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mercoledì 10 novembre 2021

Il Card. Pell: "Cattolico, quindi colpevole. «Benedetto XVI mi scrisse che avrei pagato per questo»"

QUI e QUI altri articoli sull'intervista e sulla lettera di Benedetto XVI a Pell: “Lei ha aiutato la Chiesa cattolica in Australia a uscire da un liberalismo distruttivo, guidandola ancora verso la profondità e la bellezza della fede cattolica… Temo che adesso dovrà pagare anche per la sua incrollabile cattolicità, ma in questo modo sarà molto vicino al Signore”.
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Luigi

404 giorni di carcere per un abuso mai commesso. Il cardinale australiano presenta il suo "Diario di prigionia". «La fede mi ha salvato. L'occidente è nel caos ma la Verità della chiesa "funziona"»
A pagina 149 del suo libro Diario di una prigionia, in cui racconta i suoi 404 giorni passati in carcere da innocente, il cardinale George Pell scrive: «È arrivata anche una misteriosa fotocopia di una lettera dal Vaticano, senza firma. È stata molto incoraggiante, diceva che “in questo momento difficile, per tutto il tempo, le sono rimasto vicino con la mia preghiera e il mio sostegno spirituale”. L’autore si dice dispiaciuto per la mia condanna, poi con mia sorpresa scrive: “Lei ha aiutato la Chiesa cattolica in Australia a uscire da un liberalismo distruttivo, guidandola ancora verso la profondità e la bellezza della fede cattolica… Temo che adesso dovrà pagare anche per la sua incrollabile cattolicità, ma in questo modo sarà molto vicino al Signore”. Ha concluso con la promessa di «una continua vicinanza nella preghiera». Chi fosse l’autore anonimo di quella lettera arrivata nel carcere australiano da San Pietro lo ha rivelato per la prima volta lo stesso Pell, presentando ieri il suo libro: «Adesso posso darvi l’indiscrezione», ha sorriso. «Quella lettera era di Benedetto XVI».

La colpa di Pell: essere un cardinale cattolico

Scortato e coccolato dalla senatrice Paola Binetti, promotrice dell’evento, il cardinale George Pell ha parlato del suo libro nella Sala Nassirya del Senato, a Roma, assieme al suo editore italiano, David Cantagalli, al procuratore della Repubblica di Avellino Domenico Airoma, e a don Antonello Iapicca, missionario itinerante in Giappone. È stato proprio Iapicca a citare la lettera «senza firma» in cui Ratzinger individuava la vera colpa di Pell: non gli abusi sessuali, mai commessi, a danni di minori negli anni Settanta per cui è stato accusato e condannato e da cui è poi stato assolto; ma la sua «incrollabile cattolicità» con cui ha aiutato la Chiesa australiana «a uscire da un liberalismo distruttivo».

«Uomo coraggioso e onesto, ha dato una testimonianza di fede chiara e sincera resistendo all’ingiustizia con una forza come quella dei martiri», ha detto Cantagalli. Pell «Non è stato trattato da presunto innocente, ma da presunto colpevole», ha detto il procuratore Airoma. Il cardinale australiano è «colpevole non di avere commesso un fatto che non ha commesso, ma è colpevole per quel che è ed è stato: un cardinale appunto, una figura apicale della Chiesa cattolica, il rappresentante di una morale, con l’aggravante di essere visto come un conservatore». È la sua storia a condannarlo agli occhi del mondo, dice il magistrato. «Che funzione ha avuto questo processo? Non di accertare un fatto e una responsabilità, ma di sanzionare un modo di essere e pensare. Ha avuto una funzione moralizzatrice, di riparazione culturale» contro la Chiesa. I suoi accusatori non hanno però fatto i conti «con il suo spirito combattivo e la sua fede. Sul banco degli imputati non c’era soltanto Pell: c’era la Chiesa, quel che rimane di una idea grande di civiltà. Nel suo libro il cardinale scrive: “Molti di noi ambiscono a una vita tranquilla, alcuni non riescono a conseguirla, ciascuno però deve scegliere da che parte stare. Non si può evitare di combattere”. Lui ha combattuto. E vinto».

L’isolamento accanto a terroristi e assassini

«Non avevo pianificato di scrivere questo diario», ha raccontato l’oggi ottantenne ex arcivescovo di Melbourne e Sydney, un passato da giocatore di football e un fisico ancora imponente accompagnato da uno sguardo serio e profondo. «Non avevo mai pensato di finire in prigione. Io sapevo come era andata, nessun testimone aveva fornito prove corroboranti, il mio accusatore ha cambiato versione ventiquattro volte: sapevo di non potere essere condannato». La condanna invece è arrivata, e con lei 404 giorni di prigionia, un unicum per un pastore della Chiesa in una democrazia occidentale.

Lunghi giorni passati in isolamento, «una cella di 7-8 metri per due, con una finestra senza vetro trasparente da cui la luce del sole penetrava filtrata». Nella sua ala c’erano altri undici condannati in isolamento, di cui «sentivo tutto il giorno le esternazioni piene di angoscia e rabbia». Alcuni erano assassini, altri terroristi. «Avrei voluto aiutarli, non sapevo come. Non potevo celebrare Messa, ma il cappellano veniva a trovarmi ogni settimana: pregavamo insieme, mi ha sostenuto nella preghiera».

Quattromila lettere da tutto il mondo

La fede è stata fondamentale per sopravvivere, dice più volte Pell. Che racconta di come si fosse imposto di scrivere tutti i giorni «dopo l’ultimo pasto che ci servivano, alle 15.30. Il mio scopo era quello di dare un resoconto accurato dell’umile regolarità della vita in prigione. Le autorità sono state clementi e mi hanno lasciato tenere il breviario fin dal primo giorno. Leggendolo cercavo di dare un senso alle sofferenze delle persone buone. Il mio avvocato, un ebreo ateo, mi parlava spesso di Giobbe, e io gli rispondevo che speravo di fare la sua stessa fine, tornare in pace dopo le tribolazioni». Giobbe si lamentava con Dio e di Dio, sottolinea Pell, che ribadisce di avere capito la necessità della preghiera.

«All’inizio recitavo preghiere di mia composizione. Col tempo mi sono accorto che rischiavo di cadere nella banalità e nella ripetizione. Allora pregavo col breviario e con le preghiere che mi inviava chi mi scriveva in carcere». Pell ha ricevuto quattromila lettere da tutto il mondo in poco più di un anno: «Non me ne aspettavo così tante, è stata un’esperienza stimolante ed edificante». Il libro, primo di una serie sul suo calvario giudiziario, è diviso in tre parti: il racconto della vita quotidiana, una seconda parte di riflessioni spirituali «che spero possa essere di aiuto per chi si trova in difficoltà», e una terza parte di «riflessioni sugli eventi contemporanei che mi è piaciuto molto scrivere». Un uomo che non ha paura di giudicare tutto. «Non bisogna smettere di dire cosa si pensa sugli scontri tra la tradizione della Chiesa e l’attualità, il caos che oggi è inflitto all’Occidente: chi spinge per la secolarizzazione è un distruttore».

Una profezia di quello che accadrà?

Nel volume di Pell ci sono tante lettere che ha ricevuto, le umiliazioni patite in cella ma anche l’amicizia nata con tanti del personale carcerario. E c’è soprattutto una fede incrollabile, «fondamentale per la mia sopravvivenza. Nei momenti di sconforto pensavo che Dio ha dato il suo unico figlio che ha patito ed è morto per noi. So che la Giustizia prevarrà, e che tutto concorre al bene. Questo è stato il fondamento della mia prigionia. Ne sono uscito ancora più convinto della Verità: ciò che la Chiesa ha da offrire funziona».

«La vicenda del cardinale Pell è una profezia di quello che succederà nei prossimi anni», ha detto don Iapicca. «Martiri in breve tempo, i cristiani subiranno sempre di più questa persecuzione latente già in atto. Ma la vicenda di Pell è anche una grande consolazione per tutti noi: accettando la croce si è difeso nelle sedi opportune senza mai spendere una parola d’odio per chi lo accusava». Pell «ha sperimentato la solitudine di Cristo sulla croce», ha fatto eco Paola Binetti, «e ricorda a tutti che quella croce non è da escludere nella nostra vita». Grazie a Dio, ha aggiunto il senatore Simone Pillon nel suo saluto finale, «in ultimo la storia non è guidata dal male».

Il perdono di Pell al suo accusatore

Nessuno slogan sulla malagiustizia – «Nessun sistema è perfetto, nemmeno la giustizia australiana» –, nessun sassolino da togliersi dalle scarpe contro chi lo ha abbandonato e ha orchestrato campagne mediatiche contro di lui – «I media sono potenti, lo so, ma io resto a favore della libertà di parola, anche se qualche volta si paga, come nel mio caso. Avevo bravi difensori anche nella stampa. Non voglio nessuna censura, nelle democrazie la libertà di stampa è importante, e penso che serva ad arrivare alla verità» –, nessuna disillusione verso un sistema che nel suo caso ha dimostrato tutti i suoi limiti: «Ringrazio i politici che lottano per la libertà e in difesa della civiltà occidentale. Ho sempre invitato i miei studenti a impegnarsi in politica. Io mi sento fortunato: quando sono stato condannato molti amici mi sono rimasti vicini, e mi hanno aiutato con le spese processuali (e una parte dei ricavi della vendita del libro andrà a coprire quella voce, ndr). Ma penso a quanti innocenti in prigione non hanno invece nessuno».

Ha perdonato il suo accusatore?, gli chiede qualcuno dal pubblico alla fine dell’incontro. «Si decide di perdonare, non ci si sente sempre favorevoli a questo esercizio, ma si decide. E una volta deciso, è come la fede: si deve mantenere questa decisione, non basta una volta. Qualche volta mi sento più arrabbiato, altre volte no, ma il perdono è una decisione della volontà».

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