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domenica 27 agosto 2023

L’inferno nelle visioni dei santi

Riceviamo e pubblichiamo dall'amico don Alfredo Morselli.
Luigi

Gloria TV, 24-7-23

Santa Teresa d’Avila (1515-1582)

La grande santa del XVI secolo Teresa d’Avila era una suora e teologa carmelitana. È uno dei 35 dottori della Chiesa. Il suo libro “Il castello interiore” è ritenuto uno dei testi più importanti sulla vita spirituale. Nella sua autobiografia, la santa descrive una visione dell’inferno che credeva Dio le avesse concesso per aiutarla ad allontanarsi dai suoi peccati:

“Passato gran tempo da quando il Signore mi aveva fatto già molte delle grazie suddette e anche altre, assai notevoli, mentre un giorno ero in orazione, mi sembrò di trovarmi ad un tratto sprofondata nell’inferno, senza saper come. Capii che il Signore voleva farmi vedere il luogo che lì i demoni mi avevano preparato e che io avevo meritato per i miei peccati.

Tale visione durò un brevissimo spazio di tempo, ma anche se vivessi molti anni, mi sembra che non potrei mai dimenticarla. L’entrata mi pareva come un vicolo assai lungo e stretto, come un forno molto basso, scuro e angusto; il suolo, una melma piena di sudiciume e di un odore pestilenziale in cui si muoveva una quantità di rettili schifosi. Nella parete di fondo vi era una cavità come di un armadietto incassato nel muro, dove mi sentii rinchiudere in un spazio assai ristretto.

Ma tutto questo era uno spettacolo persino piacevole in confronto a quello che qui ebbi a soffrire.

Ciò che ho detto, comunque, è mal descritto. Quello che sto per dire, però, mi pare che non si possa neanche tentare di descriverlo né si possa intendere: sentivo nell’anima un fuoco di tale violenza che io non so come poterlo riferire; il corpo era tormentato da così intollerabili dolori che, pur avendone sofferti in questa vita di assai gravi, anzi, a quanto dicono i medici, dei più gravi che in terra si possano soffrire – perché i miei nervi si erano tutti rattrappiti quando rimasi paralizzata, senza dire di molti altri di vario genere che ho avuto, alcuni dei quali, come ho detto, causati dal demonio – tutto è nulla in paragone di quello che ho sofferto lì allora, tanto più al pensiero che sarebbero stati tormenti senza fine e senza tregua.

Eppure anche questo non era nulla in confronto al tormento dell’anima: un’oppressione, un’angoscia, una tristezza così profonda, un così accorato e disperato dolore, che non so come esprimerlo. Dire che è come un sentirsi continuamente strappare l’anima è poco, perché morendo, sembra che altri ponga fine alla nostra vita, ma qui è la stessa anima a farsi a pezzi.

Non so proprio come descrivere quel fuoco interno e quella disperazione che esasperava così orribili tormenti e così gravi sofferenze. Non vedevo chi me li procurasse, ma mi pareva di sentirmi bruciare e dilacerare; ripeto, però, che il peggior supplizio era dato da quel fuoco e da quella disperazione interiore. Stavo in un luogo pestilenziale, senza alcuna speranza di conforto, senza la possibilità di sedermi e stendere le membra, chiusa com’ero in quella specie di buco nel muro. Le stesse pareti, orribili a vedersi, mi gravavano addosso dandomi un senso di soffocamento. Non c’era luce, ma tenebre fittissime. Io non capivo come potesse avvenire questo: che, pur non essendoci luce, si vedesse ugualmente ciò che poteva dar pena alla vista.

Il Signore allora non volle mostrarmi altro dell’inferno; inseguito, però, ho avuto una visione di cose spaventose, tra cui il castigo di alcuni vizi. Al vederli, mi sembravano ben più terribili, ma siccome non ne provavo la sofferenza, non mi facevano tanta paura, mentre in questa prima visione il Signore volle che io sentissi davvero nello spirito quelle angosce e afflizioni, come se le patissi nel corpo. Non so come questo sia avvenuto, ma mi resi ben conto che era per effetto di una grande grazia e che il Signore volle farmi vedere con i miei occhi da dove la sua misericordia mi aveva liberato.

Sentir parlare dell’inferno è niente, com’è niente il fatto che abbia alcune volte meditato sui diversi tormenti che procura (anche se poche volte, perché la via del timore non è fatta per la mia anima) e con cui i demoni torturano i dannati e su altri ancora che ho letto nei libri; non è niente, ripeto, di fronte a questa pena, che è ben altra cosa. C’è la stessa differenza che passa tra un ritratto e la realtà; bruciarsi al nostro fuoco è ben poca cosa in confronto al tormento del fuoco infernale.

Rimasi spaventata e lo sono tuttora mentre scrivo benché siano passati quasi sei anni tanto da sentirmi agghiacciare dal terrore qui stesso, dove sono. Così non c’è una volta in cui io sia afflitta da qualche sofferenza o dolore che non mi sembri una sciocchezza tutto quello che si può soffrire quaggiù, convinta che, in parte, ci lamentiamo senza motivo. Torno pertanto a dire che questa è una delle maggiori grazie che il Signore mi ha fatto, perché mi ha aiutato moltissimo, sia per non temere più le tribolazioni e le contraddizioni di questa vita, sia per sforzarmi a sopportarle e ringraziare il Signore di avermi liberato, come ora mi pare, da mali così terribili ed eterni.

D’allora in poi, ripeto, tutto mi sembra facile in paragone di un attimo di quella sofferenza ch’io ebbi lì a patire”.

Santa Maria Faustina Kowalska (1905-1938)

È venerata in tutto il mondo come l’Apostola della Divina Misericordia. Ha avuto rivelazioni, visioni, stigmate nascoste, il dono dell’ubiquità, il dono di leggere nelle anime, il dono della profezia e lo sposalizio mistico. Ha avuto contatto mistico con Dio, con la Madonna, con gli angeli, con i santi e con le anime del purgatorio.

“Oggi, sotto la guida di un angelo, sono stata negli abissi dell’Inferno. È un luogo di grandi tormenti per tutta la sua estensione spaventosamente grande. Queste le varie pene che ho viste: la prima pena, quella che costituisce l’inferno, è la perdita di Dio; la seconda, i continui rimorsi della coscienza; la terza, la consapevolezza che quella sorte non cambierà mai; la quarta pena è il fuoco che penetra l’anima, ma non l’annienta; è una pena terribile: è un fuoco puramente spirituale, acceso dall’ira di Dio; la quinta pena è l’oscurità continua, un orribile soffocante fetore, e benché sia buio i demoni e le anime dannate si vedono fra di loro e vedono tutto il male degli altri ed il proprio; la sesta pena è la compagnia continua di satana; la settima pena è la tremenda disperazione, l’odio di Dio, le imprecazioni, le maledizioni, le bestemmie”.

“Queste sono pene che tutti i dannati soffrono insieme, ma questa non è la fine dei tormenti. Ci sono tormenti particolari per le varie anime che sono i tormenti dei sensi. Ogni anima con quello che ha peccato viene tormentata in maniera tremenda ed indescrivibile. Ci sono delle orribili caverne, voragini di tormenti, dove ogni supplizio si differenzia dall’altro. Sarei morta alla vista di quelle orribili torture, se non mi avesse sostenuta l’onnipotenza di Dio. Il peccatore sappia che col senso col quale pecca verrà torturato per tutta l’eternità. Scrivo questo per ordine di Dio, affinché nessun’anima si giustifichi dicendo che l’inferno non c’è, oppure che nessuno c’è mai stato e nessuno sa come sia”.

“Io, Suor Faustina, per ordine di Dio sono stata negli abissi dell’inferno, allo scopo di raccontarlo alle anime e testimoniare che l’inferno c’è. Ora non posso parlare di questo. Ho l’ordine da Dio di lasciarlo per iscritto. I demoni hanno dimostrato un grande odio contro di me, ma per ordine di Dio hanno dovuto ubbidirmi. Quello che ho scritto è una debole ombra delle cose che ho visto. Una cosa ho notato e cioè che la maggior parte delle anime che ci sono, sono anime che non credevano che ci fosse l’inferno. Quando ritornai in me, non riuscivo a riprendermi per lo spavento, al pensiero che delle anime là soffrono così tremendamente, per questo prego con maggior fervore per la conversione dei peccatori, ed invoco incessantemente la misericordia di Dio per loro. Gesù mio, preferirei agonizzare fino al termine del mondo, fra le peggiori sofferenze, piuttosto che offenderti con il minimo peccato” (Diario di Santa Faustina, 741).

Suor Lucia di Fatima (1907-2005)

TERZA APPARIZIONE: 13 LUGLIO 1917

Nel corso della terza apparizione, una nuvoletta cenerognola si librò sull’elce, il sole si oscurò, una fresca brezza spirò sulla montagna, benché si fosse in piena estate. Il signor Marto, padre di Giacinta e Francesco, che lo racconta, dice che udì anche un sussurro simile al rumore prodotto da mosche in un orciolo vuoto. I veggenti videro il riflesso della solita luce e poi la Madonna sul querciolo.

Quindi proseguì: “Sacrificatevi per i peccatori e dite molte volte e in modo speciale quando fate qualche sacrificio: Oh Gesù, è per amor vostro, per la conversione dei peccatori e in riparazione dei peccati commessi contro il Cuore Immacolato di Maria”.

Prima parte del segreto: la visione dell’inferno

«Dicendo queste ultime parole -racconta suor Lucia- aprì di nuovo le mani come nei due mesi passati. Il riflesso [di luce che esse emettevano] parve penetrare la terra e vedemmo come un grande mare di fuoco e immersi in questo fuoco i demoni e le anime come se fossero braci trasparenti e nere o abbronzate di forma umana, che ondeggiavano nell’incendio sollevate dalle fiamme che uscivano da loro stesse insieme a nuvole di fumo cadendo da tutte le parti -simili al cadere delle scintille nei grandi incendi– senza peso né equilibrio, tra grida e gemiti di dolore e di disperazione che terrorizzavano e facevano tremare di paura. I demoni si distinguevano per la forma orribile e ributtante di animali spaventosi e sconosciuti, ma trasparenti come neri carboni di bracia ».

La visione durò soltanto un momento, durante il quale Lucia emise un «ah!».Ella nota che, se non fosse stato per la promessa della Madonna di portarli in cielo, i veggenti sarebbero morti per l’emozione e la paura.

Seconda parte del segreto:
l’annuncio del castigo e dei mezzi per evitarlo

Spaventati, quindi, e come per chiedere soccorso, i veggenti levarono gli occhi verso la Madonna, che disse loro con bontà e tristezza:

LA MADONNA: “Avete visto l’inferno, dove vanno le anime dei poveri peccatori. Per salvarli, Dio vuole stabilire nel mondo la devozione al mio Cuore Immacolato.

“Se farete quello che vi dirò, molte anime si salveranno e avranno pace.

B. Anna Katharina Emmerick (1774-1824)

Quando venivo afferrata da molte pene e disturbi diventavo veramente pusillanime e sospiravo. Dio forse mi avrebbe potuto regalare solo un giorno tranquillo. Vivo come nell’inferno. Ebbi allora un severo rimprovero dalla mia guida, che mi disse: “Per fare in modo da non paragonare più così la tua condizione voglio mostrarti veramente l’inferno”. Così essa mi guidò verso l’estremo settentrione, dalla parte dove la terra diviene più ripida, poi più distante dalla terra. Ricevetti l’impressione di essere giunta in una località terribile. Discesi attraverso i sentieri di un deserto di ghiaccio, in una regione sopra all’emisfero terrestre, dalla parte più settentrionale del medesimo. La via era deserta e nel percorrerla notai che si faceva sempre più scura e ghiacciata. Al solo ricordo di ciò che vidi sento tutto il mio corpo tremare. Era una terra di infinite sofferenze, cosparsa da macchie nere, qua e là carbone e un fumo denso si levava dal suolo; il tutto era avvolto in una profonda oscurità, come una notte eterna”. Alla pia suora, successivamente fu mostrato, in una visione abbastanza chiara, come Gesù, immediatamente dopo la sua separazione dal corpo, scese nel Limbo: Finalmente Lo vidi (il Signore), procedere con grande gravità verso il centro dell’abisso e avvicinarsi all’inferno. Aveva la forma di una roccia gigantesca, illuminata da una luce metallica, terribile e nera. Un portone immane e scuro serviva da ingresso. Era veramente spaventoso, chiuso con chiavistelli e catenacci incandescenti che stimolavano una sensazione d’orrore. Improvvisamente udii un ruggito, un urlo orrendo, i portoni furono aperti e apparve un mondo terribile e sinistro. Tale mondo corrispondeva per l’appunto all’esatto contrario di quello della Gerusalemme celeste e delle innumerevoli condizioni di beatitudini, la città con i giardini più diversi, pieni di frutta e fiori meravigliosi, e gli alloggi dei Santi. Tutto quello che mi apparve era l’opposto della beatitudine. Tutto portava il marchio della maledizione, delle pene e delle sofferenze. Nella Gerusalemme celeste tutto appariva modellato dalla permanenza dei Beati e organizzato secondo le ragioni ed i rapporti della pace infinita dell’armonia eterna; qui invece tutto appare nella discrepanza, nella disarmonia, immerso nella rabbia e disperazione. In cielo si possono contemplare gli edifici indescrivibili belli e limpidi della gioia e dell’adorazione, qui invece l’esatto opposto: carceri innumerevoli e sinistre, caverne della sofferenza, della maledizione, della disperazione; là in paradiso, si trovano i più meravigliosi giardini pieni di frutta per un pasto divino, qui odiosi deserti e paludi pieni di sofferenze e pene e tutto quello che di più orrendo si possa immaginare. All’amore, alla contemplazione, alla gioia e alla beatitudine, ai templi, agli altari, ai castelli, ai torrenti, ai fiumi, ai laghi, ai campi meravigliosi, e alla comunità beata e armonica dei Santi, si sostituisce nell’inferno lo specchio contrapposto del pacifico Regno di Dio, il dilaniante, eterno disaccordo dei dannati. Tutti gli errori umani e le bugie, erano concentrate in questo stesso luogo e apparivano in innumerevoli rappresentazioni di sofferenze e pene. Niente era giusto, non esisteva nessun pensiero tranquillizzante, come quello della giustizia divina. Vidi delle colonne di un tempio tenebroso e orribile.

Sr. Maria Josefa Menéndez (1890-1923)

Suor Josefa era una monaca cattolica mistica. Nata da una famiglia cristiana a Madrid ha dovuto soffrire per molte prove.

All’età di ventinove anni entra nella compagnia del Sacro Cuore di Gesù e qui trascorre la sua vita pulendo e cucinando. Durante questo periodo riceve le visioni di Gesù.

“In un istante mi trovai nell’inferno, ma senza esservi trascinata come le altre volte, e proprio come vi devono cadere i dannati. L’anima vi si precipita da se stessa, vi si getta come se desiderasse sparire dalla vista di Dio, per poterlo odiare e maledire.

L’anima mia si lasciò cadere in un abisso di cui non si poteva vedere il fondo, perché immenso… Ho visto l’inferno come sempre: antri e fuoco. Benché non si vedano forme corporali, i tormenti straziano le anime dannate (che tra loro si conoscono) come se i loro corpi fossero presenti.

Fui spinta in una nicchia di fuoco e schiacciata come tra piastre roventi e come se dei ferri e delle punte aguzze arroventate si infiggessero nel mio corpo.

Ho sentito come se, pur senza riuscirci, si volesse strapparmi la lingua, cosa che mi riduceva agli estremi, con un atroce dolore. Gli occhi mi sembrava che uscissero dall’orbita, credo a causa del fuoco che li bruciava orrendamente.

Non si può nè muovere un dito per cercare sollievo, nè cambiare posizione; il corpo è come compresso. Gli orecchi sono come storditi dalle grida orrende e confuse che non cessano un solo istante.

Un odore nauseabondo e una ripugnante asfissia invade tutti, come se bruciasse carne in putrefazione con pece e zolfo.

Tutto questo l’ho provato come nelle altre occasioni e, sebbene questi tormenti siano terribili, sarebbero un nulla se l’anima non soffrisse; ma essa soffre in modo indicibile per la privazione di Dio.

Vedevo e sentivo alcune di queste anime dannate ruggire per l’eterno supplizio che sanno di dover sopportare, specialmente alle mani. Penso che durante la vita abbiano rubato, poiché gridavano: “Maledette mani, dov’è ora quello che avete preso?”.

Altre anime, urlando, accusavano la propria lingua, o gli occhi… ognuna ciò che è stato la causa del suo peccato: “Ora paghi atrocemente le delizie che ti concedevi, o mio corpo!… E sei tu, o corpo, che l’hai voluto!… Per un istante di piacere, un’eternità di dolore!”. Mi sembra che all’inferno le anime si accusino specialmente di peccati di impurità.

Mentre ero in quell’abisso, ho visto precipitare delle persone impure e non si possono dire nè comprendere gli orrendi ruggiti che uscivano dalle loro bocche: “Maledizione eterna!… Mi sono ingannata!… Mi sono perduta!… Sarò qui per sempre!… per sempre!!… per sempre!!!… e non ci sarà più rimedio… Maledetta me!”.

Una ragazzina urlava disperatamente, imprecando contro le cattive soddisfazioni che ha concesso in vita al suo corpo e maledicendo i genitori che le avevano dato troppa libertà nel seguire la moda e i divertimenti mondani. Era dannata da tre mesi.

Tutto ciò che ho scritto – conclude la Menendez – è soltanto una pallida ombra al confronto con ciò che si soffre veramente all’inferno”.

S. Caterina da Siena (1347-1380)

I Quattro Tormenti

Gesù dice alla sanat: “Lingua umana non basta, figlia mia, a narrare la pena di queste anime miserande. Se tre sono i principali vizi – cioè l’amore di sé onde nasce il secondo, ossia la considerazione di se stessi, dal quale procede il terzo, che è la superbia accompagnata da falsa giustizia e crudeltà, con gli altri iniqui e immondi peccati che conseguono a questi – così ti dico che nell’inferno vi sono quattro tormenti principali, ai quali conseguono tutti gli altri.

Il primo tormento consiste nel fatto che essi si vedono privati della mia visione; cosa che è di tanta sofferenza che, se fosse loro possibile, sceglierebbero piuttosto di vedermi, anche stando nel fuoco e tra i più crudi tormenti, piuttosto che esser privi d’ogni pena senza vedermi. Questa prima pena produce in loro la seconda, quella del verme della coscienza che sempre li rode, poiché per loro colpa si vedono privati di me e della conversazione con gli angeli, e per di più si vedono divenuti degni della conversazione con i demoni e della loro visione.

II vedere poi il diavolo, che è la terza pena, moltiplica ogni loro sofferenza. Se infatti i santi sempre esultano nella mia visione ripensando con gaudio al frutto dei sacrifici che hanno sopportato per me con grandissimo amore e disprezzo di sé, il contrario è di questi sventurati, che nella visione dei demoni acuiscono il proprio tormento: nel vedere i demoni riconoscono se stessi, cioè capiscono che per propria colpa se ne son resi degni. In tal modo il tarlo della coscienza ancor più li rode e mai ha tregua il fuoco bruciante di questa consapevolezza”. (cfr Isaia 66,24)

Pena ancor più grande deriva loro dal vedere la figura stessa del demonio, tanto orribile che non v’è cuore umano che possa figurarsela. Se ben ricordi, infatti, saprai che, avendoti Io mostrato il demonio nella sua forma, e per un piccolo spazio di tempo – quasi un punto! – tu, dopo esser tornata in te, hai scelto, piuttosto, di camminare lungo una strada lastricata di fuoco, durasse pure sino al giorno del giudizio, disposta a calpestare il fuoco coi tuoi piedi, piuttosto che vederlo ancora.

Ma quantunque tu l’abbia visto, ancora non sai quanto egli sia orribile, perché, per divina giustizia, egli si mostra ancor più repellente all’anima che si è privata di me, e in modo più o meno grave a seconda della gravità delle colpe commesse.

E il quarto tormento è il fuoco. È un fuoco che brucia ma non consuma l’anima; questa non si può consumare, non essendo cosa materiale che il fuoco possa ridurre a niente, dal momento che è incorporea. Ma Io per divina giustizia ho permesso che il fuoco la bruci tormentosamente, la tormenti e non la consumi, e la tormenti e bruci con grandissime sofferenze, in modi diversi a seconda della gravità dei peccati, chi più chi meno, secondo il peso delle colpe.

Da questi quattro tormenti derivano tutti gli altri, con freddo e caldo e strider di denti. Ecco in che modo miserabile hanno ricevuta la morte eterna, dopo i rimproveri loro rivolti in vita per il falso giudizio e per l’ingiustizia, non essendosi corretti in occasione di questa prima accusa, come ho detto, né della seconda, cioè in punto di morte quando non vollero sperare, né dolendosi dell’offesa fatta a me ma affliggendosi soltanto per la propria pena”.

Tratto da: “Dialogo della divina provvidenza” di Santa Caterina da Siena.

San Giovanni Bosco (1815-1888)

La sera del 3 maggio 1868 Don Bosco ripigliò il racconto di quanto aveva visto nei sogni di quei giorni.

S’introdusse così: « Debbo raccontarvi un altro sogno che si può dire conseguenza dei precedenti. Questi sogni mi lasciarono affranto in modo da non poter più reggere. Vi ho detto di un rospo spaventevole che nella notte del 17 aprile minacciava di ingoiarmi e che, al suo scomparire, udii questa voce: “Perché non parli?”. Io mi volsi dalla parte donde era partita la voce e vidi a fianco del mio letto un personaggio distinto (la Guida).

— E che cosa devo dire? — gli chiesi.

— Ciò che hai visto e ti fu detto negli ultimi sogni e quel di più che ti sarà svelato la notte ventura».

Don Bosco continua dicendo che lo riempiva di terrore l’idea di dover vedere ancora altri spettacoli paurosi e che non si decise di andare a letto se non dopo la mezzanotte. Ed ecco che, appena addormentato, la solita Guida si avvicina al suo letto e gli intima:

— Alzati e vieni con me.

Lo condusse in una pianura vastissima e arida, un vero deserto senza un filo d’acqua. Fu un viaggio lungo e triste, anche se la strada per cui si inoltrarono era bella, larga, spaziosa e ben selciata. La fiancheggiavano due magnifiche siepi verdi coperte di bellissimi fiori. A prima vista sembrava una strada pianeggiante, ma in realtà scendeva; e Don Bosco e la Guida camminavano con una rapidità tale che sembrava loro di volare.

«Dietro di noi — racconta Don Bosco — vidi tutti i giovani del l’Oratorio con moltissimi compagni da me mai veduti. Mentre avanzavano, vidi che or l’uno or l’altro cadevano ed erano immediatamente trascinati da una forza invisibile verso una paurosa discesa, che s’intravedeva in lontananza. Domandai alla mia Guida:

— Che cosa è che fa cadere questi giovani?

— Avvicinati un po’ di più.

Vidi allora che i giovani passavano fra molti lacci, alcuni stesi rasente a terra, altri sospesi in aria all’altezza del capo. Erano quasi invisibili, perciò molti giovani restavano presi a quei lacci: chi per la testa, chi per il collo, chi per le mani, chi per un braccio, chi per una gamba, chi per i fianchi. Non appena si stringeva il laccio, venivano all’istante trascinati giù.

Volli esaminarne uno e lo tirai verso di me; ma non potendo smuoverlo, decisi di seguire il filo fino al capo legato in qualche posto o tenuto da qualcuno. Giunsi così sulla soglia di una orribile caverna e avendo ancora dato uno strattone al filo, vidi uscire un brutto e grande mostro che faceva ribrezzo. Con i suoi unghioni teneva l’estremità di una fune, alla quale erano legati tutti quei lacci.

Impressionato da quella visione, ritornai presso la mia Guida, la quale mi disse:

— Ora sai chi è che trascina i giovani nel precipizio.

— Oh, sì che lo so! È il demonio che tende quei lacci per far cadere i miei giovani nell’inferno.

Mi accorsi allora che ogni laccio portava una scritta: superbia, disubbidienza, invidia, impurità, furto, gola, accidia, ira, ecc. Notai pure che i lacci che facevano maggiori vittime erano quelli dell’impurità, della disubbidienza e della superbia. A quest’ultimo erano legati gli altri due.

Molti giovani sapevano però fortunatamente evitare la presa del laccio; altri poi se ne liberavano passando accanto a coltelli infissi nel terreno, che tagliavano o rompevano il laccio. Erano simbolo della Confessione, della preghiera e di altre virtù o devozioni. Due grandi spade rappresentavano la devozione a Gesù Sacramentato e a Maria Santissima».

A questo punto Don Bosco racconta che proseguì il cammino, sempre più aspro, per una via che scendeva sempre più ripida e scoscesa, sparsa di buche, di ciottoli e di macigni. Ed ecco comparire in fondo un edificio immenso e tenebroso. Sopra una porta altissima c’era una scritta spaventosa: «Qui non c’è redenzione». Erano giunti alle porte dell’inferno.

— Guarda! — gli gridò a un tratto la Guida afferrandolo per un braccio.

«Tremante — afferma il Santo —, volsi gli occhi in su e vidi a gran distanza uno che scendeva precipitosamente. Di mano in mano che scendeva, riuscivo a distinguerne la fisionomia; era uno dei miei giovani. I capelli scarmigliati, parte ritti sul capo, parte svolazzanti indietro; le braccia tese in avanti, come per proteggersi nella caduta. Voleva fermarsi e non poteva. Io volevo correre ad aiutarlo, a porgergli una mano salvatrice, ma la Guida non me lo permise:

— Credi — mi disse — di poter fermare uno che fugge dall’ira di Dio?

Intanto quel giovane, guardando indietro con occhi folli di terrore, andò a sbattere contro la porta di bronzo, che si spalancò. Dietro di essa se ne aprirono contemporaneamente, con un lungo boato assordante, due, dieci, cento, mille altre, spinte dall’urto del giovane, trasportato come da un turbine invisibile, irresistibile, velocissimo. Tutte quelle porte di bronzo per un istante rimasero aperte, e io vidi in fondo, lontanissimo, come una bocca di fornace, e da quella voragine, mentre il giovane sprofondava, sollevarsi globi di fuoco. Le porte tornarono a chiudersi con la stessa rapidità con la quale si erano aperte. Ed ecco precipitare altri tre giovani delle nostre case, che rotolavano rapidissimi come tre macigni, uno dietro l’altro. Avevano le braccia aperte e urlavano per lo spavento. Giunsero in fondo e andarono a sbattere contro la prima porta che si aperse, e dietro di essa le altre mille.

Molti altri caddero. Un poveretto venne spinto a urtoni da un perfido compagno. Io li chiamavo affannosamente, ma essi non mi udivano. — Ecco una causa principale di tante dannazioni! — esclamò la mia Guida —. I compagni, i libri cattivi, le abitudini perverse.

Vedendone cadere tanti, esclamai con accento disperato:

— Ma dunque è inutile che noi lavoriamo nei nostri collegi, se tanti giovani fanno questa fine!

La Guida rispose:

— Questo è il loro stato attuale e se morissero verrebbero senz’altro qui».

In quel momento Don Bosco vide precipitare un altro gruppo di giovani e quelle porte restarono aperte per un istante. — Vieni dentro anche tu — gli disse la Guida —; imparerai tante cose.

Entrarono in quello stretto e orribile corridoio e giunsero a un tetro e brutto sportello sul quale era scritto: «Ibuni impii in ignem aeternum» (gli empi andranno al fuoco eterno).

La Guida prese per mano Don Bosco, aperse lo sportello e lo introdusse. «Lo spettacolo che mi si offerse — racconta Don Bosco — mi gettò in preda a un terrore indescrivibile. Una specie di immensa caverna andava perdendosi in anfrattuosità incavate nelle viscere dei monti, tutte piene di fuoco, non già come noi lo vediamo sulla terra con le fiamme guizzanti, ma tale che tutto là dentro era arroventato e bianco per il grande calore. Mura, volta, pavimento, ferro, pietre, legno, carbone, tutto era bianco e smagliante. Certo quel fuoco sorpassava mille e mille gradi di calore; e non inceneriva nulla, non consumava nulla. Mi mancano le parole per descrivervi quella spelonca in tutta la sua spaventosa realtà.

Mentre guardavo atterrito, ecco da un varco venire a tutta furia un giovane che, mandando un urlo acutissimo, precipita nel mezzo, si fa bianco come tutta la caverna, e resta immobile, mentre risuona ancora per un istante l’eco della sua voce morente. Pieno di orrore guardai quel giovane e mi parve uno dell’Oratorio, uno dei miei figliuoli.

— Ma costui non è uno dei miei giovani, non è il tale? — chiesi alla Guida.

— Purtroppo sì — mi rispose.

Dopo questo arrivarono altri, e il loro numero aumentava sempre più, e tutti mandavano lo stesso grido e diventavano immobili, arroventati, come coloro che li avevano preceduti.

Cresceva in me lo spavento e chiesi alla mia Guida:

— Ma costoro non lo sanno che vengono qui?

— Oh, sì che lo sanno di andare al fuoco eterno; furono avvisati mille volte, ma cadono qui, e volontariamente, per il peccato che non vollero abbandonare. Essi disprezzarono e respinsero la misericordia di Dio, che li chiamava incessantemente a pentimento.

— Quale deve essere la disperazione di questi disgraziati che non hanno più speranza di uscirne! — esclamai.

Allora la Guida mi ordinò:

— Ora bisogna che vada anche tu in mezzo a quella regione di fuoco che hai visto!

— No, no! — risposi esterrefatto —. Per andare all’inferno bisogna prima andare al giudizio di Dio, e io non fui ancora giudicato. Dunque non voglio andare all’inferno!

— Dimmi — osservò la Guida —: ti pare meglio andare all’inferno e liberare i tuoi giovani, oppure startene fuori e lasciarli tra tanti strazi?

Sbalordito a questa proposta, risposi:

— Oh, i miei giovani io li amo molto e li voglio tutti salvi. Ma non potremmo fare in modo da non andare là dentro, né io né gli altri?

— Eh — mi rispose la Guida —, sei ancora in tempo, e lo sono essi pure, purché tu faccia tutto quello che puoi.

Il mio cuore si allargò e dissi subito:

— Poco importa il lavorare, purché io possa liberare da quei tormenti questi miei cari figliuoli.

— Dunque vieni dentro — proseguì la Guida.

Mi prese per mano per introdurmi nella caverna. Mi trovai subito in una grande sala con porte di cristallo. Su queste pendevano larghi veli, i quali coprivano altrettanti vani comunicanti con la caverna. La Guida mi indicò uno di quei veli sul quale era scritto: “Sesto Comandamento”, ed esclamò:

— La trasgressione di questo: ecco la causa della rovina eterna di tanti giovani.

— Ma non si sono confessati?

— Si sono confessati, ma le colpe contro la purezza le hanno confessate male o le hanno taciute affatto. Vi sono di quelli che ne hanno commesso una nella fanciullezza ed ebbero sempre vergogna a confessarla; altri non ebbero il dolore e il proponimento. Anzi taluni, invece di far l’esame, studiavano il modo di ingannare il confessore. E ora vuoi vedere perché la misericordia di Dio ti ha condotto qui? Alzò il velo e io vidi un gruppo di giovani dell’Oratorio che conoscevo, condannati per quella colpa. Fra essi ce n’erano di quelli che ora tengono buona condotta.

— Che cosa devo dir loro per aiutarli a salvarsi?

— Predica dappertutto contro l’impurità.

Vedemmo allo stesso modo altri giovani condannati per altri peccati. Poi la Guida mi fece uscire da quella sala. Attraversato in un attimo quel lungo corridoio d’entrata, prima di lasciare la soglia dell’ultima porta di bronzo, si volse di nuovo a me ed esclamò:

— Adesso che hai veduto i tormenti degli altri, bisogna che anche tu provi un poco l’inferno. Prova a toccare questa muraglia. Io non ne avevo il coraggio e volevo allontanarmi, ma egli mi trattenne dicendo:

— Eppure bisogna che tu provi!

Mi afferrò risolutamente il braccio e mi trasse vicino al muro continuando a dire:

— Una volta sola toccala, almeno per poter capire che cosa sarà dell’ultima muraglia, se così terribile è la prima. Vedi questo muro? È il millesimo prima di giungere dov’è il vero fuoco dell’inferno. Sono mille i muri che lo circondano. Ogni muro è di mille misure di spessore e distano l’uno dall’altro mille miglia; è distante quindi un milione di miglia dal vero fuoco dell’inferno, e per ciò è un minimo principio dell’inferno stesso.

Ciò detto, afferrò la mia mano, l’aperse per forza e me la fece battere sulla pietra di quest’ultimo millesimo muro. In quell’istante sentii un bruciore così intenso e doloroso che, balzando indietro e mandando un fortissimo grido, mi svegliai.

Mi trovai seduto sul letto, e sembrandomi che la mia mano mi bruciasse, la stropicciavo con l’altra per far passare quella sensazione. Fattosi giorno, osservai che la mano era realmente gonfia e in seguito la pelle della palma della mano si staccò e si cambiò».

Don Bosco concluse: «Notate che io non vi ho detto queste cose in tutto il loro orrore, nel modo come le vidi e come mi fecero impressione, per non spaventarvi troppo. Per più notti in appresso non ho più potuto addormentarmi a causa dello spavento provato». C’è chi, per non urtare la sensibilità moderna, fa del Vangelo un ‘antologia dolciastra, scegliendo i passi da cui risulta la bontà infinita di Dio ed eliminando quelli che parlano della sua giustizia, pure infinita. Ma « Cristo ieri, oggi e nei secoli». E Gesù non ha fatto così; la Madonna a Fatima non ha fatto così; Don Bosco non ha fatto così. Lo Spirito Santo presenta i «Novissimi» come efficace antidoto contro il peccato: «Ricorda le tue ultime realtà (morte, giudizio, inferno, paradiso), e non peccherai in eterno » (Siracide 7,36).

S. Veronica Giuliani (1660-1727)

“In un tratto, mi trovai in un luogo oscuro, profondo e puzzolente; vi sentii urli di tori, ragli di asini, ruggiti di leoni, fischi di serpi, confusioni di voci spaventevoli, e tuoni grandi che apportavano terrore e spaventi. Vidi anche lampi di fuoco e fumo densissimo. Adagio! ancora non è niente.

Mi Parve di vedere una grande montagna tutta coperta di vipere, di serpi e di basilischi intrecciati insieme; non si riconosceva l’uno dall’altro, ed in quantità senza numero. Sentendo, sotto di questi, maledizioni e voci spaventevoli, rivolta ai miei Angeli, domandai loro che cosa fossero quelle voci; ed essi mi dissero che ivi stavano tormentate molte anime e che il detto luogo era il più refrigerante. Infatti si aprì, in un subito, quel gran monte, e parvemi vederlo tutto pieno di anime e di demoni! In tanto numero! Stavano quelle anime attaccate insieme come se fossero una cosa sola; ed i demoni le tengono così legate, con catene di fuoco, a se stessi, che anime e demoni sono una cosa stessa, e ciascun anima ha tanti demoni addosso, che appena si discerne. Il modo nel quale le ho vedute non posso descriverlo; solo ho detto così per farmi capire, ma non dico niente di quello che è.

Fui trasportata ad un altro monte ove stavano tori e cavalli sfrenati i quali parevami che stessero mordendo come tanti cani arrabbiati. A questi animali veniva fuoco dagli occhi, dalla bocca e dal naso; i loro denti parevano acutissime lande e spade taglienti che, in un tratto, riducevano in pezzi, in niente tutto ciò che veniva loro in bocca; e compresi che mordevano e divoravano anime. Che stridi e che terrore rendevano! Non si fermavano mai, e capii che durano sempre così. Vidi poi altri monti con tormenti più spietati; ma è impossibile descriverli, e mente umana non potrà mai, mai capirli.

In mezzo a questo luogo, vi è un trono altissimo, larghissimo, bruttissimo e composto tutto dei demoni! Più spaventevoli dell’inferno; e nel mezzo di esso vi è una sedia formata di demoni, i capi ed i principali. Quivi sta a sedere Lucifero, spaventevole, orrendo. O Dio! Che brutta figura! Passa in bruttezza, tutti gli altri demoni; sembra che abbia un capo formato di cento capi, e che sia pieno di spuntoni ben lunghi, in cima di ciascuno dei quali vi è come un occhio, grande come un capo di bue, che manda saette infuocate che bruciano tutto l’inferno.

E con tutto ché questo sia un luogo così grande, e con tanti e tanti milioni di anime e di demoni, tutti vedono questa vista svelatamente, e tutti hanno tormenti sopra tormenti dal medesimo Lucifero. Esso vede tutti e tutti vedono Lui.

Qui i miei Angeli mi fecero capire che, siccome, in Paradiso, la vista di Dio, a faccia a faccia, rende beati e contenti tutti i Comprensori, così, nell’inferno, la brutta faccia di Lucifero, di questo mostro infernale, è di tormento a tutte le anime. Vedono tutte, a faccia a faccia il Nemico di Dio; ed avendo perduto Iddio per sempre, ed il non averlo mai, mai a godere, forma la pena. Lucifero l’ha in sé, e da lui si spicca in modo, che la partecipano tutti i dannati. Esso bestemmia e tutti bestemmiano; esso maledice e tutti maledicono; esso tormenta, e tutti tormentano.

E per quanto sarà questo? domandai ai miei Angeli; ed essi mi risposero: Per sempre, per tutta l’eternità. O Dio! Non posso dire niente; di quello che ho appreso e compreso; con parole, non se ne dice niente. Qui, in un subito, mi fecero vedere il cuscino che stava nella sedia di Lucifero, ove esso sta assiso in quel trono. Era l’anima di Giuda. Anche sotto i piedi dell’istesso Lucifero vi era un cuscino ben grande, tutto lacero e tutto segni. Mi fu fatto capire che queste erano anime di Religiosi; ed apertosi esso trono, parvemi vedere, fra quei demoni che stavano sotto la sedia, una grande quantità di anime. Allora chiesi ai miei Angeli: E chi sono queste? ed essi mi dissero che erano di Prelati, di Capi della Chiesa, e di Superiori di Religione.

O Dio! Ciascuna anima patisce, in un tratto, tutto ciò che patiscono le anime degli altri dannati; e parevami comprendere che la mia andata colà fu di tormento a tutti i demoni! ed a tutte le anime dell’inferno. Io credo però, che non solo mi accompagnassero i miei Angeli, ma ancora mi accompagnasse incognitamente la mia cara Mamma, Maria Santissima, perché, senza di lei, sarei morta di puro spavento. Non dico altro; tanto non posso dir niente. Tutto quello che ho detto è un nulla, e tutto quello che ho sentito dire dai predicatori è un nulla. L’inferno non si capisce, né mai si può apprendere l’acerbità delle sue pene e dei suoi tormenti. Questa vista mi ha fatto molto buono, con farmi risolvere daddovero a staccarmi da tutto, ed a fare le mie operazioni con più perfezione essendo io così trascurata. Nell’inferno vi è il luogo per tutti, e vi è il mio ancora, se non muto vita. Sia tutto a gloria di Dio, secondo la volontà di Dio, per Dio, con Dio!”.

Beato Antonio Baldinucci (1665-1717)

Fu figlio di Filippo Baldinucci, Accademico della Crusca. Antonio era piccolo di statura e di salute cagionevole, ma volle seguire ugualmente l’esempio di due dei suoi fratelli, l’uno sacerdote secolare e l’altro frate domenicano: all’età di sedici anni entrò come novizio nella Compagnia di Gesù.

A Roma studiò filosofia e teologia e volle seguire l’esempio di san Luigi Gonzaga e san Giovanni Berchmans. Fu ordinato sacerdote e fu destinato, secondo il suo desiderio, alle missioni ma, non avendo potuto ottenere le missioni delle Indie e dell’America, svolse la sua opera di apostolato nelle missioni italiane.

Nel settembre del 1697 fu inviato a Frascati, nella residenza dei missionari e, in questa città e nelle zone ad essa vicine, fece opera di evangelizzazione per circa venti anni. A Frascati sorse per sua opera il Conservatorio delle Maestre Pie.

Durante un’epidemia di tipo influenzale si prodigò con cure agli infermi. Morì a Pofi, diocesi di Veroli, il 7 novembre 1717. Antonio Baldinucci fu beatificato il 16 aprile 1893 da papa Leone XIII ed è considerato il protettore contro le epidemie.

Nel libro “Vita del B. Antonio Baldinucci” di P. Pietro Vannucci della Compagnia di Gesù, nato nel 1825 e morto nel 1892 si riporta: “Il Beato Antonio Baldinucci nella prima decade del mese di aprile del 1706, tenne un corso di Sacrate Missioni nel castello di Giuliano. Il 12 aprile, ultimo giorno, invitò la popolazione ad una processione di penitenza nella chiesa della Madonna della Consolazione. Tutti giunti nel luogo, essendo la chiesa insufficiente a contenere la massa del popolo, si raccolsero dinanzi la chiesa, dove era un largo spazio circondato di alberi di olmi. Il Beato, salito su di un tavolino iniziò la sua predica intorno alla misericordia di Dio. Diceva che grande è la misericordia Divina, ma che non bisogna abusarne, per non incorrere nei castighi della sua tremenda giustizia. Molte sono le anime che precipitano all’inferno perché profittano della misericordia di Dio”. “Volete voi vederne un esempio? Guardate! Come da quest’albero cascano ora le foglie, così cadono le anime all’inferno per abusare della misericordia di Dio”. Così avendo detto, subito cominciarono a precipitare le foglie, finché il Beato per calmare lo spavento dei presenti non disse a voce alta: “Basta!” fu tanta la commozione del popolo che tutti piangevano e gridavano misericordia a Dio”. Il fatto è ricordato in una grande tela esposta nella Cappella del Pontificio Collegio regionale di Anagni e in un quadro, dipinto da Aurelio Mariani, esposto nella Cappella di Rifugio a Norma.