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martedì 25 ottobre 2022

Don Alfredo Morselli: "Riforma nella continuità. Le ermeneutiche di Benedetto XVI"

Riceviamo dall'amico don Alfredo Morselli e pubblichiamo.
QUI e sotto il video completo della conferenza del recente convegno del 13 ottobre scorso.
Sotto la traccia del testo (anche QUI).
Luigi


Don Alfredo Morselli

Traccia della conferenza tenuta il 13 ottobre 2022, nell’abito del convegno on line “Il Concilio Vaticano II. Dai frutti lo riconosceremo”

Ave Maria! Cari fratelli, mi è stato chiesto di parlare circa le Ermeneutiche di Benedetto XVI, con riferimento al suo discorso tenuto alla Curia romana, il 22 dicembre 2005 (quasi 17 anni fa)[1]: Benedetto XVI, a 40 anni dalla chiusura del Concilio, si chiedeva i motivi di una certa crisi postconciliare.

Citando San Basilio, il Pontefice, ora emerito ma allora regnante, diceva: “il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede…”.

Il Pontefice, volendo riflettere su tutto questo, si chiedeva: “Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile?”

Teniamo conto che quella situazione, confronto ad oggi, era rosea; rispetto alla crisi postconciliare, descritta da Benedetto XVI, oggi abbiamo clamori ininterrotti ben più gravi che falsano “per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede”.

Ne traccio un elenco sommario:Amoris laetitia: favorisce la negazione assoluti morali e lo sdoganamento dell’adulterio.
Sovvertendo i suddetti principi, non può che crollare anche Humanae Vitae
L’inter-comunione è pure sdoganata.
La benedizione delle coppie omosessuali, pur condannaa dalla CdF, praticate di fatto e in Belgio pure di diritto[2]: Il cardinale Jozef De Kesel con i vescovi fiamminghi, ossia i presuli del Belgio di lingua olandese, hanno pubblicato, il 20 settenbre 2022, una liturgia che prevede la benedizione delle coppie omosessuali.
La guerra contro la S. Messa tridentina e l’astio verso i cosiddetti “tradizionalisti”.

Francesco ha recentemente affermato: “la tradizione è la fede viva dei morti, il tradizionalismo è la fede morta di alcuni vivi”[3]

Il problema non è la fede morta di alcuni vivi, ma la falsa fede degli zombi, delle eresie degli eretici morti che riescono dalle tombe… Giansenio, Berengario, Lutero…

Quando si dice, ad esempio, che sono leciti rapporti adulterini “quando non si può fare altro”, vien riesumata la concupiscenza invincibile di Giansenio: quando si die che ci vive in stato di peccato può crescere in grazia, abbiamo la giustificazione estrinseca forense di Lutero, il suo simul iustus et peccator.

Ps 9,18 “Tornino gli empi negli inferi, tutti i popoli che dimenticano Dio”.

Il Papa dice ancora: “l’indietrismo è andare indietro due passi perché è meglio il sempre si è fatto così”

È forse sbagliato dire: “Come era bella Roma prima che arrivassero i Lanzichenecchi” o “Come erano belli Palestrina Victoria, Perosi, Bertolucci…” Sap 4,16 “Il giusto defunto condanna gli empi ancora in vita”.

Abbiamo ancora:Vescovi che ammiccano con la Massoneria
Crollo delle vocazioni…

Ma torniamo indietro, quando le cose andavano già molto male, ma sempre meno di adesso, Benedetto XVI si chiedeva: “Di chi la colpa di tutto questo? Allora, lo stesso Pontefice diede questa risposta: è tutto colpa di una interpretazione sbagliata, di una recezione sbagliata del Concilio. Riporto i brani del discorso in cui egli esplicita i suddetti concetti:

“Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione.

I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro.

L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti.

Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna.

Dall’altra parte c’è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino”.

“L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l’unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità”.

A questo punto dobbiamo farci un’altra domanda: tutta questa tragedia, è tutta e solo colpa di una interpretazione?

Ne tentativo di dare una risposta, io che difendo energicamente questa tesi – pur con ampi distinguo – mi trovo tra Scilla e Cariddi.

Perché da una parte mi ritrovo l’ermeneutica trionfalista rottura: gli empi trionfanti del salmo 94,3: “Fino a quando gli empi, Signore, fino a quando gli empi trionferanno?”, finalmente, è tutta un’altra ecclesiologia… tutta un’altra Chiesa… Lo stesso odio verso la Messa Tridentina è dovuto al fatto che dietro quest’ultima ci sarebbe tutta un’altra ecclesiologia… Il Concilio è visto come una linea di confine: la storia della Chiesa vista come divisa tra prima e dopo il Concilio… però non il Concilio dei testi… come dice il Papa etc. In questo contesto, Francesco è visto come il Profeta di questa vera realizzazione; se non che, molti progressisti rimangono delusi, ad esempio per lo stop al clero uxorato… perché poi lo Spirito Santo esiste…

Dall’altra mi ritrovo davanti a un uditorio talmente scioccato e incredulo, che mi dice, di fronte alle rovine: “Ma quale continuità!?” E avvalora la rottura: cioè, da una parte c’è chi dice: “Che bello è cambiato tutto”, dall’altra: “Che brutto è cambiato tutto”; in mezzo Benedetto XVI che dice che in sostanza non è cambiato nulla e che è tutta una questione di ermeneutica.

Entrambe le posizioni dicono, chi con gioia, chi con dolore “È cambiato tutto… Dopo il Concilio la Chiesa è tutta un’alta cosa”.

Chi dei tre ha ragione? Benedetto XVI, gli ultraconciliaristi, gli ultratradizionalisti?

Proverò ora a rispondere a questa domanda.

Chiediamoci dapprima che cos’è l’ermeneutica: essa è un processo conoscitivo, una più profonda conoscenza contestualizzata di una certa realtà: e siccome siamo tomisti, la verità, oggetto della conoscenza, è sì nell’intelletto, ma dipende dal reale: la conoscenza è cioè intenzionale, non si ferma nella mente e non dipende in ultima analisi da essa, ma tende a, tocca, attinge, corrisponde a, il reale. L’intelletto e la cosa conosciuta si adeguano in ciò che noi chiamiamo la verità (veritas est adaequatio rei et intellectus).

Quindi l’ermeneutica della continuità, cioè la vera e più profonda conoscenza contestualizzata della continuità, vale tanto quando la continuità esiste fuori dalla mente, realiter.

La realtà della continuità della Chiesa è garantita dalle promesse del salvatore: “Le porte dell’inferno non prevarranno” (Mt 16,18). Se la Chiesa cambiasse natura, cioè se fosse un’altra Chiesa, se fosse diversa da quella fondata da Gesù Cristo su Pietro, la vera Chiesa sarebbe finita.

La continuità è nel mistero della Chiesa, ben prima della sua ermeneutica.

Quindi, la vera ermeneutica della continuità, difficile da farsi, ma possibile con l’aiuto della grazia, è ritrovare il vero e indefettibile filo conduttore della vita e della fede della Chiesa; si tratta di filo talvolta sottile, mascherato e ricoperto da metastasi, ma mai interrotto nella sua oggettiva continuità.

Dette brutture non sono causate solo dai nemici esterni della Chiesa (i persecutori), ma anche da nemici interni, che hanno tramato e lavorato a partire dal giansenismo, e si sono passati – attraverso i secoli, in una diabolica staffetta – il testimone del processo di autodemolizione.

Questo processo, quindi, non è cominciato soltanto durante e dopo il Concilio, ma ha radici storiche più antiche.

E ora tocco il secondo argomento in difesa della continuità della vita della Chiesa di cui fare l’ermeneutica.

Molti, che negano la possibilità di questa ermeneutica, compiono un errore logico chiamato post hoc ergo de hoc: cioè: visto che questa crisi – mai vista prima – è cominciata dopo il Concilio e prosegue la sua corsa in nome del Concilio, allora è dovuta al Concilio, è un suo frutto. Quello che c’è dopo è causato da ciò che c’è prima; ciò può essere vero, ma non è detto che sia così necessariamente.

Si tratta di un modo semplicistico di ragionare e storicamente falso: perché se fosse così, ragionando negli stessi termini brutali, siccome il Concilio è venuto subito dopo l’epoca di Pio XII, allora il Concilio sarebbe colpa di Pio XII; e, sempre se fosse così, io non vorrei assolutamente tornare a prima del Concilio, perché altrimenti, sempre ragionando malamente in questo modo, “Risuccedono il Concilio e il post-Concilio”.

E così, per alcuni, la soluzione della crisi sarebbe sostanzialmente una sorta di ortodossia cattolica: come gli Ortodossi riconoscono i primi sette concili, noi ne riconosciamo 20, ci fermiamo al Vaticano I. E tutto si risolverebbe ritornando a dire solo la Messa di San Pio V: “Riconsacriamo tutti i tabernacoli, e per non saper né leggere né scrivere, e ricominciamo dal 1960”.

Praticamente, questa visione assomiglia alla canzone “Bella ciao”: “Una mattina, mi son svegliato, ed ho trovato l’invasore modernista”.

Facciamoci alcune domande: i Vescovi che hanno fatto il Concilio nella stragrande maggioranza, da chi sono stati nominati, e i Cardinali da chi sono stati eletti? Da Pio XII. I teologi periti del concilio, i ghost writer dei documenti, dove hanno studiato: nelle università cattoliche ed ecclesiastiche prima del Concilio; Che Messa dicevano? Tutti i periti, Vescovi etc. tutti dicevano la Messa di San Pio V.

I nemici della Madonna, in Concilio, quelli che hanno impedito le definizioni dei dogmi della Mediazione universale e della Corredenzione, definizioni già mature dopo l’enciclicca Ad caeli Reginam di Pio XII, dove e quando hanno studiato e da chi sono stati ordinati e promossi?

Certamente Pio XII ha provato a condannare gli errori del movimento liturgico, della Nouvelle Théologie, della Nuova morale (l’etica della situazione): ma non c’era riuscito. Perché? Perché c’era già una rete sommersa di modernisti, che prima del concilio faceva il bello e il cattivo tempo. E Pio XII lavorava con P. Garrigou Lagrange e aveva fior di collaboratori.

Nel 1937, usciva il libro Une école de théologie: Le Saulchoir, del domenicano Marie-Dominique Chenu (1895-1990); il Sant’Uffizio, con decreto del 4 febbraio 1942, lo mise all’Indice dei libri proibiti e l’autore si sottomise.

Quando, nel 1942, apparve la condanna del Sant’Uffizio, l’arcivescovo di Parigi, il cardinal Suhard, ricevette p. Chenu e gli disse: «Non si preoccupi, petit père (cosi lo chiamava); tra vent’anni parleranno tutti come lei»[4]. Chi aveva nominato Suhard arcivescovo di Parigi? Non certo Giovanni XXIII o Paolo VI, e nemmeno Francesco.

Quando avvenne la prima benedizione di una convivenza omosessuale? In Olanda, il 26 giugno 1967? Punito o rimosso il prete? No, tutto messo a tacere dal Vescovo, Mons, Jansen, ordinato nel 1956. Questo Vescovo, dove aveva studiato teologia morale? Chi l’aveva ordinato Vescovo?

Vediamo ora la questione del soprannaturale: Qui devo parlare del Cad. De Lubac, un grande teologo, che non è possibile definire modernista. Tuttavia, egli si è fatto promotore di un equivoco che ha prodotto una devastazione; perdonatemi un riassunto brutale, dovuto ai limiti di tempo: “Siccome siamo tutti predestinati in Cristo, e quindi di fatto orientati al fine soprannaturale, senz’altro gratuito, che senso ha parlare ancora di natura pura, e insistere sul fine naturale dell’uomo?”

Questa obiezione fu fatta propria e assecondata anche dalla scuola teologica di Venegono.

Purtroppo, la banalizzazione delle istanze della nouvelle théologie ha prodotto un disastro. De Lubac, ritenendo inutile il concetto di natura pura, ha fornito una base per ogni desacralizzazione futura (di certo non voluta o pensata dallo stesso De Lubac); infatti, se non si salva la natura, realmente e concretamente, non ha più senso parlare di soprannaturale, come non ha senso parlare di un secondo piano se non c’è il primo. Tutto è soprannaturale coincide con tutto è naturale, con esiti, a cui certo De Lubac non pensava e non voleva, logicamente panteistici.

Alcune parole di San Tommaso possono illuminarci su questo punto:

“…dalle differenze di tali beni scaturiscono le differenze dell’amore di Dio verso la creatura. C’è infatti un amore universale, con il quale “egli ama tutte le cose esistenti”, come dice la Scrittura; e in forza di esso viene elargita l’esistenza naturale a tutte le cose create. C’è poi un amore speciale, di cui Dio si serve per innalzare la creatura ragionevole, sopra la condizione della natura, alla partecipazione del bene divino. E in questo ultimo caso si dice che Dio ama una persona in senso assoluto: poiché con questo amore Dio vuole senz’altro alla creatura quel bene eterno, che è lui medesimo”[5].

Quando la Sacrosanctum Concilum descrive l’azione liturgica come sacra per eccellenza (§ 7),vuole indicare che la liturgia è il luogo dove per eccellenza e al massimo grado si sperimenta quell’amore speciale per cui Dio vuole alla creatura ragionevole quel bene eterno che è lui medesimo.

Quando Dio ci sostiene mentre mangiamo, lavoriamo, agiamo, senz’altro Dio ci ama: ma quando Dio ci dona se stesso, ci ama al massimo grado.

Diceva il grande Garrigou-Lagrange, nel tentativo – storicamente vano, ma dottrinalmente perennemente efficacissimo – di fermare gli equivoci della Nouvelle Théologie: “Si non est natura proprie dicta, nec est supernaturale proprie dictum”[6].

Perché dunque una lingua sacra, un canto sacro, dei paramenti sacri, la sacra suppellettile, la balaustra o l’iconostasi delimitante spazio sacro…? Non per tener fuori i laici o per non far loro capire la Messa, ma perché, se la liturgia è la massima espressione dell’amore speciale con cui Dio dona direttamente se stesso, a misteri, frutto di un amore speciale, deve corrispondere, per la verità della cose, una lingua speciale, delle vesti speciali, uno spazio speciale, un canto speciale, dei gesti speciali…

Se dunque non c’è un primo piano forte e robusto, non ci può essere un vero secondo piano, ma tutto si riduce a a un unico piano, per cui ala fine tutto e sacro, oppure non esiste il sacro perché è già sacro il profano: lingua Sacra, vesti sacre, musica sacra… tutto svanisce, non ce ne è bisogno, perché aggiungi un posto a tavola è già qualcosa di sacro, e le nostre cattedrali si riducono a ristoranti, dove lo chef o il maître de salle è lo stesso Vescovo.

E da qui vengono pure gli errori di K. Rahner, tra cui la nefasta teoria del cristianesimo anonimo, per cui tutti sono cristiani senza saperlo: perché se sono tutti ordinati necessariamente al fine soprannaturale (questo stato viene chiamato da Rahner l’esistenziale soprannaturarle), che è Dio, lo sono tutti anche se non lo sanno.

Ed ora diamo un’occhiata alla cosiddetta Mafia di San Gallo, un gruppo di Cardinali che avrebbe influenzato le dimissioni di Benedetto XVI e l’elezione di Bergoglio (il che non è vero).

Le dimissioni di Benedetto XVI sono un frutto del post-concilio? No, le aveva già profetizzate Antonio Fogazzaro (1842-1911), forse il massimo genio del modernismo italiano: Antonio Fogazzaro, nel romanzo Il santo (1905), ha creato personaggio chiave, Don Clemente; egli risponde a timorose obiezioni a un’offensiva modernista dicendo non si dovrà temere che il Pescatore (S. Pio X, un Papa) possa infilzare un pesciolino modernista, perché verrà il giorno in cui il pescatore si accorgerà che in quell’arpione ci saranno vescovi e cardinali, e allora l’arpione gli cadrà di mano[7].

E l’elezione di Bergoglio, è stata influenzata dalla Mafia di San Gallo? Sarebbe forse la prima volta, anche se fosse vero[8], che soggetti modernisti provano ad influenzare un conclave?

Don Brizio Casciola (1871-1957), sacerdote modernista, che ebbe una influenza spropositata rispetto al suo valore culturale, scrisse, subito dopo la morte di San Pio X, una lettera ai Cardinali, il cui succo è “Non eleggete un altro come lui”[9]. Ed è stato ascoltato. La lettera fu scritta il 25 agosto 1915, San Pio X era morto il 20 agosto, appena quattro giorni prima.

E così, da un lato venne sospesa la lotta contro il modernismo, ritenuto ormai sconfitto: Benedetto XV sciolse il Sodalitium Pianum, associazione riconosciuta e approvata da San Pio X e che lo aiutava nella lotta contro il modernismo; di conseguneza, il movimento ereticale poté lavorare sotto traccia, come i modernisti avevano ben chiaro. Scriveva George Tyrrel, gesuita irlandese,modernista, espulso dall’ordine e scomunicato ma, pare, morto riconciliato (1861-1909):

“Quando mi guardo attorno, sono condotto a pensare che questa onda della resistenza modernista sia giunta al limite delle sue forze e abbia dato tutto quel che poteva dare per il momento. Dobbiamo aspettare il giorno in cui, attraverso un lavoro silenzioso e segreto, avremo guadagnato una ben più grande parte dell’armata della Chiesa alla causa della Libertà“[10].

San Pio X era ben conscio che la sua eroica lotta contro il modernismo non era ancora conclusa, e che persino alcuni Vescovi si erano lasciati sedurre dall’eresia: nel suo ultimo discorso rivolto ai cardinali durante il Concistoro, del 27 maggio 1914[11], disse:

“Non è nuovo l’incontrarsi in persone, che mettono fuori dubbi, e incertezze sulle verità e anche affermazioni ostinate sopra errori manifesti, cento volte condannati, e ciò nonostante si persuadono di non essersi mai allontanate dalla Chiesa, perché qualche volta hanno eseguite le pratiche cristiane. Oh! quanti naviganti, quanti piloti, e, Dio non voglia, quanti capitani facendo fidanza con le novità profane e con la scienza bugiarda del tempo, anziché arrivare al porto, hanno fatto naufragio!”

L’ermeneutica della rottura c’era già molto prima che Benedetto XVI la segnalasse; diceva San Pio X, nel succitato discorso:

“Fra tanti pericoli, in ogni contingenza, non ho mancato di far sentire la mia voce per richiamare gli erranti, per segnalare i danni, e per tracciare ai cattolici la via da seguire: Ma non sempre, né da tutti fu bene intesa e interpretata la mia parola, quantunque chiara e precisa. Anzi non pochi, seguendo l’esempio funesto degli avversari, che spargono zizzania nel campo del Signore per portarvi la confusione e il disordine, non si peritarono di darle arbitrarie interpretazioni, attribuendole un significato affatto contrario a quello voluto dal Papa e ritenendo come sanzione il prudente silenzio”.

E Joseph Ratzinger, nel 1985, dichiarava, da Prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede:

“Resto ogni volta meravigliato dall’abilità di teologi che riescono a sostenere l’esatto contrario di ciò che sta scritto in chiari documenti del Magistero. Eppure quel rovesciamento è presentato, con abili artifici dialettici, come il significato “vero” del documento in questione”[12].

Da dove nasce l’ermeneutica della rottura? Cioè, qual è l’origine del travisamento del Magistero? Il Salmo 36,4 ci offre la soluzione: “Le sue parole sono cattiveria e inganno, rifiuta di capire per compiere il bene”[13]. Abbiamo detto che l’ermeneutica è una conoscenza, e ogni conoscenza dipende dalla volontà: per capire bene, bisogna volere bene, e come dice la saggezza popolare, “non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire”.

Il Vaticano II ha potuto essere interpretato male non tanto per difetti in sé, che pure ci sono[14], ma perché c’era già un corpo sociale ecclesiale di clero e intellighenzia pseudo-cattolica che era pronto e non aspettava altro che poter distorcere e rigirare a suo piacimento i testi conciliari.

Un piromane che incendia una foresta non incendia tutti gli alberi, ma ne accende alcuni nei punti strategici e si fa aiutare dal vento: Diceva San Paolo a Timoteo “Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie…” (2 Tim 4,3).

E il corpo ecclesiale si circondò, durante e dopo il Concilio, di maestri secondo le sue voglie. È impossibile pensare che improvvisamente tutti i seminari rivoluzionassero la disciplina e l’insegnamento, che gli ordini religiosi abbandonassero la regola, che i cosiddetti cristiani per il socialismo fossero eletti nelle liste del PCI, che i cattolici per il no all’abrogazione della legge sul divorzio, tra cui Bausola e Carretto, trovassero spazio in tutti i media. Certamente don Giuseppe Dossetti e Raniero La Valle proponevano il Concilio a modo loro, dalle pagine dell’Avvenire d’Italia e dell’Osservatore romano, ma c’era tutto un mondo che voleva sentirselo raccontare così.

E i buoni rimasero sorpresi, impauriti, non sapevano dove sbattere la testa. Ma qui sarà compito dei futuri storiografi compiere una approfondita analisi.

Detto questo, alla fine, proviamo a rispondere alla domanda iniziale: che cosa è dunque questa benedetta ermeneutica della riforma e della continuità?

Ermeneutica della riforma:

La santità della Chiesa c’è già in Cielo perfettamente, in Purgatorio un po’ meno perfettamente; poi c’è una santità presente in molti membri della Chiesa militante: ecco, questa santità si deve estendere sempre a un maggior numero di membri della Chiesa militante, fino a che gli Angeli non grideranno “La sua sposa è pronta”. Questa è la vera riforma. Ecco la Chiesa sancta et semper reformanda

Ermeneutica della continuità:

Darò una definizione concreta, esistenziale pratica: immagino che i fedeli mi chiedano “Padre, in conclusione, che cosa dobbiamo fare, in tutta questa confusione?

Credo che la risposta l’abbia data Benedetto XVI, nell’omelia nella S. Messa per l’apertura dell’anno della fede, 11 ottobre 2012. Ne estraggo alcuni concetti:

“Che cosa significasse una vita, un mondo senza Dio, al tempo del Concilio lo si poteva già sapere da alcune pagine tragiche della storia, ma ora purtroppo lo vediamo ogni giorno intorno a noi. È il vuoto che si è diffuso. Ma è proprio a partire dall’esperienza di questo deserto, da questo vuoto che possiamo nuovamente scoprire la gioia di credere, la sua importanza vitale per noi uomini e donne. Nel deserto si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del senso ultimo della vita. E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indicano la via verso la Terra promessa e così tengono desta la speranza. La fede vissuta apre il cuore alla Grazia di Dio che libera dal pessimismo. Oggi più che mai evangelizzare vuol dire testimoniare una vita nuova, trasformata da Dio, e così indicare la strada. La prima Lettura ci ha parlato della sapienza del viaggiatore (cfr Sir 34,9-13): il viaggio è metafora della vita, e il sapiente viaggiatore è colui che ha appreso l’arte di vivere e la può condividere con i fratelli – come avviene ai pellegrini lungo il Cammino di Santiago, o sulle altre Vie che non a caso sono tornate in auge in questi anni. Come mai tante persone oggi sentono il bisogno di fare questi cammini? Non è forse perché qui trovano, o almeno intuiscono il senso del nostro essere al mondo? Ecco allora come possiamo raffigurare questo Anno della fede: un pellegrinaggio nei deserti del mondo contemporaneo, in cui portare con sé solo ciò che è essenziale: non bastone, né sacca, né pane, né denaro, non due tuniche – come dice il Signore agli Apostoli inviandoli in missione (cfr Lc 9,3), ma il Vangelo e la fede della Chiesa, di cui i documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II sono luminosa espression, come pure lo è il Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato 20 anni or sono”[15].

Inoltre, con il Motu proprio “Summorum Pontificum”, Benedetto XVI ci ha messo nello zaino anche l’Antico Messale, perché non ci dimentichiamo, mentre attraversiamo il deserto, che cosa è la S. Messa.

Allora attraversiamo fiduciosi il deserto della fede, con lo zaino che il buon Papa emerito ci ha preparato, come una mamma che prepara la cartella al figlioletto che va a scuola, mettendoci dentro tutto il necessario, dai libri alla merenda. Manteniamo la fede della Chiesa, concretamente conoscibile nel Catechismo della Chiesa Cattolica. Difendiamo la S. Messa più antica, con le unghie con i denti.

Riposiamo nel Cuore Immacolato di Maria, in attesa fervida del suo prossimo immancabile trionfo: e, se in questo viaggio i briganti ci insultano con vari titoli, farisei, pelagiani, lanciatori di pietre, indietristi, e chi più ne ha più ne metta, proprio perché siamo rifugiati nel Cuore immacolato di Maria, il più eccelso frutto della Redenzione (come diceva il Cardinale Caffarra), mentre sentiamo tutti questi insulti, diciamo con il vero San Francesco dei fioretti “Scrivi, frate Leone, questa è perfetta letizia”.

[1] https://tinyurl.com/24rkkm5c

[2] https://www.kerknet.be/sites/default/files/20220920%20PB%20Aanspreekpunt%20-%20Bijlage%201.pdf.

Per approfondimenti vedi https://lanuovabq.it/it/vescovi-fiamminghi-si-a-benedizioni-coppie-gay-usando-amoris-laetitia.

[3] Discorso del Santo Padre Francesco ai membri dell’Associazione italiana dei professori e cultori di liturgia, Sala Clementina Giovedì, 1 settembre 2022.

[4] Cf. Emilio Pannella O.P., «Due maestri in una scuola di teologia: Cordovani e Chenu», Vita sociale 40 (1983) 166-76.

[5] S. Th. Iª-IIae q. 110 a. 1 co.

[6] «De evolutionismo et de distinctione inter ordine naturale et ordine supernaturale», in AA.VV., El evolucionismo en filosofia y en teologia, Barcelona: Juan Flors, 1955, p. 277

[7] “…il giorno in cui quella fantastica fiocina del signor abate Marinier pescasse, attaccati a un filo, laici di grido, preti, frati, vescovi, cardinali fors’anche (come oggi; n.d.r.), quale sarà, ditemi, il pescatore, piccolo o grande, che non lascerà cadere nell’acqua, spaventato, la fiocina e ogni cosa?”; ho consultato l’opera nel formato e-book, 2005/2, digitalizzazione dell’edizione Mondadori 1953, affidabilità buona, p. 24 e 26, grassetto redazionale; testo scaricato da: https://tinyurl.com/y27duqvo.

[8] Dopo aver studiato la questione, non lo credo assolutamente; non è questo il luogo adatto per approfondire. Mi limito a mostrare che, anche se fosse vero, non sarebbe certo la prima volta che una certa corrente progressista o modernista cerca di influenzare un conclave.

[9] Cf. L. Bedeschi, Lettere ai Cardinali di don Brizio, Bologna: EDB, 1970, pp. 118-120.

[10] Lettera a un confidente romano del 24-8-1908, citata da E. Bonaiuti e riportata parzialmente in J. Rivière, «Modernisme», DThC X, col. 2042, grassetto e traduzione redazionali.

[11] Pubblicato in italiano in AAS 28 maggio 1914, anno VI, vol. VI, n. 8 pp. 260-262

[12] Vittorio Messori – Joseph Ratzinger, Rapporto sulla fede, Milano 1985, pp 22-23

[13] Le versione CEI 1974 e 2008 traducono “rifiuta di capire e di compiere il bene”, cioè coordinano i due emistichi anziché considerare il secondo una subordinata finale rispetto al primo. In realtà sia il Testo Masoretico (חָדַ֖ל לְהַשְׂכִּ֣יל לְהֵיטִֽיב), sia la LXX (οὐκ ἐβουλήθη συνιέναι τοῦ ἀγαθῦναι), sia la Vulgata (noluit intelligere ut bene ageret) optano per la quest’ultima soluzione.

[14] E una questione discussa, e so che molti non accettano queste mie conclusioni; ma non posso in questa sede sviluppare l’argomento.

[15] Benedetto XVI, Omelia nella S. Messa per l’apertura dell’anno della fede, 11 ottobre 2012; grassetto redazionale.