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giovedì 24 ottobre 2024

Prorogato l’Accordo Provvisorio tra la Santa Sede e la Cina sulla nomina dei Vescovi. Rinnovato l'accordo sino-vaticano

Continua la disastrosa Ostpolitik vaticana verso la Cina.
Catholic World Report/CNA: Courtney Mares: "Dopo l’accordo sino-vaticano è aumentata la persecuzione contro dieci vescovi in Cina".
Luigi C.

Di Redazione, 22. ottobre, 2024  (ACI Stampa).

"La Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese, visti i consensi raggiunti per una proficua applicazione dell’Accordo Provvisorio sulla nomina dei Vescovi, dopo opportune consultazioni e valutazioni, hanno concordato di prorogarne la validità per un ulteriore quadriennio, a decorrere dalla data odierna".
Questa la comunicazione ufficiale da parte della Santa Sede che vede rinnovato l’accordo sino-vaticano per la nomina dei vescovi.
"La Parte Vaticana rimane intenzionata a proseguire il dialogo rispettoso e costruttivo con la Parte Cinese, per lo sviluppo delle relazioni bilaterali in vista del bene della Chiesa Cattolica nel Paese e di tutto il popolo cinese", conclude la nota.
Questo è il terzo rinnovo dell'Accordo. L’Accordo Provvisorio iniziato nel 2018 aveva posto la parola fine a decenni di ordinazioni episcopali avvenute senza il consenso del Papa.


CORRIERE DELLA SERA, 22-10-24, Massimo Franco

La lunga marcia tra la Cina e la Santa Sede

La fotografia custodita nei faldoni dell’Archivio Apostolico vaticano è datata 8 settembre 1951. Ritrae un sacerdote un po’ emaciato in clergyman chiaro, estivo, che dopo essere sceso dal treno si avvia verso un futuro ignoto, circondato da un piccolo codazzo di autorità. È l’immagine di Antonio Riberi, ultimo nunzio vaticano in Cina, che arriva in treno a Hong Kong, allora ancora protettorato britannico, dopo l’espulsione da parte del regime comunista di Mao Zedong. Ora che il Vaticano si accinge a confermare per la terza volta l’accordo biennale «provvisorio e segreto» con Pechino, stipulato per la prima volta nell’autunno del 2018, quella foto assume il significato di un doppio emblema.

Il primo è quanto traumaticamente i rapporti tra cattolicesimo e Cina comunista si siano interrotti per quasi settant’anni. Il secondo è come, soprattutto per volontà della Santa Sede e di Francesco, si stia cercando di ricucirli, riducendo una frattura figlia della Guerra fredda e mai saldata completamente. Il dialogo prosegue. Anzi, forse il termine di due anni non solo sarà rinnovato ma prolungato nella sua durata. Il ristabilimento di relazioni diplomatiche, tuttavia, appare ancora lontano. Pechino non accetta neppure l’idea di permettere al Vaticano di aprire una «posizione stabile»: una sede informale sul suo territorio, nonostante le richieste dirette venute dal segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin.

Al momento, l’unica presenza è quella della «missione di studio cattolica» a Hong Kong, oggi territorio amministrato dalla Cina continentale, dopo la restituzione da parte della Gran Bretagna, avvenuta nel 1997. Ma si tratta di una presenza soltanto tollerata: in particolare dopo le proteste contro il regime di Pechino esplose tra il 2017 e il 2019, durante le quali molti esponenti della minoranza cattolica dell’ex isola-Stato sono stati considerati tra i fomentatori delle manifestazioni, represse con il pugno di ferro e molti arresti. Il caso più eclatante è stato quello del cardinale novantenne Joseph Zen, arrestato nel maggio del 2022 in seguito a quei moti di piazza.

D’altronde, la Cina non ha mai voluto che il contenuto dell’accordo segreto del 2018 fosse reso pubblico; e il Vaticano ha accettato quella condizione imprescindibile, conscio del fatto che si tratta di un’intesa asimmetrica, nella quale a tenere il coltello dalla parte del manico sono i cinesi. Ma a conferma della fragilità delle relazioni col regime di Xi Jinping, e della precarietà della «missione di studio», nel luglio del 2019 il Vaticano ha deciso in gran segreto di trasferire tutti gli archivi di Hong Kong per evitare che potessero cadere nelle mani della polizia. Con una triangolazione con la nunziatura a Manila, nelle Filippine, sono stati trasportati da lì all’allora Archivio Segreto vaticano.

Tuttora Pechino controlla in modo occhiuto quanto avviene in quell’ufficio a Hong Kong. Si parla di lettere indirizzate nella Cina continentale, per chiedere informazioni sui possibili vescovi da nominare, intercettate dalla polizia; di vigilanza su tutte le persone che la frequentano; di un atteggiamento ostile di fronte a ogni richiesta. È la conferma di un rapporto che avanza faticosamente, sebbene papa Francesco abbia indicato ripetutamente la volontà di visitare quel Paese; e di incontrare il suo leader, il quale finora ha evitato qualsiasi contatto. Quando arrivò a Roma in visita ufficiale, nel marzo del 2019, Xi Jinping si è guardato bene dall’andare in Vaticano.

Eppure il pontefice argentino, teorico di una Chiesa «post-occidentale», aveva fatto sapere che la sua agenda non prevedeva incontri in quei giorni: un modo indiretto per dirsi pronto a un colloquio con il leader. E sia dopo la repressione delle proteste a Hong Kong, sia quando sono uscite notizie precise sulla persecuzione della minoranza cinese musulmana degli Uiguri nell’ovest della Cina, il Vaticano non ha voluto prendere posizioni che potessero irritare Pechino. Su Hong Kong implicitamente ha avallato la tesi, non sgradita alle autorità comuniste, secondo la quale dietro quelle rivolte non c’era solo la violazione dei diritti umani e dei principi della democrazia.

È stato evocato lo zampino degli Stati Uniti: anche perché si è sempre detto che il cardinale Zen in passato aveva ricevuto corposi finanziamenti da alcuni circoli conservatori americani. Ripetutamente, anche nei mesi scorsi, gli emissari di Washington non hanno nascosto sia nei loro resoconti riservati, sia in maniera esplicita negli incontri con la diplomazia vaticana, il disappunto per la strategia di pacificazione tra Santa Sede e Cina perseguita da Francesco. L’ombra di un Vaticano che punta sul gigante asiatico più che sulla relazione storica con l’Occidente è osservata con un misto di stupore e preoccupazione. La prospettiva di un papato in bilico tra l’essere post-occidentale e essere percepito anti-occidentale a Washington dà i brividi.

La conferma è offerta dall’inquietudine crescente delle autorità di Taiwan. Nella «Repubblica di Cina», come si autodefinisce, provocando l’ira e le minacce sempre più teatrali di Pechino, che la considera una sua provincia da riportare quanto prima sotto la sua totale dominazione, diffidano del papa. Tradiscono quella che un esponente vaticano ha definito «un’agitazione paranoica», mentre le manovre militari della flotta cinese nello stretto tra Taiwan e Cina si intensificano. Hanno paura che la Santa Sede sacrifichi le relazioni diplomatiche con il governo di Taipei, uno degli ultimi residui della Guerra fredda, sull’altare di quelle con Pechino.

Sarebbe una cesura mortale, per Taiwan, perché la Santa Sede è l’ultimo Stato occidentale a mantenerle, oltre a una decina di nazioni minori sparse tra America Latina e isole dell’Oceano Pacifico: nel corso del tempo la Cina l’ha isolata anche sul piano internazionale. E una delle premesse per discutere di una possibile ricostruzione delle relazioni diplomatiche con la Santa Sede è la rottura di quelle tra il Vaticano e l’«isola ribelle»: tema delicatissimo perché implica anche quello dei rapporti con l’Occidente che considera Taiwan il suo avamposto asiatico più simbolico, oltre che di importanza strategica.

Il problema al momento non si pone, è la risposta costante dei diplomatici vaticani. «E non perché non le vorremmo noi, ma perché le relazioni diplomatiche non le vogliono a Pechino». Forse non sarà una spiegazione rassicurante, ma sembra sincera. Conferma quanto pesi l’eredità del passato. Nell’Archivio Apostolico giacciono migliaia di dispacci risalenti alla fine degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, che raccontano una guerra non religiosa ma tutta politica e ideologica. Sono rapporti scritti in inglese, italiano, francese, oltre che in latino, nei quali si raccontano le campagne di odio contro i missionari cattolici e protestanti «stranieri» da parte dei «rossi». I sacerdoti sono descritti come «spie», «informatori», «sfruttatori» dei poveri cinesi.

All’inizio, venivano accusati di agire e manovrare contro il popolo per conto degli odiati giapponesi, o dei nazionalisti del Kuomintang: il governo sconfitto dalle truppe di Mao Zedong e costretto a riparare, appunto, a Taiwan. Era una propaganda, retaggio dell’occupazione spietata dei giapponesi prima e durante la Seconda guerra mondiale; poi della guerra civile cinese. Ma anche della realtà di un colonialismo occidentale che usava il cristianesimo come «braccio morale»: un ruolo che gli sarebbe stato imputato al momento della cacciata delle potenze europee. Una lettera di dieci pagine in francese sull’«Azione comunista contro la Chiesa», datata 10 ottobre 1947, riferiva che «l’ostilità contro la Chiesa dopo il ritorno dal campo di concentramento era ben marcata. Ci dicevano: “Ora combattiamo i giapponesi, ma dopo la guerra sarà il turno della Chiesa cattolica, il nostro più grande nemico”...».

Ma il problema non era tanto la religione, quanto l’idea di una presenza occidentale umiliante, alla quale il cattolicesimo era associato, con qualche fondamento. Quando scoppiò il conflitto tra le due Coree, i missionari europei, 3.000 nel 1947, rispetto ai 2.348 cinesi, erano diventati «agenti degli americani». E, come tali, prima oggetto di una campagna di denigrazione martellante; poi privati delle proprietà e allontanati dalle 2.000 chiese, dai 308 orfanotrofi, dai seminari; e, alla fine, arrestati, torturati e poi espulsi. Il Vaticano, fiutando l’aria attraverso dispacci sempre più drammatici, alla fine aveva dato istruzioni segrete affinché i suoi diplomatici, trasferitisi da Pechino a Nanchino inseguiti dalle truppe di Mao, provassero a resistere rinunciando alla carta intestata del Vaticano, e presentandosi come semplici sacerdoti.

Fu tutto inutile. Il regime non riconosceva nessun trattato o rapporto diplomatico stipulato prima della sua presa del potere. Nell’Archivio Apostolico vaticano si può leggere una lettera in inglese, datata 1° febbraio 1947, proveniente da Chou En-Lai, «Segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese», residente a Kuo Fu Road, Nanchino, e indirizzata al «Signor Antonio Riberi», il nunzio papale. «Caro Signore», comincia Chou En-Lai. E gli comunica di essere stato «autorizzato» a dirgli che «questo partito non riconoscerà né ora né in futuro qualunque prestito straniero o trattato che danneggia il Paese e viola i suoi diritti, nessuno degli accordi e intese del Kuomintang dopo il 10 gennaio 1946, né riconoscerà negoziati diplomatici che non saranno approvati dal Partito...».

Significava annullare gli impegni presi dal Kuomintang «con alcuni governi stranieri», nei quali era evidentemente inclusa la Santa Sede, identificata con papa Pio XII, definito «agente dell’imperialismo americano»: un pontefice che, scriveva in un dispaccio custodito nell’Archivio l’agenzia sovietica Tass in quei mesi, «insultava e calunniava la Cina». Per il «signore Riberi» la sorte era segnata, benché all’inizio il regime mostrasse un volto tollerante, rispettoso della libertà religiosa. Una lettera dello stesso Chu En-Lai a padre Patrick O’Connor da Yenan, il 28 gennaio del 1947, assicurava che «la libertà di pensiero è uno dei principi fondamentali dei governi delle Aree liberate».

Ma due anni dopo, lo sfondo era cambiato anche a causa della situazione internazionale. E nel 1951 gli spazi per la permanenza di un rappresentante ufficiale del Vaticano in Cina si erano chiusi del tutto, complice la Guerra fredda e la posizione papale contro il comunismo sovietico e i suoi alleati internazionali. Monsignor Riberi fu mandato agli arresti domiciliari il 26 giugno del 1951. E pochi giorni dopo toccò anche al suo segretario, monsignor Giuseppe Caprio. Non potevano telefonare, né ricevere visite. Due soldati piantonavano la loro residenza a Nanchino. Passò qualche mese, e l’ambasciatore birmano seppe durante un ricevimento a Pechino che Riberi era «candidato all’espulsione», mentre riteneva «improbabile un processo per spionaggio».

Era ben informato. Il 6 settembre fu ufficializzato che il nunzio vaticano, investito da una campagna denigratoria ininterrotta, era stato cacciato dalla Cina. E con lui la presenza formale del Vaticano. La foto scattata a Hong Kong l’8 settembre del 1951 segnava la chiusura di un’epoca.

Ma dopo un lungo silenzio e una teoria di segnali cifrati, prima la «lettera ai cinesi» di Benedetto XVI del maggio del 2007, e nel 2018 l’accordo voluto da Francesco cercano di aprirne una nuova; e di alleggerire la zavorra di un passato che continua a essere vissuto da alcuni settori del Partito comunista cinese, e dello stesso mondo cattolico, come ingombrante.

Finora, grazie a quell’intesa si è calcolato che sono state concordate tra Roma e Pechino le nomine di nove vescovi. La Santa Sede sta facendo quasi di tutto per dimostrare la sua amicizia e la sua pazienza. Il Vaticano ha ripetuto agli americani riservatamente che «non vuole fare a pugni con i cinesi». Ma sembra consapevole che, una volta tanto, la Cina ha tempi mentali più lunghi e intricati di quelli di una Chiesa millenaria.

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