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mercoledì 8 gennaio 2025

Da un vescovo di Norvegia le istruzioni per non disperare

Grazie a Sandro Magister per la pubblicazione di questa bella intervista a Mons. Erik Varden vescovo di Trondheim e poi anche di Tromsø.
Catholic World Report/CNA- Pal Johanes Nes: "Il vescovo Erik Varden lancia con la EWTN una serie di podcast sui Padri del Deserto e su come possono essere modelli per i nostri giorni: “I padri e le madri del deserto emersero nel IV secolo come i primi monaci e le prime monache del cristianesimo. Fondarono comunità nei deserti di Egitto, Palestina e Siria, dedicandosi a una vita di preghiera, ascesi e crescita spirituale. I loro insegnamenti e le loro pratiche hanno influenzato profondamente il monachesimo e la spiritualità cristiana per quasi due millenni”.
The Pillar – Edgar Beltrán: Da un’intervista al vescovo di Helsinki, Raimo Gorrayola: “…Parte di questa immagine di Dio nell'essere umano è che siamo maschi e femmine. Quindi l'ideologia attacca questa realtà antropologica, biologica, psicologica e spirituale. E dietro questa ideologia, credo che ci sia un essere spirituale che vuole distruggere questa realtà. Dio crea l'uomo e la donna a sua immagine e somiglianza. Queste ideologie vogliono anche distruggere il matrimonio e la famiglia in molti modi. In primo luogo, per molti anni con la promozione del divorzio. Poi, alterando anche la semantica del matrimonio stesso, volendo dire che il matrimonio è l'unione tra due esseri umani qualsiasi. Ma perché solo due? Perché non tre? La realtà del matrimonio è stata distrutta….Tutte queste sono ideologie che vanno contro la razionalità e il buon senso. Vanno contro il fatto che l'uomo è stato creato e che il mondo ha un ordine e un senso. Quindi, in fondo, queste ideologie vanno contro la scienza e la verità. Mettono in discussione la biologia stessa e la verità dell'uomo e della creazione, la verità di tutto. Satana è molto attivo, il che può essere un buon segno perché forse siamo alle porte di una nuova primavera nella Chiesa…. Distinguerei due tipi di secolarizzazione: una secolarizzazione passiva, che si limita a seguire la corrente. È una secolarizzazione tiepida, di persone che sono buone ma che si lasciano trasportare dall'indifferenza, dal vedere che tutti fanno le cose in un certo modo, così si allontanano da Dio senza nemmeno rendersene conto. Si lasciano trasportare dal fiume. È la tiepidezza di avere un piede qui e uno là. Un'altra cosa è la secolarizzazione attiva. Ci sono persone che vogliono attivamente sradicare Gesù Cristo e il suo messaggio dal mondo. Quindi, questa seconda secolarizzazione è dolorosa, è triste e si vede in molte ideologie e tendenze politiche, come in una certa forma di liberalismo…. Quindi, le due secolarizzazioni vanno di pari passo e sono ugualmente dolorose. Ma molti si lasciano trasportare dalla prima, perché è permissiva, è indecisa, è ciò che dice il Libro delle Rivelazioni: Non siete né freddi né caldi, allora vi vomiterò dalla mia bocca. (…)Entrambe le secolarizzazioni sono dannose ed entrambe stanno consumando l'Occidente, sia quella della tiepidezza passiva sia quella delle persone che odiano la fede, che conoscono la fede e la rifiutano. Entrambe sono dannose. Ma per entrambe c'è la stessa soluzione: l'apostolato. Noi che non siamo su nessuna delle due sponde siamo luce e sale, possiamo parlare di Gesù con la nostra vita, dando testimonianza”.
Luigi C.

2-1-24

(s.m.) Erik Varden, 50 anni, è dal 2019 vescovo di Trondheim e poi anche di Tromsø. Dallo scorso settembre presiede la conferenza episcopale della Scandinavia. Di famiglia luterana e di fatto agnostica, si è convertito a quindici anni dopo aver ascoltato la Sinfonia n. 2 “Risurrezione” di Gustav Mahler. Dal 2002 è monaco cistercense ed è stato abate in Inghilterra dell’abbazia di Mount Saint Bernard. Il suo ultimo libro, “Chastity”, uscito un anno fa negli Stati Uniti per i tipi di Bloomsbury e poi tradotto in più lingue, audace già nel titolo, è un viaggio affascinante tra la Bibbia e la grande musica, la letteratura, la pittura, da Omero ai Padri del deserto, da Mozart a una buona dozzina di scrittori e poeti moderni più o meno distanti dalla fede cristiana. Una fede che Varden vuole esprimere in forme comprensibili anche a chi vi è del tutto estraneo, appellandosi all’esperienza universale e cercando di leggere tale esperienza alla luce della rivelazione biblica.
Due Quaresime fa Varden fu tra i firmatari, assieme ai vescovi di Scandinavia tra i quali il “papabile” cardinale di Stoccolma Anders Arborelius, di quella “Lettera pastorale sulla sessualità umana” che Settimo Cielo pubblicò integralmente, per la sua straordinaria originalità di linguaggio e di contenuto, capace di dire all’uomo moderno tutta la ricchezza della visione cristiana della sessualità con fedeltà intatta al magistero millenario della Chiesa e insieme in limpida opposizione all’ideologia “gender”.

L’intervista che segue è uscita alla vigilia di Natale sul quotidiano italiano “Il Foglio”, A dialogare con il vescovo norvegese è Matteo Matzuzzi. Il quale lo incalza su ciò che lo “spirito del tempo” vuole imporre al pensiero comune e anche ai cristiani, ma che Varden rovescia con acume a tratti sorprendente, quando spiega, ad esempio, che il mondo d’oggi non è “post-cristiano” ma semmai “post-secolare”, che il cristianesimo non è un’utopia ma una fede di straordinario realismo, o ancora che “centro” e “periferia”, nella Chiesa, non sono espressioni geografiche, perché il centro vero, l’Alfa e l’Omega, ovunque sia, è l’Agnello.

I vescovi della Scandinavia, cioè di Norvegia, Svezia, Danimarca, Islanda e Finlandia, sono a capo di comunità cattoliche numericamente esili. Ma l’alta qualità dei loro interventi è un elemento di sorpresa che gli altri episcopati d’Europa hanno già sperimentato più volte nelle riunioni del continente. Ne fa testo anche il blog personale di Varden, che ha il titolo del suo motto episcopale, ripreso da un commento di Gregorio Magno al profeta Ezechiele: “Coram fratribus intellexi”.

Il cristianesimo non è un’utopia

Intervista a Erik Varden, da “Il Foglio” del 24 dicembre 2024

D. – È Natale, si parla tanto di speranza. Ma pensando alle trincee ucraine, a Gaza, al Libano e alla Siria, dire che tutto andrà bene pare quasi un insulto. La speranza cristiana ci viene in aiuto: qual è il suo vero significato anche in relazione al mondo in guerra?

R. – Il cristianesimo non è un’utopia. La religione biblica è in sommo grado e in modo sconcertante realistica. I grandi maestri della fede hanno sempre insistito sul fatto che la vita soprannaturale deve basarsi su una profonda considerazione della natura. Dobbiamo allenarci a vedere le cose come sono, noi stessi come siamo. Avere speranza come cristiani non significa aspettarsi che tutto vada bene. Non tutto va bene. Sperare è avere fiducia che tutto, anche l’ingiustizia, possa comunque avere un senso e uno scopo. La luce “brilla nelle tenebre”, ma non toglie di mezzo le tenebre; questo avverrà nei nuovi cieli e nella nuova terra in cui “non ci sarà più notte”. Qui e ora la speranza si manifesta come un barlume. Questo non vuol dire che sia irrilevante. La speranza ha un contagio benedetto che le permette di diffondersi di cuore in cuore. I poteri totalitari lavorano sempre per cancellare la speranza e indurre alla disperazione. Educarsi alla speranza significa esercitarsi alla libertà. È un’arte da praticare assiduamente nell’atmosfera fatalista e deterministica in cui viviamo.

D. – Il Natale ha qualcosa di misterioso che cattura anche chi non crede. Viene da pensare a Paul Claudel, che si convertì ascoltando un Vespro a Notre-Dame, nel Natale del 1886. E a Jean Paul Sartre, l’ateo per eccellenza che scrisse in un suo racconto: “La Vergine è pallida e guarda il bambino. Ciò che bisognerebbe dipingere sul suo viso è uno stupore ansioso che non è apparso che una volta su un viso umano”. Qual è questo mistero del Natale che attira tutti?

R. – Lo stupore di cui parla Sartre non appare forse in alcune rappresentazioni della Vergine nell’iconografia bizantina? L’attrattiva del Natale è insita nelle più emblematiche rappresentazioni evangeliche: il bambino appena nato; la proclamazione della pace; l’affermazione che gli uomini sono dopo tutto capaci di “buona volontà”; il silenzio pacifico di una notte durante la quale tutto il creato – uomini, animali e stelle – si dispone armoniosamente in attesa intorno a un centro in sé evidente. Claudel scrive ne “L’annuncio a Maria”, che rileggo ogni Natale: “Molte cose si consumano nel fuoco di un cuore ardente”. Il Natale ci fa intuire il desiderio del nostro cuore. Ci dà il senso di ciò che passa, di ciò che resta. La sfida è lasciare che questa intuizione diventi concreta nelle decisioni che definiscono la nostra vita, non confinata in un sentimento passeggero, fiacco.

D. – Lei è vescovo in una delle periferie tanto citate da papa Francesco. Periferia europea, per di più. A sud è evidente come la fede nel Vecchio Continente si stia perdendo, incalzata da un laicismo che si fa sempre più forte. Qual è la sua prospettiva, appunto, dalla periferia?

R. – Una periferia è definita rispetto a un centro. In un’ottica cristiana, il centro non è un punto sulla mappa. Il centro è dove il mistero di Cristo è presente in pienezza. La periferia è chiamata a diventare centro. Vediamo questa dinamica all’opera nella storia della missione della Chiesa. La fiamma della fede risplende sempre di nuovo in luoghi inaspettati. Qual è stato lo stupore di quegli europei sicuri di sé, che arrivarono in India nel XVI secolo, pensandosi arrivati ai margini della civiltà, per poi scoprire che lì il centro lo avevano raggiunto fin dai tempi apostolici, mentre i loro propri antenati adoravano pezzi di legno e pietre? La terminologia delle periferie è spesso utilizzata da istituzioni o persone certe di essere al centro in virtù di privilegi ereditari. La fede sfida questo assunto. Ci sfida a chiederci: “Dov’è, in realtà, il centro?”. In termini biblici, si tratta di seguire l’Agnello ovunque vada, abbandonando la confortevole convinzione che egli rimanga necessariamente dove sono io.

D. – Nel suo libro “La solitudine spezzata”, edito in Italia da Qiqaion, lei scriveva che “per vivere, si deve imparare a guardare la morte negli occhi”. Non è che, forse, in questo clima di assopimento collettivo pesa anche il fatto che per generazioni l’Europa non ha saputo più che cosa fosse la guerra e la morte in casa sua?

R. – Il rischio è quello di dare per scontata la pace, pensando che sia in qualche modo la normalità. Non è così. La storia ce lo ricorda con insistenza. Andando avanti negli anni, sono sempre più toccato dal fatto che la prima morte riportata nelle Scritture sia una morte per fratricidio. È un paradigma che vediamo ripetersi con terribile coerenza fino ai nostri giorni. Il prologo della Regola di san Benedetto cita un Salmo che dà un’utile prospettiva. San Benedetto ci esorta a “cercare la pace e a seguirla”. Ci viene ricordato che la pace è dinamica, una realtà viva da promuovere. Un mezzo secolo europeo senza grandi guerre è stato una specie di miracolo. Ora l’orizzonte si fa oscuro. In Ucraina infuria una guerra ingiusta; il crollo di un governo dopo l’altro, con l’esplosione di fragili coalizioni, genera ansia; la retorica dell’aggressione si diffonde come un fumo nefasto. Ho l’impressione però che il nostro continente, e non da ultimo i suoi giovani, si stiano svegliando. Il Covid è stato un campanello d’allarme. Ha avvicinato lo spettro della morte. Ha infranto l’illusione che il benessere o la competenza scientifica ci tengano al sicuro, che la morte sia solo qualcosa che accade agli altri. Abbiamo riflettuto abbastanza su queste lezioni della storia recente? Io credo di no. La vedo come un’occasione persa, dal punto di vista politico e catechetico.

D. – Abbiamo visto in mondovisione lo spettacolo dell’inaugurazione della cattedrale di Notre-Dame restaurata dopo l’incendio. Una folla enorme, i potenti in coda per entrare, la gente comune che ha contribuito al finanziamento dell’opera come accadeva nel Medioevo. Allora, nonostante tutto, siamo ancora attaccati a questi simboli che parlano della nostra identità?

R. – Il fatto che restiamo attaccati ad alcuni simboli sembra evidente. Le manifestazioni di dolore che sono seguite all’incendio di Notre-Dame sono state commoventi. Onore a tutti coloro che hanno contribuito alla sua ricostruzione! Ma a cosa siamo legati? A un grande santuario cristiano? O a un simulacro culturale? Durante l’Avvento la Chiesa ci fa leggere il profeta Isaia. È una lettura sconvolgente. Isaia ci offre meravigliose immagini di consolazione, misteriose profezie dell’incarnazione. Allo stesso tempo dice che la redenzione nascerà dalla rovina. Chiarisce che è il Signore che predispone la distruzione di Gerusalemme e l’esilio del suo popolo, volendo insegnare loro, appunto, a non riporre la loro fiducia in monumenti di forza ma a vivere, invece, secondo la grazia, sostenuti giorno per giorno nell’umana fragilità esistenziale. È compito della Chiesa far sì che il nostro patrimonio architettonico e artistico rimanga un segno potente della bontà di Dio, che permetta l’incontro del nostro essere di terra con lo splendore increato, divino. Abbiamo sufficiente fiducia nella nostra tradizione, per aiutare i nostri contemporanei a vedere cosa significano e implicitamente promettono i luoghi e gli oggetti che formano in superficie la nostra identità culturale? C’è qui un’ampia prospettiva per un esame di coscienza. Spesso, infatti, mi sembra che ci diamo per vinti di fronte alla modernità secolare. Ci sforziamo di rendere il nostro patrimonio rilevante alle sue condizioni, mentre i nostri tempi chiedono da noi qualcosa di diverso.

D. – Noi europei del Terzo millennio abbiamo forse un problema d’identità? Sappiamo ancora chi siamo e da dove veniamo?

R. – Da tempo il consenso non è mai stato così teso su questioni fondamentali: cosa significhi essere un uomo o una donna, cosa sia un essere umano, cosa debba essere una società. Per molto tempo i dibattiti pubblici sembravano ronzare in modo sinistro come nidi di vespe. Chiunque vi partecipava correva il rischio di essere punto. Ho l’impressione che ora la tendenza si stia gradualmente invertendo: un numero maggiore di persone si pone domande, cerca ragionamenti validi e parametri affidabili. La tradizione intellettuale cattolica ha un immenso contributo da dare in questo senso. Senza voler per nulla sminuire l’importanza del lavoro caritativo o delle cause di giustizia e di pace, credo che l’apostolato intellettuale sia fondamentale per i prossimi decenni. Il Verbo si è fatto carne per impregnare di “logos” la nostra stessa natura, creata a immagine del Verbo. Accogliere questo aspetto del nostro essere e articolarlo significa iniziare a ricordare la nostra dignità.

D. – Non è raro sentire nella cosiddetta “opinione pubblica” che la Chiesa propone qualcosa di anacronistico, soprattutto sul piano della morale e perfino della bioetica: dopotutto, si dice, perché bisogna dire no all’eutanasia se una persona soffre? La via più semplice è quella che piace di più. Il problema è che spesso sono anche tanti uomini di Chiesa che, sui media, chiedono di “cambiare” e “riformare”. Qual è la sua opinione? Quanto è utile o rischioso dare ascolto allo “Zeitgeist”, allo spirito del tempo?

R. – Lo “Zeitgeist” è volubilissimo! Certo, dobbiamo ascoltarlo: trasmette messaggi di cui dobbiamo tenere conto. Ma cercare di seguirlo è un atto di sfida verso se stessi: quando siamo arrivati al punto in cui esso si trovava un momento fa, è già più avanti. La Chiesa per sua natura si muove lentamente. C’è il rischio che ci impegniamo in quelle che riteniamo siano tendenze contemporanee quando già non sono rimaste altro che braci morenti. Così passiamo senza fortuna, e in modo leggermente assurdo, da un falò spento all’altro. È sicuramente più promettente, interessante e gioioso rimanere aggrappati a ciò che resiste. Questo è ciò che parlerà ai cuori e alle menti umane nella nostra epoca come in ogni altra epoca. Il Concilio Vaticano II è stato caratterizzato dalla sollecitazione a bere con abbondanza dalle fonti. La maggiore vitalità della vita cattolica del XX secolo è scaturita dall’entusiasmo di scoprire pozzi dimenticati, trovando in essi acqua limpida e fresca. Dov’è finito quell’entusiasmo? Perché ora sentiamo di dover abbandonare i pozzi per allestire invece pieghevoli stand accanto a distributori automatici?

D. – Un’ultima domanda: si dice spesso che il nostro mondo, quello occidentale, è ormai post-cristiano. È d’accordo con questa definizione? E poi, come può l’uomo di oggi che ancora si definisce cristiano rendere viva la sua presenza in questa realtà?

R. – Su questo non mi trovo d’accordo. Teologicamente, il termine “post-cristiano” non ha senso. Cristo è l’Alfa e l’Omega, e tutte le lettere intermedie. Egli porta costituzionalmente la freschezza della rugiada del mattino: non per niente durante l’Avvento tempestiamo il cielo cantando “Rorate!”. Il cristianesimo è dell’alba. Se a volte, in determinati periodi, ci sentiamo avvolti dal crepuscolo, è perché sta nascendo un altro giorno. Se vogliamo parlare di “pre” e di “post”, mi sembra più appropriato suggerire che ci troviamo alle soglie di un’epoca che definirei “post-secolare”. La secolarizzazione ha fatto il suo corso. È esaurita, priva di finalità positiva. L’essere umano, nel frattempo, rimane vivo con aspirazioni profonde. Si consideri il fatto che Marilynne Robinson e Jon Fosse sono letti in tutto il mondo; che tanta gente accorre al cinema per vedere i film di Terence Malick; che migliaia di persone cercano un’istruzione nella fede. Questi sono segni dei tempi. Dovrebbero riempirci di coraggio. Dovrebbero renderci determinati a non mettere la nostra lampada sotto il moggio. La Chiesa possiede le parole e i segni con cui trasmettere l’eterno come realtà. La scrittrice inglese Helen Waddell ha detto: “Avere anche una minima concezione dell’infinito è come togliere la pietra dalla bocca di un pozzo”. Non è forse questo il compito cristiano fondamentale per il momento attuale? “Sursum corda!”.