione della Chiesa, dove la categoria simbolica è stata recuperata come linguaggio della comunicazione salvifica. Così, dunque, recependo anche istanze ecclesiologiche, si è arrivati ad una riscoperta della stessa ministerialità dentro a un nuovo concetto di liturgia, dove l’elemento della “cerimonia” ha lasciato spazio alla realtà teologica come “mistero di Cristo celebrato”.

Pare lo specchio della nuova liturgia: la lingua utilizzata è quella italiana, ma ognuno la intende come vuole, «come se fosse antani».


Lorenzo V.