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martedì 24 dicembre 2024

C'è una “teologia” nella tradizione dei regali di Natale?

Il Natale non sono i regali, ma essi è giusto che ci siano.
Luigi C.

Il Cammino dei Tre Sentieri,  20 Dicembre 2024

Nei nostri tempi s va diffondendo una critica spietata a tutto ciò che di “consumista” il Natale attuale possiede. Lo spreco di luci, lo shopping, la vuota esaltazione di ricchezza distolgono effettivamente l’attenzione dall’essenziale che è Gesù Bambino, sceso dal Cielo per amor nostro. E così dimentichiamo che il modo migliore per festeggiare il Natale è anzitutto porsi in condizioni spirituali tali da ricevere Dio in noi con l’Eucaristia e poter vivere questi giorni di festa proprio accanto a Lui.
Questa giusta critica alla deriva consumistica del Natale, non visto più come la festa dell’Incarnazione, bensì come una generica Festa d’Inverno che serve solamente a radunare la famiglia intorno a tavole imbandite, non deve però porsi in termini un po’ troppo spiritualistici. Credere che l’essenziale del Natale sia Gesù Bambino non significa criticare tutte quelle sane tradizioni di Natale che racchiudono in sé un messaggio comunque pienamente cristiano, come ad esempio la consuetudine dei regali.
Per questo, offriamo ai nostri lettori la riduzione di un articolo molto bello dello scrittore e giornalista inglese Gilbert Keith Chesterton, intitolato appunto “La teologia dei regali di Natale“. Invitiamo a riflettere particolarmente su queste parole che ci ricordano che, a dispetto della deriva consumistica che il Natale attualmente sta subendo, ritornare a Cristo in questi giorni significa anche ritornare al sano spirito che animava le tradizioni apparentemente più materiali, come quella dei regali. Leggiamo: “La più enorme e originale delle idee alla base dell’Incarnazione è che una buona volontà s’incarni; che venga, cioè, messa in un corpo. Un regalo di Dio che può essere visto e toccato: se l’epigramma del credo cristiano ha un punto essenziale è questo. Lo stesso Cristo è stato un regalo di Natale. Una nota a favore dei regali materiali di Natale è stata buttata giù persino prima della Sua nascita, con i primi spostamenti dei saggi dell’Oriente e della stella: i Tre Magi giunsero a Betlemme portando oro, incenso e mirra. Se avessero portato con sé solo la Verità, la Purezza e l’Amore non ci sarebbero state né un’arte né una civiltà cristiana. Questi tre doni sono stati oggetto di chissà quante omelie, ma vi è un loro aspetto cui raramente è stata riconosciuta la giusta e meritata attenzione. È alquanto bizzarro che i nostri scettici europei, mentre prendono in prestito dai filosofi orientali così tanto del loro determinismo e della loro disperazione, si prendano anche costantemente gioco dell’unico elemento orientale che il cristianesimo ha entusiasticamente incorporato, l’unico autenticamente semplice e affascinante. Intendo, cioè, l’amore degli orientali per i colori vivaci e l’eccitazione infantile che hanno di fronte al lusso. Uno dopo l’altro, gli scettici hanno invariabilmente giudicato la Gerusalemme nuova di san Giovanni un ammasso di gioielli vistosi e di cattivo gusto. Uno dopo l’altro, hanno denunciato i riti della Chiesa come esibizioni pacchiane di viola sensuale e d’oro sgargiante. In realtà, nelle sue scelte, la Chiesa si dimostrò molto più saggia sia dell’Europa che dell’Asia. Si accorse, infatti, che l’appetito orientale per il rosso, l’argento, il verde e l’oro era di per sé innocente e appassionato, sebbene dissipato dalle civiltà inferiori per il loro indulgere alla mollezza e alla tirannia. Al contrario, vide insito nella stoica sobrietà di Roma – sebbene apparentata all’equità e allo spirito pubblico della civiltà più elevata che esistesse allora – un latente pericolo di rigidità e di orgoglio. La Chiesa prese tutto l’oro multi-sfaccettato e i colori brulicanti che avevano adornato così tante poesie e tante crudeli storie d’amore in Oriente, e con quella congerie variopinta di fiaccole illuminò le gigantesche dimensioni dell’umiltà e le più grandi cromie dell’innocenza. Prese i colori dalla schiena del serpente, lasciando perdere, però, il serpente. (…) Il Natale, persino nei riti più comici e casalinghi delle calze di Natale e delle scatole dei regali, è pervaso da questa particolare idea di patto d’intimità fra Dio e l’uomo – un cappello divino che si adatta perfettamente alla testa dell’uomo. Il cosmo è concepito come un ufficio postale centrale e celeste. Il sistema postale è, di fatto, rapido e vasto; ciononostante i pacchi vengono consegnati tutti, integri e sigillati. I regali di Natale sono simbolo di una protesta permanente fatta per conto del «dare» come distinto da quel mero «condividere» che i moderni sistemi di valore presentano come equivalente o superiore al primo. Il Natale rappresenta questo eccezionale e sacro paradosso: dal punto di vista spirituale, se Tommy e Molly si dessero a vicenda una moneta da sei penny, compirebbero una transazione di valore superiore rispetto alla condivisione di uno scellino”.

Poi Chesterton continua sottolineando giustamente che il il Natale è qualcosa di meglio che una cosa per tutti: è una cosa per ognuno: “E a chi trovi queste frasi inutili o stravaganti, o pensi che non vi sia fra di esse alcuna differenza se non la ricercatezza delle parole, l’unico riscontro possibile è quello che ho già indicato, cioè sottoporre la questione alla prova – dal valore stabile e duraturo – del popolino. Prendiamo cento ragazze a caso in una scuola e verifichiamo se non fanno alcuna distinzione fra il ricevere un fiore ciascuna o, al contrario, un giardino per tutte. Se pertanto queste nuove scuole di spiritualità intendono dimostrare di possedere lo spirito e il segreto delle feste cristiane, devono almeno provarlo non con affermazioni astratte, ma con un ceffone di quelli speciali e inequivocabili, che lascino un segno pungente e duraturo, per esempio dimostrando di essere in grado di scrivere un canto di Natale o, addirittura, di saper cucinare una torta di Natale”.