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domenica 25 gennaio 2009

L’episcopato elvetico si accorge che le “assoluzioni collettive” sono controproducenti

Abbiamo riferito nei giorni scorsi (leggi qui) del convegno alla Penitenzieria apostolica in cui è emerso (e non è certo una novità) che nella generale crisi della pratica religiosa il sacramento della Confessione è particolarmente in crisi.

E’ di questi giorni la notizia che la conferenza episcopale svizzera ha votato per l’abolizione di rituali di assoluzione collettiva finora in uso nelle chiese del Paese (v. documento qui). Ora, l’assoluzione collettiva è un "todos caballeros" che, prescindendo da una individuale confessione dei peccati, impartisce ad oves et boves, et universa pecora, quello che, secondo l’insegnamento tradizionale, si ottiene invece dopo aver privatamente accusato di fronte ad un prete i propri peccati, mostrandosi pentiti e col proposito (spesso utopico, ahinoi) di non commetterli più. E’ chiaro che, se esiste un sistema così rapido e indolore, perché umiliarsi in un confessionale? Ed è evidente allora che il Sacramento della Riconciliazione (ma non è meglio tornare a chiamarlo Confessione, così tutti capiscono di che stiamo parlando?) ne esce svilito e aggirato.

Intendiamoci: l’assoluzione collettiva non è una novità postconciliare (da non confondere con quella che nel rito tridentino il Sacerdote impartisce dopo il confiteor, che concerne solo i peccati veniali). Ma, prima, era limitata a casi veramente eccezionali e giustificati: l’imminenza di una catastrofe, l’attesa di una battaglia... Nella neutrale Svizzera non si combattono guerre da oltre 150 anni: perché allora propinare un’assoluzione automatica a chi si trovi per sbaglio a passare per qualche chiesa ove viene impartita? Non ci vuole uno psicologo, o un sociologo, per predire che gli effetti di una tale prassi (purtroppo non limitata alla Svizzera, anche se in Italia, per fortuna, è cosa più rara) sono i seguenti: che nessuno si confessa più; che il senso del peccato si affievolisce (tanto l’assoluzione è così "a buon prezzo"...); che o si ritiene l’assoluzione collettiva una sorta di fervorino senza sostanza, e di fatto si smette di credere alla dottrina cattolica della remissione dei peccati, oppure le si attribuisce una sorta di efficacia "magica" e si scade nella superstizione. Esatto: proprio con pratiche così "al passo coi tempi" si incorre (se non nello scetticismo e nell’abbandono della fede) in quella superstizione che i progressisti dichiarano di aborrire: che altro è l’attribuire efficacia assolutoria a qualche parolina del prete, se gli assolti sono un’assemblea di persone che non sono prima passate attraverso quella sincera accusa dei propri peccati, che si fa in una confessione come si deve?

E allora, meglio tardi che mai: i vescovi svizzeri se ne sono accorti. Ma ce n’hanno messo: già nel 2002 la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti aveva ordinato in tal senso. Perché i decreti di una congregazione romana non possano avere efficacia immediata ma debbano passare attraverso anni, lustri, decenni di discussioni e risoluzioni delle conferenze episcopali (pensiamo alla traduzione del pro multis, che la Congregazione nel 2006 (!) ha ordinato di rendere con "versato per molti" anziché "versato per tutti"), è mistero della Chiesa!

Per contro, quando si è trattato di emanare regolamenti restrittivi dell'applicazione del motu proptio, le commissioni episcopali (proprio quella elvetica, oltre a quelle polacca e tedesca, tra le altre) furono celerissime: in nemmeno un mese (ed era per di più agosto!)
Occam

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