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mercoledì 12 febbraio 2020

“Si riparta dal latino e dai canti gregoriani”: giovani alla ricerca dell’antica liturgia, dell'identità spirituale smarrita

Un interessante articolo del quotidiano online Lettera43, diretto da Paolo Madrona, sulla Liturgia tradizionale, il latino , il canto gregoriano, sulle nuove "traduzioni" inflitte al Pater noster e al Gloria ma anche, con un raggio di  luminosa speranza, sulle nuove "tendenze" liturgiche, identitarie delle nuove generazioni alla ricerca di un tesoro spirituale e dottrinale che sembrava irrimediabilmente perduto. Non condividiamo però quel che il giornalista e scrittore Paolo Rumiz intende attribuire ai giovani che la domenica se ne stanno lungamente inginocchiati durante la Messa celebrata nell'antico rito "li muove «solo il desiderio di assistere a una bella celebrazione, di aver un po’ di magia, un bel canto e una minima percezione dell’Altrove". No! La Liturgia è "soprattutto preghiera" che non può essere inquinata ne' confusa con il sentimentalismo!  I giovani che assistono alla Messa nell'antico rito della Chiesa adorano devotamente contemplando "l'Ostia consacrata, il segno della creazione ci parla. Allora incontriamo la grandezza del suo dono; ma incontriamo anche la Passione, la Croce di Gesù e la sua risurrezione. Mediante questo guardare in adorazione, Egli ci attira verso di sé, dentro il suo mistero, per mezzo del quale vuole trasformarci come ha trasformato l'Ostia." ( Benedetto XVI Corpus Domini 2006 QUI )
AC

La Chiesa cattolica riparta dal latino e dai canti gregoriani

di Mario Margiocco  

Mentre i fedeli praticanti calano a vista d'occhio, si assiste a un revival delle antiche liturgie, soprattutto tra i giovani. 
Non è semplice nostalgia, ma ricerca estetica e forse di una identità che si è persa. Segno del grande equivoco generato dal Concilio Vaticano II. 
Le chiese sono sempre più vuote e il cattolicesimo praticato, anche in Italia, sembra seguire i destini delle chiese protestanti, ormai con i fedeli in absentia.  

Introibo ad altare Dei, diceva il prete avviando il rito della messa. 
E alla fine l’Ite, Missa est chiudeva ogni celebrazione, salmodiato a volte con un infinito vocalizzo gregoriano di rara eleganza al termine di una funzione solenne in una chiesa tutta incenso, con tre celebranti, mobili e ieraticamente disposti a geometria variabile lungo l’altare.
Deo gratias, rispondeva l’assemblea, tirando all’infinito nelle solennità con altrettanto elaborati ed eleganti vocalizzi.  

IL LATINO COME LINGUA LITURGICA IDEALE E IMMORTALE Erano formule preziose, diceva negli anni in cui venivano abbandonate Wystan H. Auden, che non era cattolico romano ed è considerato con Thomas S. Eliot il più grande poeta di lingua inglese del 900. Non è nemmeno chiaro fino a che punto Auden fosse tornato, a 60 anni, alla religione anglo-cattolica dell’infanzia, o se si trattasse per lui di un fatto essenzialmente estetico, ma definiva la liturgia «un tenersi insieme con il passato e con chi non c’è più». 
E il latino, in quanto lingua immobile e non più cambiata dalle parole quotidiane, era la lingua liturgica ideale e immortale.  
Concetti che peraltro lo stesso Giovanni XXIII, il padre del Concilio, ebbe chiaramente a esprimere nel febbraio 1962 nella sua Costituzione apostolica Veterum Sapientia «sullo studio e l’uso del latino», confermato «tesoro di inestimabile valore» sottovalutato dagli «smaniosi di novità» e solido ponte con il passato. 
Ma da tempo parte notevole dei vertici cattolici pensa male del passato, e chissà, forse ha ragione. Del tutto ignorata da sempre, la Veterum Sapientia resta un fallito tentativo di saggezza. 

SI RESPIRA UN’ATMOSFERA DI REVIVAL  
Tutto è finito molto tempo fa perché, questa la vulgata, i vescovi cattolici in comunione con il papa e ispirati dallo Spirito Santo decisero con il Concilio Vaticano II di abolire il latino e di cambiare radicalmente tutta la liturgia. 
Ma non è vero. 
Era una nuova apertura al mondo e una renovatio, il così conciliare “rinnovamento”, continua la vulgata. Il latino tuttavia è rimasto, sui toni anch’essi aboliti si direbbe del canto gregoriano, in un angolino del cuore di una parte dei vecchi fedeli, o semplici estimatori, anche giovanissimi, per l’estetica forse, o anche per altro. 
Accade, si passi il paragone non blasfemo, un po’ come con il revival dei dischi di vinile o delle macchine fotografiche analogiche, cioè a pellicola, perché vinile e pellicola hanno dimostrato di avere qualcosa che è bene non del tutto perdere.  

«MAGIA, ESTETICA E LA MINIMA PERCEZIONE DELL’ALTROVE»  
Lo notava tra gli altri di recente, su La Repubblica, Paolo Rumiz, in un lungo articolo sul ritorno del gregoriano ovviamente in latino e il gusto di questi canti da parte di vari gruppi giovanili.  ( QUI N.d.R)
Non una nostalgia da anziani quindi, visto che la fine ufficiale di quel mondo fu nel novembre del 1969, per sofferto decreto papale di Paolo VI e a quella data molti di quanti amano oggi intonare un Credo in unum Deum o un Veni Creator Spiritus in gregoriano non erano neppure nati. 
Eppure, osserva Rumiz, trovano significati profondi in una liturgia che la Chiesa ufficiale ha da decenni di fatto e in parte anche de iure abolito, e che molti preti guardano con fastidio. Questi giovani sono contro papa Bergoglio, che certamente è molto più per le lingue parlate dal pueblo che per il latino? 
No, dice Rumiz, per nulla, li muove «solo il desiderio di assistere a una bella celebrazione, di aver un po’ di magia, un bel canto e una minima percezione dell’Altrove».  

L’EQUIVOCO SULLA SACROSANTUM CONCILIUM  
Sul punto centrale della liturgia, centrale perché i riti sono mezza religione e come si prega si crede e come si crede si prega, anche chi non sa a di teologia o diritto canonico o altro può dire qualcosa. 
Prima di tutto si può dire che in campo liturgico il Concilio ha compiuto con la Costituzione conciliare Sacrosantum Concilium che occupò nel 1962-63 tutta la prima parte dei lavori un’opera vasta come in nessun altro campo fu fatto dalla successive sessioni, concluse nel dicembre del ’65. 
Secondo, che la Costituzione non abolì affatto il latino, anzi dice che rimane la lingua franca del cattolicesimo e va salvaguardato e onorato, pur dando più spazio, molto più spazio, alle lingue parlate. 
Forse avrebbero dovuto indicare esempi applicativi di come questo doveva avvenire, dicendo subito per esempio che cosa doveva restare, della messa, in latino.  
In Italia va a messa solo il 20% dei cattolici, a maggioranza anziani. 
Difficile dire quanto l’abbandono della tradizione liturgica abbia pesato. 
È certamente stata una perdita, voluta, di identità, e per andare non si sa dove
(sottolineatura nostra N.d.R.)

LERCARO E GLI ABOLIZIONISTI 
La Costituzione non lo fa e fu un errore, ma non lo fece perché i circa 2.400 vescovi erano già ben divisi in tre campi: quelli che volevano abolire il latino ma non potevano dirlo; quelli, pochi e disorientati, che non volevano nei riti le lingue moderne se non marginalmente e non potevano dirlo; e quanti volevano cambiare molto, dopotutto di rinnovamento liturgico si stava con insistenza parlando dalla fine dell’800 come minimo, ma senza distruggere del tutto una identità culturale che comunque il latino ecclesiastico rappresenta. 
Questi ultimi non riuscirono a imporsi, anche se lo stesso Paolo VI era di questo sentire. 
I più forti furono gli “abolizionisti” e anche gli italiani svolsero un grosso ruolo, guidati dal cardinale Giacomo Lercaro, genovese, arcivescovo di Bologna e deciso assertore del principio che l’uso della lingua nazionale avrebbe riportato i fedeli in chiesa. 
Cruciale, a fianco di Lercaro, il ruolo di Don Giuseppe Dossetti, l’ex politico democristiano diventato prete e convinto come vari altri presbiteri e non, fra i più celebri David Maria Turoldo, che l’abolizione dei riti tradizionali fosse la forma migliore di testimonianza del rinnovamento ecclesiastico, insieme a una ritrovata povertà della Chiesa.  

Quindi la Sacrosantum Concilium fu in realtà rivoltata come un calzino, e nel post-
Concilio il principale artefice di questo fu l’arcivescovo Annibale Bugnini, alla fine allontanato da papa Montini dall’incarico di rinnovatore della liturgia ed esiliato alla rappresentanza vaticana a Teheran. 
Ma ormai i giochi erano fatti. 
Perché questo voleva in molti Paesi la maggioranza, o una combattiva minoranza, del clero. 
Parliamo solo italiano o solo tedesco e così via, e i fedeli torneranno. 
Non è andata così. 
Un recente studio commissionato all’Università di Friburgo dai vescovi cattolici tedeschi e dalle maggiori confessioni protestanti della Germania dice, proiettando le tendenze attuali, che nel 2060 i 45 milioni di credenti (in Germania si dichiara al fisco la religione, o la non religione, e si paga eventualmente una sostanziosa tassa a favore della propria chiesa) saranno ridotti a poco più di 22 milioni.  

GLI AGGIORNAMENTI DEL PADRE NOSTRO E DEL GLORIA 
In Italia, roccaforte una volta della partecipazione alla messa festiva, ormai va più o meno regolarmente a messa solo il 20% dei cattolici, forse meno, e a maggioranza anziani. 
Difficile dire quanto l’abbandono eccessivo della tradizione liturgica abbia pesato. 
È certamente stata una perdita, voluta, di identità, e per andare non si sa dove. «La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana: perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale», dice la Sacrosantum Concilium. Parole. 
Da decenni in molte chiese non vengono più intonati se non per sbaglio inni latini famosi e bellissimi, ce n’è una dozzina almeno fra i più noti, e il tentativo di adattare testi italiani ai vocalizzi gregoriani, fatti per una lingua più concisa, spesso cade nel ridicolo. 
E il tutto continua.
Le nuove traduzioni del Padre Nostro e del Gloria sono filologicamente scorrette ma concettualmente “aggiornate”.
Era così necessario mettere mano a una tradizione pressoché millenaria? 
E che si manda a dire ai credenti delle tante generazioni precedenti, che usavano formule sbagliate? I vescovi italiani hanno ora concordato due cambiamenti, uno nel Padre Nostro e uno nel Gloria, che sono due perle della cultura dell’”aggiornamento“. 
La formula «…e non ci indurre in tentazione…» diventa «e non abbandonarci alla tentazione», mentre nel Gloria in Excelsis «…e pace in terra agli uomini di buona volontà», espressione che è ai vertici dell’ecumenismo, diventa «…e pace in terra agli uomini amati dal Signore». 
Questo apre il capitolo su chi sono gli uomini amati dal Signore, perché le parole sono macigni in una religione che, come tutte quelle strutturate, cammina sulle parole e sui concetti che queste iscrivono. 
Le nuove traduzioni sono filologicamente scorrette ma concettualmente “aggiornate”. 
Era così necessario mettere mano a una tradizione pressoché millenaria? 
E che si manda a dire ai credenti delle tante generazioni precedenti, che usavano formule sbagliate?  

BOUYER E LA “DECOMPOSIZIONE” DEL CATTOLICESIMO 
Qualcuno aveva visto tutto dall’inizio. «Una volta di più occorre dire qui le cose come stanno», scriveva nel 1968, mezzo secolo fa, il francese Louis Bouyer, ex pastore luterano diventato a 30 anni prete cattolico, teologo di rango, liturgista, docente in Europa e negli Usa, perito al Concilio dove arrivò da progressista e riformatore liturgico e uscì perplesso, amico di Paolo VI che lo avrebbe voluto cardinale, ma lui rifiutò. 
«Non c’è praticamente più una liturgia degna di questo nome, al momento, nella Chiesa cattolica. La liturgia di ieri non era molto di più di un cadavere imbalsamato. Quella che oggi si chiama liturgia non è molto di più di un cadavere decomposto». 
Bouyer lo scriveva nel 1968 in un pamphlet che gli inimicò mezzo episcopato francese, e per questo rifiutò il cardinalato. 
«Sarebbe una nomina troppo controversa», disse in sostanza a Paolo VI. 
Il libretto si intitolava La décomposition du catholicisme.  

Fonte: Lettera43 QUI

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16 commenti:

  1. Attenzione però nell'attribuire a fuorvianti sentimenti romantici e sentimentali la fame e la sete di sacro, deella liturgia dei nostri padri che non è roba da bambolette con pizzi e merletti ma virilmente maschia. Di ritualismo si muore mentre della sana e devozione e adorazione di risorge a vita nuova nello Spirito Santo.

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    1. Anonimo delle 09:31, non è con l'alcool che si risolvono i problemi.

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    2. Concordo in pieno con l'anonimo delle 9:31! Non c'è niente di più virile che il sacerdote all'altare: i paramenti sono come un'armatura scintillante, la precisione dei riti è la spada, il rinnegamento di se stessi per esaltare Nostro Signore presente sull'altare è l'umiltà del vero cavaliere. Questo è il cattolicesimo, non gli sguardi languidi e annoiati di chi si mette i paramenti antichi tolti dalla naftalina una volta al mese e poi torna a girare vestito da tranviere.

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    3. Anonimo delle 19:53, annacqualo anche te. E non aver paura di dire che sei bergogliano.

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  2. L'ecumenismo propone lo stesso Dio per tutte le religioni. E' lo spirito anticattolico del Vaticano II che Bergoglio sta consolidando liberandosi dei vari Bouyer che potrebbero contrastarlo. E comunque la decomposizione del cattolicesimo è cominciata grazie all'iniziativa roncalliana secondo la quale non bisogna più insegnare e stigmatizzare ma dialogare e comprendere per poi avallare. La buona volontà non conta più niente perché tanto Dio ti ama così come sei e perciò puoi continuare a fare il tuo comodo che tanto sei amato e compreso lo stesso: una turlupinatura gigantesca.

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  3. Dire che i giovani partecipano al VO solo per assistere ad un suggestivo spettacolo è pura diffamazione con il subdolo tentativo di farlo passare per passatenpo culturale o, peggio, per affermazioni ideologiche. Chi assiste al VO ha dei riscontri del tutto differenti. I giovani non si fanno più ingannare dalle novità sessantottine in cui ancora è impantanata la gerarchia cattolica la quale tenta con la repressione di difendere la misera e noiosa riforma liturgica che offre poco allo spirito e rimane a mezz'aria tra Dio e l'uomo, priva della bellezza che avvicina a Lui.

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    1. Bellissimo intervento Anonimo delle 10:31: mi associo con entusiasmo!

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    2. D'accordissimo con l'anonimo delle 10:31. Conosco tanti giovani che hanno incontrato Dio attraverso il rito antico, ma sempre nuovo tramandato dalla Chiesa cattolica attraverso i secoli. Ormai gli unici fanatici che stanno ancora dietro ai modernisti sono bolsi sessantottini...vecchi "ggiovani" che pensano ancora di essere negli anni di piombo. Spariranno per ragioni anagrafiche e poi i cattolici potranno ricostruire ciò che i modernisti hanno spazzato via.

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  4. Il sentimentalismo é condannaro nella "Pascendi" di San Pio X!

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  5. Introibo ad altare Dei, ad Deum
    qui laetificat iuventutem meam.

    "Juventutem" Foederatio Internationalis = esistere e resistere

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  6. La Santa Messa in latino non è affatto superiore a quella nella lingua locale ma ha il pregio di far riscoprire la sacralità e la solennità dell'incontro don Dio.

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    1. Quindi, caro Nicolini, ... è superiore! Nel senso che è proprio un'altra cosa, dal momento che, come dice lei, fa riscoprire il sacro, che è la cosa che conta, e che la messa in lingua locale ha evidentemente fatto dimenticare. E poi il Vetus Ordo non è soltanto "la messa in latino", mentre i novus ordo è soltanto un "momento d'incontro".

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    2. E invece si. Come Bach è superiore a Dj Francesco.

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    3. Bellissimo intervento Signor Nicolini: poche ma efficacissime parole! Bravo !

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    4. Si dimenticano le chiare differenze tra NO e VO che, è inutile ricordare, tanto sono evidenti e,ormai, ben acclarate sul piano teologico e rituale e dai frequentissimi cosiddetti ' abusi', connaturati con la deviata dottrina del NO.

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    5. Quindi una Messa millenaria nata con gli Apostoli è identica a una "Messa" creata a tavolino nel 1969 da un gruppo di cardinali massoni assieme a 6 pastori protestanti! COMPLIMENTI!

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