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lunedì 22 marzo 2021

MiL celebra il "Dantedì" (1° parte) - Dante e i Papi (#Dantedì #dantealighieri, #dante #sommopoeta)

Tra qualche giorno, il proprio 25 marzo 2021 ricorre il #Dantedì (nel DCC  anniversario dalla morte di Dante Alighieri).
Anche MiL intende celebrare sia il sommo poeta sia l'uomo di fede.
E' indubbio che Dante sia una pietra angolare della cultura  e della lingua italiana (De vulgari eloquentia) e che con la magnificente Comedìa abbia suscitato a sua volta capolavori tanto letterari quanto artistici. La Bellezza pittorica dell'Italia ha per secoli tratto ispirazione dalle tre Cantiche dantesche. 
Ma forse non a tutti è immediatamente evidente che Dante ha contribuito moltissimo, forse inconsapevolmente e indirettamente, a difesa della Fede Cattolcia: la sua geniale raffigurazione dei regni dell'Oltretomba non solo è la somma e la sintesi del sapere del tempo (aristotelismo, platonismo, teologia tomista, astronomia tolemaica, fisica, letteratura sacra e mitologia pagana, cabala, gemmologia, ecc) ma grazie al suo genio (dai gironi infernali, alle visioni paradisiache alle allegorie) ha "razionalizzato, reso accessibile e facilmente rappresentabile la dottrina cattolica tutta. Si potrebbe dire che abbia scritto in versi (14.322 per di più in rima) una sorta di primo catechismo per i fedeli.
Insomma la Divina Commedia è una delle più grandi opere della letteratura universale che potremmo dire "etternamente" durerà. 
Oggi Riproponiamo un corposo e dotto articolo sulla posizione di Dante nei confronti dei Papi: critica mai irriverente. Anche perchè ai tempi si rischiava l'interdetto o la scomunica.
Fieramente "ghibellini".
Nei prossimi giorni di questa settimana dedicata a Dante, presenteremo 
2° parte (23 marzo) - Dante e il nome di Maria Santissima nella Divina Commedia; 
3° parte (24 marzo) - Dante e l'arcangelo Gabriele nella Divina Commedia; 
4° parte (25 marzo) - Dante e l'Annunciazione nella divina Commedia;
5° parte (26 marzo) - Dante e la preghiera alla BMV detta "di San Bernardino";
6° parte (27 marzo) - Dante e il nome di Dio (ovvero i 126 modi con cui Dante chiama Dio nella Divina Commedia). 

Luigi
ps. qui alcuni link sulle iniziative Rai su Dante. 

1 Marzo 2021, Dogma TV

Da quanto abbiamo riportato sin qui dalla Divina Commedia, chiaro apparisce il profondo sentimento religioso del Poeta, il suo cattolicismo, l’esattezza dogmatica delle sue dottrine e via dicendo.
Ciò non vuol dire però, che egli non abbia lasciato più volte correre la penna a bollare con roventi parole e non sempre giustamente, persone di Chiesa, membri di Ordini religiosi, e persino Papi medesimi, criticandone acerbamente le operazioni. Di questi passi danteschi, che non sono però molti, si fecero forti certi moderni interpreti partigiani, inferendone, assai poco logicamente, essere perciò l’Alighieri un acattolico della più bell’acqua; uno spirito insubordinato al giogo sacerdotale; un riformatore, il quale voleva niente meno che la distruzione della Chiesa Cattolica, o almeno della sua forma, mostrandosi egli in più luoghi nemico acerrimo della Curia papale e delle ricchezze ecclesiastiche, ed avendo osato, colla sua vivace fantasia, di mettere nelle bolge d’Inferno più di un Papa, accusati di simonia, di avarizia e simili! E a chi, come saremmo noi, sostiene tuttavia il cattolicismo netto e pretto di lui, domandano baldanzosi: «Dove la sciate i tanti passi della Trilogia, dove il Poeta punge, con dente mordace, ora questo ora quel Pontefice, ora questo o quel monaco, e talvolta tanti ecclesiastici in un sol fascio?

Non è guari difficile la risposta, come si parrà dal presente e dai due seguenti Capitoli. In questo parleremo della maniera, onde Dante nella sua Commedia tratta diversi Pontefici, per conchiudere poi, che nemmeno da questo si può affatto dedurre, che egli sia stato di un punto solo non cattolico. Fu un credente ardito, violento nelle sue espressioni e troppo passionato; inveì, lo ammettiamo, severamente contro i cattivi Pastori della greggia di Cristo, come persone che erano o ch’egli credeva tralignate e malvage, ma l’istituzione della Chiesa e le sue sante dottrine mai toccò, né fece segno a’suoi strali.

È incontestabile, infatti, che non contro i Pontefici, come Pontefici investiti della suprema autorità per l’insegnamento della fede e la difesa della morale, ma contro l’uomo o contro il Principe temporale scaglia l’Alighieri i pungenti suoi motti.

Per quanto si cerchi entro il Poema dantesco, non si troverà una sola espressione, che sia diretta contro i Papi, come capi della cattolica religione. Quanto vi si trova di ostile contro di loro è sempre come persone private; e se come persone pubbliche, ciò è sempre sotto l’aspetto politico o morale, nel senso che il Poeta considerava le loro azioni come esiziali alla religione ed alla Patria, e ne additava il rimedio per il benessere della Chiesa e dello Stato, e non per altro scopo qualunque.

Dante poteva ingannarsi, come si ingannò più volte, sì nelle appreziazioni, come nella proposta dei rimedì, ma il fine a cui tendeva, era buono, e questa è la sua scusa. Da. Più luoghi della Commedia si rileva chiaramente la premura usata da Dante di sceverare ne’ suoi giudizi l’essenziale o il sostanziale dall’accidentale, l’uomo dall’Apostolo, il Principe terreno dal Principe spirituale, biasimando l’uno, rispettando ed obbedendo l’altro. Dimostreremo in seguito che alle invettive di Dante contro persone ecclesiastiche, Papi od altri, non è da dare quel peso, che certuni ad esse danno, e ne porteremo le ragioni con confronti palpabilissimi, che lì non saranno niente affatto odiosi.

Vediamo per ora di quanti e quali Pontefici romani si sia occupato l’Alighieri nella sua Divina Commedia, e in qual modo ne abbia parlato. Diremo dei motivi del suo astio contro certi Pontefici, astio che sino i meno teneri del Papato trovano più d’una volta soverchio.

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Nel Poema dantesco vengono nominati venti Pontefici, dei quali sette furono contemporanei di Dante, due del secolo precedente al suo e undici de’ tempi più antichi. Il Poeta parla male di otto Papi, sette dei quali sono suoi contemporanei, e uno antico (Anastagio), quest’ultimo biasimato, come vedremo, senza ragione alcuna per uno sbaglio storico, in cui incorse l’Alighieri. L’avere l’Alighieri sparlato esclusivamente di Papi, che vivevano ai suoi tempi, e di tali, che, più o meno, offrivano qualche lato debole nella loro condotta sotto aspetto politico o morale, mentre nulla dice di qualche altro, come di Onorio IV (1285-1287), di Nicolò IV (1288-1292) e di Benedetto XI (1303-1304), è un argomento validissimo per dimostrare che Dante non intese di attaccare menomamente la Chiesa né i Papi come Papi, ma le persone sole di essi come meno virtuose di quel che dovevano essere, o come suoi avversarî politici, o come mancipî dei governanti di Francia.

Il Nostro adunque parla con biasimo dei Pontefici seguenti: Anastasio I (398-402), Adriano V (1276), Nicolò III (1277-1280), Martino IV (1281-1285), Celestino V (1294), Bonifazio VIII (1294-1303) Clemente V (1305-1314) e Giovanni XXII (1316-1334).

Ricorda invece con lode gli antichi Papi: Pietro († 67), Lino (67-79), Clemente I (91-100), Sisto (110-128), Pio (141-151), Callisto (218-222), Urbano I (223-230), Silvestro (314-335), Agapito (535-536), Gregorio Magno (590-604); e, de’ più vicini all’epoca sua, Innocenzo (1198-1216) ed Onorio III (1216-1227).

Il Balbo e il Tommaseo trovano strano che Dante non abbia rammentato fra gli antichi papa Leone Magno (440-461), il salvatore d’Italia dalle barbare orde di Attila, e, fra i suoi contemporanei, Benedetto XI (1303-1304), e gliene fanno colpa, come di ingiusta partigianeria. «La colpa di Dante verso i Papi, osserva il Balbo[1], non fu il male che disse di Bonifazio, di Clemente o di Giovanni; fu il bene che non disse di Benedetto buono contemporaneo suo, e massime dei grandi e sommi predecessori di tutti questi (p. es. Gregorio VII, Alessandro III, Innocenzo III e altri), che per compier giustizia avrebbe dovuto».

Dal che ancor si deduce l’ira di Dante essere stata passionata e promossa in buona parte da ragioni di partito.

In ogni modo i Papi da Dante biasimati sono otto, anzi sette soli, se omettiamo papa Anastasio; i lodati sono dodici, tra i quali papa Silvestro (314-335), nonostante la famosa donazione della terra di Roma a lui fatta (secondo la falsa opinione di Dante) da Costantino il Grande, contro la quale rivolge poi il suo strale nella ben nota t. 39 del c. XIX, dell’Inf.

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Prima di riportare gli irosi passi dell’acerbo Poeta, convien ricercare le cause del dispetto di Dante verso alcuni Papi, dispetto che erompe focosamente e stampa un marchio d’infamia in fronte di chi n’è tocco ed offeso. Queste cause sono da ricercarsi nell’epoca in cui visse il Poeta; nei partiti che la dilaniavano; nella fazione da lui seguita in politica; nei non pochi abusi, che, pur troppo, a detta degli storici più accreditati, esistevano allora nella Chiesa Cattolica, o, a dir meglio, nei membri che la rappresentavano; nella traslazione della Sede Apostolica da Roma ad Avignone in Francia, compiuta, per opera di Filippo il Bello, da papa Clemente V nel 1308, che durò fino al 1377, cioè 70 anni, e che viene perciò chiamata dagli scrittori italiani la Cattività di Babilonia. Ecco le ragioni del vindice dispetto di Dante. Diremo qualche cosa più in particolare.

Il secolo in cui visse l’Alighieri, fu, forse più che ogni altro, agitato da lotte intestine nel seno del Bel Paese, l’Italia. Due grandi partiti si contendevano allora il dominio d’Italia e dell’Impero Romano, i Guelfi e i Ghibellini. I Guelfi sostenevano il principio ed il fatto della supremazia del Pontefice di Roma, non solo come capo spirituale, ma eziandio come investito di suprema autorità sopra l’Imperatore, cui poteva innalzare, deprimere, investire o deporre a suo talento; i Ghibellini sostenevano invece il principio della supremazia dell’imperatore nelle cose temporali, invocandone il reggimento di fronte al potere papale. Di qui lotte accanite tra le due fazioni, potenti ambedue, l’una per l’appoggio degli Imperatori tedeschi, l’altra per quello della Sede Romana, della Francia, ecc.; lotte non sempre incruente, ma spesso sanguinose assai e micidiali. Di qui odio profondo tra le due parti, studio indefesso e lavoro non interrotto di soperchiarsi a vicenda, non solo con le armi di acciaio, ma con quelle ancora della parola, della calunnia e della diffamazione. Avea luogo anche a’ quei tempi il noto proverbio: «l’affetto lega l’intelletto[2]» e «affezione accieca ragione!» Ogni provincia, ogni città, quasi ogni villaggio covava nel suo seno i due partiti, germe di perenne discordia; non v’era più unione, né tranquillità, né pace.

Lo confessa Dante medesimo nel Purg. c. VI, t. 26:


Ahi serva Italia, di dolore ostello;
Nave senza nocchiero, in gran tempesta;
Non donna di provincie, ma bordello!

E nella t. 28:


E ora in te non stanno senza guerra
Li vivi tuoi; e l’un l’altro si rode,
Di quei ch’un muro e una fossa serra.

Nello stesso Canto, t. 42, osserva il Poeta:


Chè le terre d’Italia tutte piene
Son di tiranni; e un Marcel diventa
Ogni villan che parteggiando viene.

Firenze, la patria di Dante, era divisa ancor essa in due parti, la Guelfa e la Ghibellina. Gli antichi nobili fiorentini avevano sempre parteggiato per i Guelfi, i quali mettevano l’indipendenza italiana all’ombra della Santa Sede Romana.

Dante, nato a Firenze nel 1265 da nobile famiglia, era dunque Guelfo da principio, e nel 1285 combattè a Campaldino contro i Ghibellini di Arezzo. Ma verso il 1300 i Guelfi di Firenze, partito dominante della città, per ragioni private, si divisero in Bianchi e in Neri. L’Alighieri fu tra i primi, ed ebbe parte nel governo cittadino. I Bianchi però avevano una qualche tinta di ghibellinismo, e per questo e forse ancor per invidia vennero dai Neri messi in sospetto presso papa Bonifazio VIII, capo de’ Guelfi di tutta Italia. Dietro loro richiesta, quel Pontefice mandò a Firenze come paciero Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello, re di Francia. I Bianchi, per difendersi, spedirono tosto alla Curia Papale Dante Alighieri con due altri ambasciatori. Questi ultimi vennero di là licenziati con buone parole, ma Dante fu trattenuto in Roma. Il 1°novembre 1301 entrò in Firenze Carlo di Valois, il quale si mise subito a favorire i Neri, proscrivendo invece i Bianchi, condannandone non pochi all’esilio, alla confisca dei beni, ecc.

Fra questi fu compreso l’Alighieri, imputato di baratteria e di ghibellinismo. Invano tentò il Poeta di rientrare in Firenze; dovette andare esulando qua e là per l’Italia; fu a Parigi, a Pisa e a Lucca presso Uguccione della Faggiuola, a Verona presso Can Grande della Scala e a Ravenna presso Guido Novello da Polenta, ove poi morì il 14 settembre 1321.

Un’altra ragione dell’ira di Dante contro alcuni Papi si ha da ricercare negli abusi e nei disordini introdottisi in quell’epoca nella Curia Romana, disordini ed abusi, che invano si tenterebbe di scusare o di dimostrare come non avvenuti.

Dante attribuì sempre il suo esilio e le sue disavventure alla parte Guelfa, come era anche vero; e siccome della parte Guelfa eran capi e principali sostenitori i Papi di Roma, inde irae contro di loro, in ispecie contro Bonifazio VIII, e speranza invece nella venuta dell’Imperatore e nel riacquisto della dominazione da parte dei Ghibellini.

Non staremo qui a dimostrare quanto sia stata erronea l’opinione di Dante di sperare la salvezza d’Italia dagli Imperatori tedeschi di allora: la storia è contro di lui, e dichiara irragionevole la sua ira contro i Papi del suo tempo come Principi temporali sostenitori del principio e del partito Guelfo mentre furono i Papi, e solo i Papi, quelli che in tutti quei secoli sostennero l’indipendenza dei Comuni italiani contro la prepotenza e il dispotismo degli Imperatori, come diremo più chiaramente nel Capitolo seguente.

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Un’altra ragione dell’ira di Dante contro alcuni Papi si ha da ricercare negli abusi e nei disordini introdottisi in quell’epoca nella Curia Romana, disordini ed abusi, che invano si tenterebbe di scusare o di dimostrare come non avvenuti.

Questi disordini però non ebbero già origine dalle dottrine della Chiesa, che furono ognora santissime, ma dalla fragilità e, diciamolo pure, dalla malizia degli uomini, che in quei tempi furono rivestiti di ecclesiastica autorità. Noi non ci diffonderemo su questo argomento; al nostro scopo basta il sapere che se Dante rivolge alcuna volta l’acuto suo strale contro la simonia, l’avarizia e la corruttela degli ecclesiastici del suo secolo, non ne ebbe per avventura tutto quanto il torto. Avrà forse, nella sua ira, caricato le tinte, esagerando le colpe, ma, del resto, il male c’era, e non si può imputare il Poeta di menzognero o di cattivo cattolico, se lo mise alla berlina. Storici cattolicissimi son là che attestano con documenti questa dolorosa verità: verità, che, se riesce da una parte rincrescevole a un cuore veramente cattolico, serve dall’altra di prova luminosissima della divina istituzione della Chiesa e del Papato, i quali, sebbene diretti da Capi meno degni, mantennero saldo incorrotto il sacro deposito della fede!

«I Papi (così il Balbo [3]) furono uomini e non Angeli: l’opera di tutti insieme è immortalmente meravigliosa; le opere politiche di ognuno, furono, come di uomini, le une buone, altre cattive, altre buone per un rispetto e cattive per l’ altro. Fra il fine del secolo IX, tutto il X e il principio dell’ XI, essendo l’età in che l’elezione del Papa fu più soggetta agli Imperatori, e così più dipendente dalle parti, ella fu pur l’età. dei Papi peggiori, e quindi in tutta la Cristianità dei peggiori ecclesiastici. Ma alla metà dell’XI secolo se ne scandalizzò la Chiesa, se ne scandalizzarono i buoni ecclesiastici. Ne restano irrefragabili documenti gli scritti di S. Pier Damiano; gli scritti e più le opere di Gregorio VII: due Santi diversi, il primo dei quali si ritrasse finalmente a piangere e pregare nella solitudine, il secondo a pregare e combattere e vincere nell’universo mondo contro la simonia dell’elezione papale e delle altre, e contro la corruzione ecclesiastica. Quindi, all’incontro, e ad un tratto, segue per due secoli l’età dei maggiori Papi che sieno stati mai».

Dopo aver osservato che questi Papi, per quanto eccellenti, non resistettero abbastanza agli influssi di straniere potenze, dice il medesimo Autore che i Papi seguenti, dalla metà del secolo XIII in poi, per lungo tratto, divennero alquanto soggetti a potenze minori, a partiti cittadini, iniziando così la funesta piaga del nepotismo, ossia favoritismo verso i parenti.

«Ad ogni modo, alla metà del secolo XIII, portando essi Papi, come gli altri Italiani, la pena di quell’errore comune di non aver compiuta la loro indipendenza, già erano caduti, quasi stanchi, da quella gran potenza propugnata dai tre sommi (Gregorio VII, Alessandro III ed Innocenzo III), ad una potenza minore, simile alle altre italiane, precaria, dipendente dalle parti della Penisola, della Provincia, della città loro. Innocenzo IV, che regnò dal 1243 al 1254, fu l’ultimo di quei grandi, ovvero il primo di quei minori. Uno di questi fu poi Nicolò III, ecc.».

Seconda causa fu questa dell’ira di Dante contro gli ecclesiastici dell’epoca sua, da lui chiamati cupidi, lupi rapaci in veste di pastori (Par. c. XXVII, t. 19), che fattosi Dio dell’oro e dell’argento (lnf. c. XIX, t. 38), attristarono il mondo, calcando i buoni e sollevando i pravi. (I. c. t. 35).

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La terza ed ultima ragione del dispetto di Dante verso i Papi si fu il trasferimento della Corte Romana ad Avignone, trasferimento compiuto da papa Clemente V, sotto l’influsso e per la potenza di Filippo il Bello re di Francia. Clemente V infatti, eletto Pontefice nel 1305, non toccò mai Roma nè Italia. Nel 1308 fissò la sede della sua Corte ad Avignone, e là i Papi susseguenti, eletti da Cardinali francesi, rimasero fino al 1377, finché Gregorio XI (1370-1378), spaventato dalle disastrose conseguenze originate dalla permanenza della Sede Papale ad Avignone, e mosso specialmente dalle preghiere di S. Caterina da Siena, ritornò a Roma colla maggior parte dei Cardinali.

Qual profondo dolore, qual rammarico acutissimo abbiano provato tutti gli italiani di qualunque partito per la traslazione della Sede Romana, ce lo attestano i numerosi documenti di quell’epoca. Prima ancora (e non poco tempo) che Caterina da Siena (nata nel 1347 e morta nel 1380) iniziasse la grande lotta per il ristabilimento della Sede Papale nell’Eterna Città, la quale, dice Dante,


…a voler dir lo vero,
Fu stabilita per lo loco santo
U’ siede il successor del maggior Piero

(lnf. c. I, t. 8).

l’Alighieri aveva scritto in versi ed in prosa contro la Babilonia di Francia, dimostrando un estremo rincrescimento per quel fatto. La Divina Commedia n’è buon testimonio in più luoghi; testimonio chiarissimo la Lettera, ch’egli scrisse ai Cardinali italiani dopo la morte di Clemente V, avvenuta nell’aprile 1314, perché, eleggendo un Pontefice di lor nazione, venisse riportata la Sedia Apostolica a Roma, e si ponesse fine una buona volta ai mali che laceravan la Chiesa e l’Italia.

A maggior conferma di quanto diciamo, ne piace riportare uno squarcio del bellissimo libro del cardinal Alfonso Capecelatro dal titolo – Storia di S. Caterina da Siena e del Papato del suo tempo, – dove il valoroso storico tratta appunto della parte avuta da Dante e Petrarca nella famosa questione del trasporto della Sede Papale da Avignone a Roma. Dice adunque il Capecelatro, al principio del Libro Quinto: «Fra coloro che potentemente volsero l’animo al bene d’Italia nel secolo XIV, io non trovo altri che stiano innanzi all’Alighieri, al Petrarca ed a Caterina da Siena. I quali, o vogliamo guardare la vigoria della mente, onde si misero all’opera, o la non domabile fermezza del proposito, o i lunghi sforzi adoperati, studiaronsi di tutto potere, e più che ciascun altro, a sottrarre il Bel Paese dal pessimo stato, in cui le cupidità, le ambizioni, le ire di molti lo avevano prostrato. I modi usati non furono né poteano essere gli stessi; ma pure in molte parti l’iroso Alighieri ed il soave Cantore di Laura ebbero un medesimo pensiero, ed operarono alla stessa maniera del1’ angelica Caterina. Ciascuno di loro, infatti, guardò col medesimo occhio l’esilio dei Papi in Avignone, e vide nel ritorno del Papato in Roma un mezzo a rendere riverita e gloriosa presso l’universale, la potestà delle somme chiavi ed un principio di salvezza per l’Italia.

«Dante Alighieri, guelfo moderato in patria e lodevole cittadino tra i passeggeri trionfi della libertà fiorentina, sbandeggiato che fu dalla terra natale, diventò per superbia od ira Ghibellino. Fremevano allora più che mai bollenti le passioni negli italiani petti, e l’Alighieri, cominciando a provare


«…sì come sa di sale
Lo pane altrui e com’è duro calle
Lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale»,

(Par. c. XVII, t. 20),

fu in gran parte altro uomo da quel ch’era stato innanzi. L’esilio mutò l’animo del divino Poeta, senza però renderlo mai meno riverente al Cristianesimo ed a’ suoi principi. Grande, ma non irreprensibile esule, cominciò, quando non vide più il sole della sua patria, a flagellare con acerbe parole tutti i suoi avversari e Guelfi e Ghibellini. Di che l’ira fu il grande peccato di Dante e l’ira si volse con terribile magistero di parole e di affetti nominatamente contro i Guelfi, i Reali di Francia e i Papi. Forse tra tutti contro i Pontefici (e non senza colpa) scoccava i dardi più crudi del suo sdegno; ma il faceva per modo, che andassero a ferir l’uomo da lui creduto peccatore, non il Vicario di Cristo ed il suo spirituale indu mento. Laonde ei mantenne sempre vivo nell’animo un grande amore al Cristianesimo, ed una somma riverenza all’alto potere delle chiavi. Ed allorchè Bonifazio, Clemente V (da lui chiamato il Guascone) e Giovanni XXII furono segno agl’interminabili suoi sdegni, se egli fulminò poco riverentemente i supremi Pastori, non disconobbe mai la loro potestà e molto meno osò toccare all’arca santa della fede. Anzi l’iroso Ghibellino Alighieri, con quella luce d’intelletto, che fu in lui vivacissima, vide il vantaggio del ritorno del Papato in Roma; e dal suo esilio, quantunque non facesse opera di Ghibellino, si travaglio per questo alacremente. Volle mostrare con tal fatto, siccome in molti altri, che egli, fermo in serbare l’integrità e l’altezza dell’animo e nemico di piegare altrui per viltà, era glorioso di aversi fatta parte per sé stesso (Par. c. XVII, t. 23). Morto papa Clemente V, ed essendo Dante in esilio (forse in Pisa), gli entrò nell’animo il pensiero che quello fosse il momento da restituire a Roma la gloria del suo Pontefice. Scrisse però ai soli sei Cardinali italiani, che erano nei comizî raccolti per la papale elezione, calde parole eccitatrici alla scelta di Pontefice che restituisse l’Apostolico Seggio alla città del beato Pietro» [4].

Questa lettera di Dante, scoperta da Carlo Troya nel 1826, e pubblicata poi integralmente dal celebre dantista tedesco professor Witte, si trova nel III volume delle Opere Minori di Dante, illustrate da Pietro Fraticelli ed edite dal Barbèra di Firenze. La lettera è in latino e s’intitola: Cardinalibus Italicis Dantes Aligherius de Florentia, etc. Bello sarebbe il riportarla tutta intera; a ben intendere il concetto dell’Alighieri basterà tuttavia recarne il sunto fatto dal Fraticelli.

«Comincia dal significar loro (ai sei Cardinali) come la cupidigia del sacerdozio era fino ab antico stata quella, ch’avea portato fra’ popoli lo scompiglio e la rovina, dando così occasione a’ Giudei ed a’ Gentili d’irridere alla nostra santa religione e di profferire contr’essa orrende bestemmie. E perché egli protesta d’essere attaccatissimo alla religione cattolica, così prova estremo dolore nel mirar Roma, la sede di quella, abbandonata e deserta, e nel vedere la piaga deplorabile delle eresie. Prosegue rampognando acerbamente gli ecclesiastici del condurre per falso calle la greggia de’ fedeli di Cristo e del fare mercato delle cose più sante, ed esortandoli a non volere stancare la pazienza di Colui, che a penitenza aspettavali. Dopo aver ribattuto le possibili obiezioni, dicendo non esser egli un novello Oza, poichè quegli distese la mano all’Arca pericolante, egli ai bovi calcitranti; nè la fenice del mondo, conciossiachè tutti conoscevano quelle cose di ch’ei facea lamento; dice che vergogna lor prenda dell’esser ripresi non già da un messo celeste, ma da un miser’uomo qual egli è. Volge infine le parole ai cardinali Orsini e Gaetani, dicendo loro che vogliano tener presente agli occhi la misera Roma straziata da nuovi Annibali, sola, vedova e d’ ambedue i suoi luminari (il Papa e l’Imperatore) destituta; e mentre non cessa di rinfacciar loro le male opere, li conforta all’emenda, animandoli a combattere a pro della Sposa di Cristo e d’Italia, ed a far sì che, uscendo vittoriosi dal combattimento, l’obbrobrio de’ Guaschi, i quali di tanto furibonda cupidigia accesi, intendono ad usurpare la gloria dei Latini, resti a’ posteri in esempio per tutti i secoli» [5].

Pur troppo vani, furono i tentativi degli italiani, troppo forte e potente essendo il partito de’ Guasconi, cui più forte ancor rendeva la potenza e l’ambizione del Re di Francia. Comunque però questa lettera riuscisse vuota d’effetto, è in tanto per noi d’importanza, in quanto serve a darci una più chiara idea delle opinioni del ghibellino scrittore. Dante era bensì Ghibellino, ma non estremo; come in altre sue Lettere, nel Poema. e nella Monarchia scrisse per la venuta a Roma dell’Imperatore, così desiderava il ritorno del Papa. Qui il Poeta si mostra veramente imparziale sì per l’uno come per l’altro dei due che stimava legittimi ornamenti e capi della nazione italiana. Qui si manifesta veramente cristiano cattolico, mosso meno dagli interessi particolari della fazione, che non da quelli più generali dell’Italia e della Cristianità.

Accenna a questa Lettera dell’Alighieri e alla sua indignazione contro la Corte di Avignone anche il recentissimo storico cattolico tedesco Lodovico Pastor, nella classica sua opera – Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, – dove, riportandone un brano, dice: «I funesti effetti della dimora dei Papi in Avignone si fecero e più specialmente sentire in Italia. Dilaniato da irreconciliabili partiti, il paese, non a torto chiamato il giardino d’Europa, era divenuto sede alla desolazione.

«Si spiega quindi chiaramente, come tutti gl’italiani fossero presi da un vero desiderio dell’ormai perduto principio di unione, desiderio che si manifestava nelle più forti proteste contro il Papato divenuto francese. Con acerbe parole il Poeta della «Divina Commedia» sferzava nel primo «Pastore di ver ponente» (Inf. c. XIX, t. 28) il connubio fra il Papato e il regno francese. Quando, morto Clemente V, i Cardinali entrarono in conclave a Carpentras, levossi Dante come interprete della pubblica opinione offesa, che richiedeva il ritorno della Sede Pontificia a Roma; e in uno scritto diretto ai Cardinali italiani disse loro le più amare verità» [6].

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Con queste premesse, spieganti le vere cause dell’ira di Dante verso alcuni Papi, noi possiamo ora affrontare con mente serena e con cuore tranquillo i dispettosi versi di lui; sicuri, che, intesi nel loro giusto senso, non noceranno affatto alla sua buona fama di Poeta cattolico per eccellenza. Riporteremo quindi, se non tutti interamente, almeno in parte i passi danteschi, dove il Nostro si scaglia contro dei Pontefici romani. Seguiremo l’ordine della Divina Commedia, non quello cronologico.

Il primo Papa criticato da Dante è Celestino V. Egli finge di trovarlo nel Limbo, fra le anime dei dappoco detti da lui


…la setta dei cattivi
A Dio spiacenti ed a’ nemici sui.

(Inf. c. III, t. 21).

L’Alighieri rampognò di viltà Celestino V per la rinunzia ch’egli fece del Pontificato Romano:


Guardai, e vidi l’ombra di colui
Che fece per viltate il gran rifiuto.

(Inf. c. III, t. 20).

Ecco la storia. Morto Nicolò IV ( 1288–1292), la Sede Romana rimase vacante due anni. Addi 7 di luglio 1294 venne finalmente eletto, a malgrado suo, un umile e santo eremita, Pietro Morone, istitutore dell’Ordine dei Celestini, che prese il nome di Celestino V. Uomo semplice e retto, non conoscevasi di politica, ignaro com’era del mondo e delle sue arti; ond’è che pochi mesi dopo abdico, rinunciando al Pontificato. A Dante poco forse avrebbe importato una tal rinuncia, se non fosse successo Bonifazio VIII, che egli considerava come il suo maggior nemico; n’ebbe quindi sdegno per amore di parte; considerò quella rinuncia come un atto di colpevole debolezza, e cacciò il virtuoso vecchio Pontefice nel Limbo, fra


…L’anime triste di coloro
che visser senza infamia e senza lodo.

(Inf. c. III, t. 12).

Se Dante avea giusto motivo di chiamar vile Celestino V, lo lasciamo giudicare alle anime bennate. «Il mescolarli (i dappoco) agli Angeli che non ebbero il coraggio né dell’amore né dell’odio, è concetto da uomo di parte; chè non doveva (Dante) a que’ cattivi confondere Celestino, non foss’altro perchè, perseguitato da Bonifazio e’ doveva destare la compassione di Dante». Così il Tommaseo nel suo Comento al c. III dell’Inf.

Il secondo Papa biasimato da Dante è Anastagio II (496-498) colpevole, secondo lui, di eresia. Nel c. XI, t. 3, dice il Poeta:


Ci raccostammo dietro ad un coperchio

D’un grand’avello: ov’io vidi una scritta,
Che diceva: Anastagio papa guardo,
Lo qual trasse Fotin della via dritta.

Ora, come dicemmo più sopra, il Poeta prese qui un granchio a secco, ingannato, come dice il Tommaseo, dalla Cronaca di Martino Polono. Non il papa Anastasio, ma Anastasio I, imperatore d’Oriente, che regnò dal 491 al 518, cadde nell’eresia di Fotino, a detta di Natale Alessandro (Ann. Sæc. V).

Altri eruditi intendono bensì il papa Anastasio, ma solo come accusato da taluni di essersi mostrato troppo conciliante con Fotino, di averlo accolto troppo amorevolmente, ecc [7]. In ogni modo non fu eretico, e Dante ebbe torto nell’accusarlo come tale.

Nicolò III (1277-1280) è il terzo Papa biasimato da Dante, e questo per il suo nepotismo o soverchio favore usato verso i suoi parenti, gli Orsini, ai quali egli apparteneva. Quanto sia stato colpevole papa Orsini di nepotismo, non istaremo noi a giudicare; gli storici non s’accordano nei giudizi intorno a lui; chi lo giudica troppo severamente, chi lo proclama immune senz’altro da quella macchia. Noi non saremo quelli che diremo l’ultima parola in questa difficile questione: riteniamo che qualche neo di nepotismo lo abbia avuto Nicolò III, non però come lo accusano gli avversarî dei Papi. «Del resto, dice il Balbo [8], papa Orsini diè cenno, nel breve Papato, di animo alto e virtuoso, restaurando la potenza papale in Romagna per negoziati con l’imperator Rodolfo; e in Roma con tôrre la dignità di senatore a Carlo d’Angiò, che vi tiranneggiava, ecc. Ma appunto questo volgersi di Nicolò contro Carlo, era contro agl’interessi guelfi, e così contro alle impressioni giovanili e guelfe di Dante; le quali si ritrovano nella Commedia, quantunque pubblicata da Dante ghibellino.

Già notammo (segue il Balbo) tal contraddizione nella storia d’Ugolino, e credo che, bene studiando la Commedia, si vedrebbe che, in generale, di tutte le persone ivi nomate, quelle che finirono prima del 1302, epoca dell’esilio e della mutazione di parte di Dante, vi sono giudicate con animo guelfo; tutte quelle che finirono più tardi, vi son giudicate con animo ghibellino, eccettuatene pochissime per gratitudine.

Ad ogni modo, Nicolò III vi è severissimamente giudicato; e per quel vizio del nepotismo (creduto da Dante) è posto in Inferno tra i simoniaci: genere di peccatori particolarmente odiato e vituperato in que’ secoli, dopo l’immortal guerra lor mossa da Gregorio VII. Pone Dante costoro fitti in terra capovolti, con le sole gambe sporgenti e infocate; ed egli a Virgilio:


Chi è colui, maestro, che si cruccia
Guizzando più che gli altri suoi consorti,
Diss’io, e cui più rossa fiamma succia

Poscia appressatosi, interroga Nicolò stesso, ecc. Ma notisi, come fin di qua, alla prima occasione in che Dante morde i Papi, ei s’affretti a protestare della sua reverenza alla lor sede».

Alla domanda rivoltagli dal Poeta, Nicolò crede che sia papa Bonifazio, invece di Dante, e che venga a succedergli nella buca, secondo la legge di quel supplizio accennata alla t. 26; disingannato, risponde:


«…Dunque che a me richiedi?

Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto,
che tu abbi però la ripa corsa,
sappi ch’i’ fui vestito del gran manto;

e veramente fui figliuol de l’orsa,
cupido sì per avanzar li orsatti,
che sù l’avere e qui me misi in borsa.

Di sotto al capo mio son li altri tratti
che precedetter me simoneggiando,
per le fessure de la pietra piatti.

Là giù cascherò io altresì quando
verrà colui ch’i’ credea che tu fossi
allor ch’i’ feci ‘l sùbito dimando.

(Inf. c. XIX, t. 23-26).

Qui Nicolò accenna a papa Bonifazio VIII, e nella t. 28 e 29 a Clemente V, ai quali ancor vivi l’iroso Alighieri forava colla sua fantasia la buca infocata. Riporteremo più sotto quei versi.

Dante, finito che ha di parlare Nicolò, risponde, riprendendo l’avarizia dei Pastori, e osservando che Nostro Signore prima che ponesse le chiavi in balia di S. Pietro, non chiese tesoro, ma solo un: « iemmi dietro». E a Mattia apostolo nè Pietro nè gli altri domandarono oro e argento, quando fu eletto


Nel luogo che perdė l’anima ria (Ibid v.96)

cioè Giuda. E volgendosi a Nicolò, grida:


Però ti sta, ché tu se’ ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch’esser ti fece contra Carlo ardito.

E se non fosse ch’ancor lo mi vieta
la reverenza delle somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,

io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi.

(Inf. c. XIX, t. 23-26).

*
* *

E siamo a Bonifazio VIII, il Papa più di ogni altro fulminato da Dante nella sua Commedia. Non faremo qui la storia di questo grande Pontefice, tanto calunniato da tutti gli scrittori ostili ai Pontefici. «Grandezza d’animo, volontà energica, abilità negli affari, tutte le doti che formano gli uomini grandi, furono adunate in Bonifazio VIII. La religione va a lui debitrice della consolante istituzione del Giubileo, la Giurisprudenza ecclesiastica, del sesto libro dei Decretali, e la scienza in genere, della fondazione dell’Università degli Studî a Roma, conosciuta sotto il nome della Sapienza». Così il Darras nella sua Storia Generale della Chiesa [9]. Tutti gli Storici e i Commentatori spassionati della Commedia giudicano Dante esagerato e quale ingiusto nella sua ira contro Bonifazio; il Cantù nella sua Storia della Letteratura Italiana [10], lo chiama ingiustamente fiero a quel Papa; il Balbo nella vita più volte citata lo dichiara «nemico personale di Bonifazio, e per ispirito di parte di tutti i Papi guelfi, e così di quasi tutti quelli dell’età sua» [11]. Il verme di inimicizia e di vendetta, che Dante covava nel cuore contro Bonifazio, durò in lui tutta la vita, poichè in tutte tre le Cantiche scaglia la sua freccia contro quel Papa, dal c. XIX dell’Inf., fino al C. XXX del Par. Ammiratori sinceri del grande Poeta, e di sposti a scusargli certe debolezze dell’amor proprio, qui non possiamo far a meno di criticarlo per l’acerbità, onde si volse nella sua Opera immortale contro un Papa, che, se ebbe dei difetti (e chi non ne ebbe ?), fu in ogni modo uno dei Papi più forti ed energici che sieno mai stati nella difesa dei diritti della Chiesa contro la prepotenza de’ suoi nemici, che la volevano o distrutta o serva! Dante, grande e magnanimo in molte cose,


Ben tetragono ai colpi di ventura

(Par. c. XVII).

si mostró con Bonifazio «ghibellino esagerato e feroce nell’ira» [12].

Nove volte si rivolge Dante contro Bonifazio. La prima è quella già veduta, là dove lo fa aspettare da Nicolò III nelle buche de’ simoniaci all’Inferno. Domanda Nicolò:


…«Se’ tu già costì ritto,
se’ tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.

Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a ‘nganno
la bella Donna, e poi di farne strazio?».

(Inf. c. XIX, t. 18-19).

La bella Donna è la Chiesa. Più sotto, alla t. 26, dice che Bonifazio verrà a sostituirlo in quel posto, e nella t. 27 osserva che ciò sarà in più breve tempo di quello ch’egli era là nella buca:


Ma più è ‘l tempo già che i piè mi cossi
e ch’i’ son stato così sottosopra,
ch’el non starà piantato coi piè rossi:

(Inf. c. XIX, t. 27).

L’ultima volta che nomina Bonifazio, ve lo fa cacciare più giù da uno de’ successori, Clemente V, il quale scendendo an ch’egli fra i simoniaci,


…Farà quel d’Alagna esser più giuso.

(Par. c. XXX, t. 49).

Nel c. XXVII dell’Inf. t. 23-41, lo morde di doppiezza e di frode, per bocca di Guido da Montefeltro, il guerriero romagnolo fattosi frate, che diè a Bonifazio il famoso consiglio:


Lunga promessa con l’attender corto,

che viene a dire molto promettere, poco fare, a patto di essere assolto in antecedenza da un peccato futuro!!! Dante fa intendere che Bonifazio, chiamato da lui nientemeno che


Lo principe de’ nuovi Farisei,

(Inf. c. XXVII, t. 29).

abbia promesso quel perdono anticipato! E questa è troppo davvero in un Dante! Il Tommaseo nel suo Comento a questo Canto dichiara il colloquio tra Guido e Bonifazio «un romanzo storico più che storia» [13]; e altrove dice: «Guelfi e Ghibellini non erano scarsi a calunnie» [14].

Nel Purg. c. XX, Dante introduce Ugo Capeto, lo stipite dei Reali di Francia., che predice le sorti e le onte de’ suoi germogli fino all’età di Dante. In questo episodio il Poeta mostra potente la sua ira contro Filippo il Bello, avversario della Chiesa, e compassiona (solo questa volta!) papa Bonifazio, il quale, per difendere i diritti della religione, incontrò l’ira di quel «gigante», il quale addi 7 di settembre 1303, pel suo inviato Nogareto e Sciarra della Colonna, lo fece prigioniero in Anagni, dopo averlo fatto ingiuriare. In questo passo il Nostro si mostra vero cattolico, chè dichiara il Pontefice, suo nemico personale, Vicario di Cristo; chiama «nuovo Pilato» il suo persecutore, il quale da sè, senza decreto papale, distrugge i Templari, ecc. Dice dunque Ugo Ciapetta:


Perché men paia il mal futuro e ‘l fatto,
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto.

Veggiolo un’altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l’aceto e ‘l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso.

Veggio il novo Pilato sì crudele,
che ciò nol sazia, ma sanza decreto
portar nel Tempio le cupide vele.

O Segnor mio, quando sarò io lieto
a veder la vendetta che, nascosa,
fa dolce l’ira tua nel tuo secreto?

(Purg. c. XX, t. 29·32).

Nel Par. c. IX, Folco di Marsiglia rimprovera a Bonifazio l’oblio di Terra Santa; rimprovero ingiusto, rispetto a Bonifazio, che ebbe come principale quel pensiero, quantunque non vi sia riuscito. Ecco dove conduce l’astio e l’amore di parte!


…La terra santa
…poco tocca al papa la memoria

dice l’Alighieri, a mezzo di Folchetto. E segue costui a dire a Dante, che la sua città, cioè Firenze, è origine di avarizia nei sacri Pastori col produrre il fiorino gigliato, ecc.


La tua città…

produce e spande il maladetto fiore
c’ha disviate le pecore e li agni,
però che fatto ha lupo del pastore.

Per questo l’Evangelio e i dottor magni
son derelitti, e solo ai Decretali
si studia, sì che pare a’ lor vivagni.

A questo intende il papa e’ cardinali;
non vanno i lor pensieri a Nazarette,
là dove Gabriello aperse l’ali.

(Par. c. IX, t. 44-46).

Poco più innanzi trovasi Bonifazio chiamato di passo


…Colui che siede e che traligna.

(Par. c. II, t. 30).

E finalmente, in uno degli ultimi Canti del Paradiso, più che mai prorompe l’inveterata ira di Dante, per bocca di S. Pietro, il quale inveisce aspramente contro Bonifazio, dicendo:


Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio, che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio,

fatt’ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde ‘l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa».

«Non fu la sposa di Cristo allevata
del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto,
per essere ad acquisto d’oro usata;

ma per acquisto d’esto viver lieto
e Sisto e Pio e Calisto e Urbano
sparser lo sangue dopo molto fleto.

Non fu nostra intenzion ch’a destra mano
d’i nostri successor parte sedesse,
parte da l’altra del popol cristiano;

né che le chiavi che mi fuor concesse,
divenisser signaculo in vessillo
che contra battezzati combattesse;

né ch’io fossi figura di sigillo
a privilegi venduti e mendaci,
ond’io sovente arrosso e disfavillo.

In vesta di pastor lupi rapaci
si veggion di qua sù per tutti i paschi:
o difesa di Dio, perché pur giaci?

(Par. c. XX VII, t. 8-19).

Diremo, a conclusione, contro di Dante e di tutti gli avversarî del Papato, che Bonifazio non si meritava affatto tanti e sì acerbi rimproveri!

Di Adriano V, papa nel 1276 e vissuto come tale solo trentanove giorni, parla il Nostro nel c. XIX del Purg., mettendolo fra coloro che son là a purgarsi dal vizio dell’avarizia. Qui Dante parla moderato, anzi mostra il grande rispetto verso l’autorità coll’inginocchiarsi davanti a quel Pontefice. Ecco il passo, nel quale parla Adriano:


scias quod ego fui successor Petri.

Intra Sestri e Chiaveri s’adima
una fiumana bella, e del suo nome
lo titol del mio sangue fa sua cima.

Un mese è poco più prova’ io come
pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,
che piuma sembran tutte l’altre some.

La mia conversione, omè!, fu tarda;
ma, come fatto fui roman pastore,
così scopersi la vita bugiarda.

Vidi che lì non s’acquetava il core,
né più salir potiesi in quella vita;
per che di questa in me s’accese amore.

Fino a quel punto misera e partita
da Dio anima fui, del tutto avara;
or, come vedi, qui ne son punita.

(Purg. c. XIX, t. 34-38).

Adriano spiega poi la ragione del castigo degli avari legati nelle mani e nei piedi e distesi immobili; e Dante continua:


Io m’era inginocchiato e volea dire;
ma com’ io cominciai ed el s’accorse,
solo ascoltando, del mio reverire,

«Qual cagion», disse, «in giù così ti torse?».
E io a lui: «Per vostra dignitate
mia coscienza dritto mi rimorse».

«Drizza le gambe, lèvati sù, frate!»,
rispuose; «non errar: conservo sono
teco e con li altri ad una podestate.

(t. 13-15).

Al c. XXIV ricorre nominato Martino IV, ivi condannato a purgarsi, a detta di Dante, per il vizio della gola o della ghiottoneria:


…e quella faccia
di là da lui più che l’altre trapunta

ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia:
dal Torso fu, e purga per digiuno
l’anguille di Bolsena e la vernaccia».

(Purg. c. XXIV, t. 7-8).

Di Clemente V e Giovanni XXII, Papi avignonesi, tocca nel Par. al c. XXVII, t. 20, dove S. Pietro, dopo aver inveito contro Bonifazio, si scaglia contro di loro, dicendo:


Del sangue nostro Caorsini e Guaschi
s’apparecchian di bere: o buon principio,
a che vil fine convien che tu caschi!

Caorsini era Giovanni XXII, Guaschi Clemente V. Quest’ ultimo torna ad essere assalito da Dante nel c. XXX del Par., ove profetizza che cadrà in Inferno nella buca di Bonifazio:


E fia prefetto nel foro divino
allora tal, che palese e coverto
non anderà con lui per un cammino.

Ma poco poi sarà da Dio sofferto
nel santo officio; ch’el sarà detruso
là dove Simon mago è per suo merto,

e farà quel d’Alagna intrar più giuso».

Ma di Clemente avea già parlato l’Alighieri nel c. XIX dell’Inf., facendo dire a Nicolò III che, dopo Bonifazio, ne verrebbe uno peggiore, schiavo di Francia, il quale come Giasone, sommo sacerdote ebreo, vendè ad Antioco il sacerdozio, così venderassi a Filippo:


ché dopo lui verrà di più laida opra
di ver’ ponente, un pastor sanza legge,
tal che convien che lui e me ricuopra.

Novo Iasón sarà, di cui si legge
ne’ Maccabei; e come a quel fu molle
suo re, così fia lui chi Francia regge».

E nel c. XVII, del Par. t. 28:


Ma pria che’ l Guasco l’alto Arrigo inganni,

*
* *

Ecco quanto si contiene nella Divina Commedia contro dei Papi. Chiunque voglia ben intendere i passi citati, conviene che si tenga sempre dinanzi agli occhi le opinioni proprie e personali di Dante, le circostanze della sua vita e le ragioni sopracitate del suo sdegno contro di loro. Non riporteremo tutti i passi, dove ricorrono i Papi da lui lodati; ne accenneremo alcuni. Nomi di Pontefici buoni ricorrono nel Par. c. VI, nel Purg. c. X, nel Par. c. XI, XXVII e altrove. Colpa dell’Alighieri fu il non aver introdotto nella sua Cantica alcun Papa veramente grande; già lo osservammo col Balbo. Questo ap passionato dantista loda però Dante di essersi scagliato contro i Papi di Avignone; e noi ancora, pur condannando l’ingiusta estensione, il lodiamo con gli Storici più cattolici, i quali tutti deplorano la cattività di Babilonia.

Osserviamo ancora, a scusa parziale del Poeta, che tutti i vituperî contro i predecessori di Clemente V e Giovanni XXII furono scritti da lui dopo il fatto della traslazione della Santa Sede da Roma ad Avignone, giusta e cristiana cagione di ira nel fiero Alighieri, sebbene ghibellino. «I Papi dei tempi di Dante, dice il Balbo, meritarono la disapprovazione e, in quanto lice a cristiano e a cattolico, l’ira di lui… E vedesi quindi più che mai, se abbiano buona ragione i nemici dei Papi di vantarsi di quell’ira dantesca; la quale, dannabile o no nelle espressioni sorse in età e si rivolse contro tali Papi che fecero sì gran danno alla Santa Sede; ondechè quella si vuol dire figlia, anzi, di buono zelo a questa. Il rivolgere poi, e generalizzare le espressioni di Dante da que’ Papi traslatori della Sedia nel 1300 ai Papi così diversi dei nostri tempi, che vedemmo martiri per la non voler trasferire, è tale ingiustizia e mala fede da non meritar isdegno nè risposta!»[15] Testo tratto da: Lorenzo Felicetti, Dante poeta cattolico, Milano 1896, pp. 169 -191.

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note 

[1] Balbo, Vita cit. Lib. II, Cap. 5.

[2] «E poi l’affetto lo intelletto lega» Par. c. XIII, t. 40.

[3] Balbo, Vita cit., Lib. II, Cap. 2.

[4] Capecelatro – Storia di S. Caterina da Siena e del Papato del suo tempo – Siena, Tip. S. Bernardino, 1878, pag. 226-229.

[5] Opere Minori cit., Vol. III, pag. 183 e seg.

[6] Pastor— Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo tradotta dal sac. Clemente Benetti – Trento, Artigianelli, 1890, Vol. I, pag. 57-58.

[7] Tommaseo – Comento cit., Vol. I, pag. 113 nella Nota alla t. 3 del c. XI dell’Inf.

[8] Balbo, Vita cit., Lib. II, Cap. 2.

[9] Darras – Storia Gener. della Chiesa – Torino, Marietti 1Si9, Vol. III, p. 442

III, p. 142.

[10] Cantù – Storia della Letteratura Italiana, pag. 48.

[11] Balbo – Vita…, pag. 252.

[12] Balbo – Vita…, pag. 229.

[13] Tommaseo, Comento…, Vol. I, pag. 317.

[14] Idem, e. 1. pag. 316.

[15] Balbo Vita cit., pag. 269.

1 commento:

  1. Sul celebrare Dante ci andrei piano visto che pare si sia ispirato all'Islam in alcune sue composizioni, anche famose, in particolare si fa riferimento al "Libro della scala". L'islam si annida nei luoghi più improbabili.

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