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domenica 1 agosto 2021

La sacralità liturgica è fondamento di unità #summorumpontificum #traditioniscustodes

Vi proponiamo un interessante contributo di Angelo Pellicioli, coordinatore del Comitato permanente per il Rinnovamento liturgico nella Fede, sulla sacralità nella liturgia, alla luce della lettera apostolica in forma di motu «proprio» «Traditionis custodes».

L.V.


I recenti accadimenti relativi alle restrizioni imposte per la celebrazione della Santa Messa con il Missale Romanum del 1962, ancor prima della ricerca delle effettive ragioni che hanno portato ad un suo drastico ridimensionamento, impongono, ancora una volta, una seria riflessione sulla caratteristica primaria ed essenziale della liturgia: la sacralità.
Se si parte da questo postulato, risulta molto più facile capire quale sia l’essenza stessa della liturgia ed in particolare della celebrazione della Santa Messa e rifuggire, di conseguenza, da ogni polemica o da sterili diatribe.
Qualsiasi divisione tra tradizionalisti e progressisti, in merito alle celebrazioni liturgiche, è infatti destinata a decadere prima ancora di essere presa in seria considerazione se si riconosce in tale sacralità.la peculiare caratteristica della liturgia.
La sacralità, elemento fondante della liturgia  ed intrinseco ad essa, costituisce infatti principio basilare di unità spirituale (e non già di divisione) per i fedeli.
Va rimarcato che, proprio in ossequio a tale principio, Papa Benedetto XVI, attraverso la promulgazione della lettera apostolica «motu proprio data» Summorum Pontificum, ha inteso consegnare a religiosi e laici un valido supporto liturgico, nell’intento di ricomporre le diatribe in essere fra coloro che ritenevano la tradizione liturgica bimillenaria della Chiesa immutabile e coloro che, al contrario, sostenevano che questa risultasse desueta, tanto da dover essere adeguata ai tempi moderni. In buona sostanza, il motu proprio Summorum Pontificum costituiva un preciso richiamo ed un utile ammonimento all’unità dello spirito liturgico, rivolto dal Pontefice allora regnante a religiosi e laici cattolici.
Papa Benedetto XVI, con l’emanazione di tale motu proprio, sanciva quindi la coesistenza paritaria delle due forme del rito romano, considerandole complementari tra loro; ciò affinché ciascun fedele potesse lodare e glorificare Dio nel modo che più gli si confacesse; ovviamente nel pieno rispetto dei dettami impartiti dal Magistero ecclesiale.
Proprio a seguito di tale motu proprio, da una quindicina d’anni a questa parte, i fedeli sensibili della Santa Messa celebrata secondo il Missale Romanum del 1962 hanno potuto così celebrare, nelle chiese poste a loro disposizione dalle curie vescovili, la Santa Messa con il rito cosiddetto «tridentino» o «di San Pio V»  senza essere tacciati di fantomatiche scelte scismatiche.
Con la recente lettera apostolica in forma di motu «proprio» «Traditionis custodes», Papa Francesco ha sorprendentemente inteso cancellare totalmente il motu proprio del suo predecessore, limitando pesantemente le celebrazioni della Santa Messa nella forma antica.
Com’era prevedibile, tale intervento ha subito sortito l’effetto di rinfocolare la vecchia diatriba tra tradizionalisti e progressisti in ambito liturgico, diatriba che si era alquanto pacata a seguito della promulgazione del motu proprio Summorum Pontificum di Papa Benedetto XVI.
Martin Lutero affermava che «se si modifica la liturgia, si modifica tutta una religione». Orbene, sia Claude Lévi-Strauss che Benedetto Croce, alcuni secoli dopo, hanno ribadito in proposito che la modifica di una religione, considerata vero e proprio culto, comporta la modifica di tutta la cultura che si fonda su quel culto.
Il provvedimento di Papa Francesco che riduce ai minimi termini la cosiddetta «Messa in latino» (la quale ha attraversato indenne secoli di storia ecclesiale, contemplando appieno il principio basilare della sacralità liturgica) non abolisce quindi solo un idioma (la lingua latina falsamente considerata ostacolo fondamentale fra il vecchio rito e quello contemporaneo), bensì censura palesemente un diverso modo di celebrare la Santa Messa, la quale, con il vecchio rito, poneva Dio al centro della celebrazione, a differenza del rito attuale che pone al centro l’uomo e la comunità, quest’ultima ribattezzata impropriamente «assemblea» (termine, che induce a pensare più a tribolati raduni condominiali che ad una comunità orante).
Le innovazioni liturgiche degli ultimi cinquant’anni, scaturite meramente da libere quanto errate interpretazioni dei dettami conciliari, fanno correre il serio rischio di modificare persino il Cattolicesimo, inteso nella sua più profonda accezione di Chiesa unica ed universale; con il risultato di rendere la religione cattolica opinabile, frammentaria e cancellando, in tal modo, il principio che «la Verità è una ed una sola» e che essa costituisce l’unica via che conduce l’uomo alla salvezza.
Ora se non si comprende che la sacralità sta alla base di qualsiasi celebrazione liturgica (della quale non costituisce un semplice supporto, bensì l’intera ossatura), si corre il serio rischio di dimenticare di credere in Cristo; con il conseguente risultato di non essere più annoverati quali figli di Dio.
Ma che cos’è effettivamente la sacralità e come si esprime nella celebrazione dei sacri riti? Per dare una risposta a queste due domande occorre rifarci alla celebrazione liturgica per eccellenza: la Santa Messa.
Quello che avviene durante la sua celebrazione rappresenta il «mistero dei misteri». Nella Santa Messa si perviene, attraverso la rivisitazione della passione, morte e risurrezione di Gesù, alla Sua presenza reale sull’altare che si realizza al momento della consacrazione. Con la transustanziazione, infatti, Cristo è vivo sull’altare nell’ostia consacrata. Quindi Gesù, ripetendo ogni volta il suo sacrificio salvifico, per mezzo del sacerdote, scende quotidianamente in mezzo ai fedeli e si dona loro attraverso la somministrazione delle sue Sacre Specie.
Proprio in considerazione di ciò, essendo la Santa Messa il sacrificio per eccellenza, va da sé che la sua celebrazione costituisca il massimo espletamento della sacralità liturgica. Da ciò si può dedurre e argomentare che la sacralità risulta essere elemento fondante ed intrinseco della liturgia della Santa Messa nonché di tutte le altre cerimonie ecclesiali.
Precisato ciò, rimane solo da augurarsi che le celebrazioni secondo il Missale Romanum del 1962 possano proseguire a fianco di quelle postconciliari, così come è avvenuto in questi ultimi quindici anni, nel condiviso riconoscimento della sacralità liturgica che accomuna entrambe.
La discrezione decisoria (quand’anche fissata entro stretti e ben definiti limiti) concessa ai vescovi dal nuovo motu proprio di Papa Francesco dovrebbe essere dai medesimi percepita ed esercitata, nella loro qualità di «pastori d’anime», proprio in funzione del principio basilare della sacralità comune ad entrambi i riti; ciò all’unico scopo di evitare, il più possibile, nuove diatribe ed ulteriori lacerazioni fra i fedeli. E questa è l’ultima cosa di cui si ha bisogno in questi tribolati momenti in cui si dibatte la Chiesa.
Si deve quindi operare sapientemente e saggiamente in ossequio ai desiderata di San Giovanni XXIII, promotore del Concilio Vaticano II e promulgatore del Missale Romanum del 1962, peraltro mai abrogato.
Valgano, in proposito, le ultime parole pronunciate da San Giovanni XXIII sul letto di morte: «ut unum sint».

Angelo Pellicioli

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