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mercoledì 11 gennaio 2012

Approfondimenti di don Jean-Michel Gleize - VI e ultima parte

Pubblichiamo la sesta ed ultima parte di uno studio di don Jean-Michel Gleize, membro della Commissione della Fraternità Sacerdotale San Pio X per le discussioni con Roma, in risposta a quanto affermato da Monsignor Fernando Ocáriz apparso su "L’Osservatore Romano". Segue dalla V parte (C.S.)


11 IL NODO DEL DILEMMA


Nella logica del Vaticano II e del discorso del 2005, l’oggetto in quanto tale è relativo al soggetto. Nella logica del Vaticano I, e di tutto l’insegnamento tradizionale della Chiesa, il soggetto in quanto tale è relativo all’oggetto. Queste due logiche sono inconciliabili.
Il magistero, in qualunque epoca, deve rimanere l’organo del deposito della fede. Esso si snatura nella misura in cui altera questo deposito. È falso che dei principi divinamente rivelati ed esplicitati dal magistero anteriore non si imporrebbero più necessariamente, con la scusa che il soggetto Chiesa le vive diversamente attraverso le contingenze della storia o che il Popolo di Dio si trova indotto a stabilire una relazione nuova fra la fede e il mondo moderno. Dei principi che si applicano in materia contingente (come quelli che fondano tutta la dottrina sociale della Chiesa) non sono contingenti. Certo, l’immutabilità sostanziale della verità rivelata non è assoluta, poiché l’espressione concettuale e verbale di questa verità può guadagnare in precisione, ma questo progresso non comporta alcuna rimessa in questione del senso della verità, che diviene solamente più esplicita nella sua formulazione. I principi restano necessari, qualunque siano le diverse forme concrete della loro applicazione. Questa distinzione fra principi e forme concrete si rivela fattiva in ciò che riguarda la dottrina sociale della Chiesa, ed è invano che Benedetto XVI vi ricorra nel suo discorso del 2005 per legittimare la dichiarazione Dignitatis humanae.
Per tornare al Vaticano II, la questione fondamentale è sapere qual è il principio primo che deve servire da regola ultima per l’attività del magistero. È il dato oggettivo della rivelazione divina, com’esso si esprime nella sua sostanza definitiva attraverso il magistero di Cristo e degli Apostoli, al quale il magistero ecclesiastico non fa che succedere? È l’esperienza comunitaria del Popolo di Dio, depositario (e non solo destinatario) del dono della verità in quanto portatore del senso della fede? Nel primo caso, il magistero ecclesiastico è l’organo della Tradizione e dipende dal magistero divino-apostolico come dalla sua regola oggettiva; e allora la questione sta nel sapere se gli insegnamenti oggettivi del Concilio Vaticano II sono quelli di un magistero costante e di una Tradizione immutabile. Nel secondo caso, il magistero ecclesiastico è il portavoce federatore della coscienza comune del Popolo di Dio, incaricato di stabilire la coesione spazio-temporale dell’espressione del sensus fidei; e allora il Vaticano II è per il soggetto Chiesa il mezzo per esprimere in linguaggio concettuale il suo sensus fidei, vissuto e riattualizzato nel rispetto delle contingenze dell’epoca moderna.


12 ERMENEUTICA E REINTERPRETAZIONE


Agli occhi di Mons. Ocáriz, gli insegnamenti del Vaticano II rappresentano delle novità, «nel senso che esplicitano aspetti nuovi, fino a quel momento non ancora formulati dal magistero, ma che non contraddicono a livello dottrinale i documenti magisteriali precedenti». La giusta esegesi dei testi del Concilio, dunque, apparentemente presupporrebbe il principio di non contraddizione. Apparenza errata, poiché la non contraddizione non ha più lo stesso significato di prima.
Il magistero della Chiesa ha sempre inteso questo principio come un’assenza di contraddizione logica tra due enunciati oggettivi. La contraddizione logica è una opposizione che si stabilisce tra due proposizioni di cui l’una afferma e l’altra nega lo stesso predicato dello stesso soggetto. Il principio di non contraddizione esige che quando si determini questa opposizione, le due proposizioni non possono essere contemporaneamente vere. Questo principio è una legge dell’intelligenza e non fa che esprimere l’unità del suo oggetto. La fede, definendosi come adesione intellettiva alla verità proposta da Dio, verifica questo principio. Anche l’unità oggettiva della fede corrisponde all’assenza di contraddizione nei suoi enunciati dogmatici.
L’ermeneutica di Benedetto XVI intende questo principio in senso non più oggettivo, ma soggettivo, non più intellettualistico, ma volontaristico. L’assenza di contraddizione è sinonimo di continuità al livello del soggetto, mentre la contraddizione è sinonimo di rottura allo stesso livello. Il principio di continuità non esige per prima cosa e innanzi tutto l’unità della verità, ma l’unità del soggetto che si sviluppa e ingrandisce nel corso del tempo. È l’unità del Popolo di Dio, com’esso la vive nel momento presente, nel mondo di questo tempo, per riprendere il titolo suggestivo della costituzione pastorale Gaudium et spes. Unità che si esprime attraverso la sola parola autorizzata del magistero presente, proprio in quanto presente. Mons. Ocáriz lo sottolinea. «Un’interpretazione autentica dei testi conciliari può essere fatta soltanto dallo stesso magistero della Chiesa. Perciò nel lavoro teologico d’interpretazione dei passi che nei testi conciliari suscitino interrogativi o sembrino presentare difficoltà, è innanzitutto doveroso tener conto del senso in cui i successivi interventi magisteriali hanno inteso tali passi». Non equivochiamo: il magistero che deve servire da regola di interpretazione è il nuovo magistero di questi tempi, com’è uscito dal Vaticano II. Non è il magistero di sempre. Come giustamente è stato fatto notare, il Vaticano II deve comprendersi alla luce del Vaticano II, reinterpretando nella sua logica di continuità soggettiva e vitale tutti gli insegnamenti del magistero costante.
Il magistero della Chiesa, fino ad oggi, non si era mai compromesso con una tale petizione di principio, è voluto sempre restare fedele alla sua missione di conservare il deposito. La sua principale difesa e illustrazione è sempre stata quella di riferirsi alle testimonianze della Tradizione oggettiva, unanime e costante. La sua espressione è sempre stata quella dell’unità della verità.


13 IL MAGISTERO E IL VATICANO II


La stessa parola «magistero» si usa in due sensi diversi: della persona che esercita il potere di magistero (il papa o i vescovi) e dell’atto del potere di magistero (una definizione infallibile o un insegnamento semplicemente autentico). La persona è il soggetto di una potenza o di una funzione, che per definizione è ordinato al suo oggetto. Per esempio, ogni uomo è dotato di una intelligenza speculativa, ordinata per natura alla conoscenza dei principi primi [26]. Questa funzione è o non è in maniera assoluta. Di contro, l’esercizio del magistero è l’uso della funzione: anche se la maggior parte del tempo quest’uso è corretto, è sempre possibile che il titolare di una funzione ne eserciti l’atto in maniera difettosa, cosa che equivale al non compiere quest’atto, perché un atto difettoso si definisce come una privazione. Per esempio, l’errore intellettuale o la falsità si definiscono come la privazione del rapporto che avrebbe dovuto esistere tra l’intelletto e la realtà.
Noi accettiamo senza discutere che il Vaticano II ha rappresentato il magistero della Chiesa, nel senso che il potere dei vescovi allora riuniti in questo Concilio cum petro et sub Petro, fu e resta ancora quello di apportare un insegnamento alla Chiesa universale, ma obiettiamo che questo Concilio ha voluto soddisfare le necessità di un magistero sedicente pastorale, la cui intenzione nuova è chiaramente estranea alle finalità del magistero divinamente istituito, e che esso ha contraddetto almeno sui quattro punti segnalati i dati oggettivi del magistero costante, chiaramente definito. In tal modo appare chiaro che questo magistero fu segnato da una grave deficienza, nel suo stesso atto. Il dottore angelico dice [27]: «Quando un artista fa delle opere difettose, non sono più opere d’arte, sono invece contrarie all’arte». Fatta salva la proporzione, quando un Concilio produce degli insegnamenti difettosi, non si tratta dell’opera del magistero, piuttosto (o peggio) contro il magistero, cioè contro la Tradizione.
Ecco perché oggi nessuno potrebbe accontentarsi dei cosiddetti «spazi di libertà teologica» all’interno stesso della contraddizione introdotta dal Vaticano II. Il desiderio profondo di ogni cattolico fedele alle promesse del suo battesimo è di aderire in tutta sottomissione filiale agli insegnamenti del magistero di sempre. La stessa pietà esige anche, con una urgenza maggiore, che si ponga rimedio alle gravi deficienze che paralizzano l’esercizio di questo magistero a partire dall’ultimo Concilio. È a questo scopo che la Fraternità San Pio X auspica ancora e più che mai una autentica riforma, nel senso che per la Chiesa si tratta di rimanere fedele a se stessa, di rimanere ciò che è nell’unità della fede e di conservare così la sua forma originaria, nella fedeltà alla missione ricevuta da Cristo. Intus reformari.

(fine)

JEAN-MICHEL GLEIZE


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Note
[26] Somma Teologica, 1a2ae, q 51, a 1.
[27] Somma Teologica, 1a2ae, q 57, a 3, ad 1.

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