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giovedì 22 agosto 2024

Considerazioni intorno a “Piccolo lessico del fine-vita”

Alcuni approfondimenti sull'ultimo, pessimo, documento della Pontificia Accademia per la Vita.
QUI MiL sul tema.
Luigi C.



Lo scritto si propone di fornire una prima nota di lettura del documento “Piccolo lessico del fine-vita”, curato dalla Pontificia Accademia per la Vita.

1. L’obiettivo del libro “Piccolo lessico del fine-vita”.

Il “Piccolo lessico del fine-vita”, curato della Pontificia Accademia per la Vita, si propone l’obiettivo di dimostrare come anche dall’impostazione moderna, se razionalmente intesa, possano trarsi indicazioni sul fine vita compatibili con il messaggio evangelico e l’antropologia cristiana.
Si propone di dialogare con i diversi linguaggi morali del contesto pluralista cercando, in certo modo, di “scrivere dritto sulle righe storte”.
Questo obiettivo è certamente apprezzabile, laddove si propone di parlare un linguaggio universale rivolto anche ai non credenti: in questo, il libro manifesta certamente maggiore utilità per l’operatore giuridico e politico, prima ancora che per il credente.
Anche in questa prospettiva laicale, peraltro, l’impostazione del testo appare eccessivamente accondiscendente rispetto alle istanze più lontane dall’antropologia cristiana, nella misura in cui rinuncia a compiere il passaggio conclusivo del ragionamento, ossia – in prospettiva laica – dimostrare che una delle tesi oggetto del dialogo può essere vera in senso oggettivo a discapito delle altre e – in prospettiva religiosa – che l’oggettiva Verità risiede nel messaggio di Gesù Cristo, cui peraltro il libro riconosce valore di “senso etico universale” (pag. 12).

2. L’auspicio di una legge sul suicidio come “legge imperfetta”, con profili di superamento del Magistero.

Per esemplificare quanto da ultimo osservato, si considerino i seguenti passaggi.

Si esalta nel libro l’utilità del dialogo “tra tutti i portatori di diverse prospettive morali e differenti comprensioni del bene” per raggiungere “autentiche soluzioni condivise”, “un percorso di apprendimento reciproco”, “forme concrete e praticabili del bene comune e dell’amicizia sociale” (pag. 10), ma si sfuma la necessità del suo tendere verso un bene oggettivo, sempre indicato in modo piuttosto vago e tautologico come il bene integrale della persona umana nella sua globalità (pagg. 8, 58, 63).

Tanto è vero che si invoca, in alcuni casi (v. voce Nutrizione e idratazione artificiali, Proporzionalità dei trattamenti), la logica della valutazione del caso concreto (“discernimento”, pag. 56) oppure una valutazione relativizzante delle caratteristiche del trattamento rispetto alla sua oggettiva funzione.

Si predica la correlazione fra etica e diritto, ma con un ragionamento assai contorto (pagg. 10-11) si giunge ad ammettere la bontà intrinseca di “mediazioni sul piano legislativo, secondo il tradizionale principio delle ‘leggi imperfette’” (pag. 12).

In questa prospettiva, si auspica l’introduzione di una legge sul suicidio assistito come “legge imperfetta” (pagg. 70-72). In proposito, si prende espressamente atto che il Magistero si attesta su posizioni diverse e si cita al riguardo anche l’ultima Dichiarazione del Dicastero per la Dottrina della Fede, approvata pochi mesi fa da Papa Francesco, Dignitas infinita (parr. 34, 51 e 52) (“alcuni ritengono che occorra opporsi anche a qualunque soluzione legislativa che ammetta l’assistenza al suicidio. È la prospettiva in cui si pone anche la recentissima Dichiarazione Dignitas infinita”, pag. 70), ma si afferma che quest’ultima Dichiarazione non si sarebbe “impegna[ta] in un approfondimento complessivo dei rapporti tra dimensione etica e soluzioni legislative” (pag. 70): si critica, quindi, espressamente un documento rientrante nel magistero ordinario del regnante pontefice (che i documenti della Congregazione, ora Dicastero, per la Dottrina della Fede, approvati espressamente dal Papa, partecipino al magistero ordinario del successore di Pietro è confermato dalla Istruzione Donum Veritatis, par. 18).

Per tale via, si giunge ad affermare che “possono emergere ragioni per interrogarsi se, in determinate circostanze, possano ammettersi mediazioni sul piano giuridico in una società pluralista e democratica, in cui anche i credenti sono chiamati a partecipare alla ricerca del bene comune che la legge intende promuovere” (pag. 70).

Dopo la decisione della Corte Costituzionale, n. 242/2019, secondo il libro, “far mancare il proprio apporto alla ricerca di un punto di convergenza tra differenti opinioni” mediante una legge parlamentare “rischia, da una parte, di condurre a un esito più permissivo e, dall’altra, di alimentare la spinta a sottrarsi al compito di partecipare alla maturazione di un ethos condiviso. Contribuire a individuare un punto di mediazione accettabile fra posizioni differenti è un modo per favorire un consolidamento della coesione sociale e una più ampia assunzione di responsabilità verso quei punti comuni che sono stati insieme raggiunti” (pag. 70).

In verità, siffatta impostazione sembra superare lo stesso concetto di “legge imperfetta” di cui al Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, par. 570, evocato alla pag. 12 del libro e sviluppato riguardo al suicidio assistito.

Infatti, il ricorso alla dottrina della “legge imperfetta” richiede presupposti che non sembrano ricorrere nella specie, quali, segnatamente, l’impossibilità oggettiva di scongiurare altrimenti l’attuazione di programmi politici contrari ai principi e ai valori cristiani. Al riguardo, è appena il caso di osservare che la sentenza della Corte Costituzionale n. 242/2019 è stata emessa in risposta a un contesto fattuale di disobbedienza affatto peculiare, mentre al contrario la stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha affermato che niente impone agli Stati europei di individuare alcune fattispecie in cui l’aiuto al suicidio debba essere scriminato (cfr. sentenza 13 giugno 2024, Karsai). Anche sul piano giuridico, quindi, vi sono strade ben diverse dalla legge sul suicidio assistito per riaffermare i valori antropologici cristiani in materia.

Inoltre, una “legge imperfetta” si caratterizza per l’attitudine a limitare i dannidi tali programmi e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica, mentre i fatti hanno dimostrato che in materia di fine vita l’effetto dell’approvazione di leggi del genere è esattamente l’opposto, ossia piuttosto l’aggravamento di tali danni. L’approvazione di una legge su questi temi, infatti, costituisce sistematicamente il punto di partenza per ulteriori fughe in avanti. Emblematico il caso della legge sulle DAT, approvata nel 2017, e veicolo al quale si è agganciata la Corte Costituzionale per dichiarare illegittimo l’art. 580 del codice penale sull’aiuto al suicidio.

Fra leggi e sentenze si instaura una dinamica di “progressione” che il libro non considera. Tale dinamica prosegue per binari prevalentemente indipendenti dal “controllo” di chi elabora la legge, apparendo quindi strutturalmente vano il generico invito a “vigilare con attenzione” rivolto a pag. 71.

Pertanto, una legge che positivizzasse i principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 242/2019, come auspicato dal libro, costituirebbe sicuro punto di partenza per ulteriori sviluppi e dilatazioni giurisprudenziali.

Auspicare l’emanazione di una legge sul suicidio assistito senza tener conto di tale dinamica appare, in effetti, un difetto di prospettiva di non lieve momento.

3. La possibilità (o doverosità) di interrompere in alcuni casi nutrizione e idratazione artificiale.

Considerando una prospettiva più propriamente confessionale, colpisce come il libro rinunci espressamente a riaffermare la dottrina classica del Cattolicesimo, rivendicando in modo esplicito di trattare la nozione di vita umana “senza mai ricorrere alla categoria di sacralità o di indisponibilità” (pag. 8).

Inoltre, il libro si caratterizza per rileggere alcuni documenti dottrinali sulla base di valutazioni del caso di singolo o comunque volte a relativizzarne il contenuto.

Ad esempio, in relazione a Nutrizione e alimentazione artificiali, se ne afferma dapprima con apparente certezza la natura di trattamento sanitario (pag. 54), salvo poi esplicitare la necessità di offrire una definizione univoca del concetto (pag. 74), segno che tale qualificazione così univoca non può, in definitiva, considerarsi neppure secondo l’impostazione del libro stesso.

A ogni buon conto, il libro mostra di condividere pienamente la legge sulle DAT che consente il rifiuto di Nutrizione e idratazione artificiali (“il medico è tenuto a rispettare la volontà del paziente che le rifiuti con una consapevole e informata decisione, anche anticipatamente espressa in previsione dell’eventuale perdita della capacità di esprimersi e di scegliere”, pag. 54). Si giustifica espressamente la possibilità (se non addirittura la doverosità) di sospenderle nelle “malattie in cui si protrae uno stato di incoscienza prolungato con possibilità praticamente nulle di recupero” (pagg. 54-55). Ciò sulla base di una interpretazione quanto mai estensiva e atecnica del concetto di “malattia”, che riguarderebbe non una alterazione di una particolare funzione dell’organismo, ma la “globalità della persona” (pagg. 55-56).

Per cercare di attenuare il contrasto di siffatte conclusioni rispetto alla dottrina consolidata, si invoca il “versatile” concetto di “discernimento” al fine di interpretare le risposte fornite dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 2007 ai quesiti della Conferenza Episcopale Statunitense circa l’alimentazione e l’idratazione artificiali, ove si ribadiva l’obbligatorietà morale di nutrizione e idratazione anche per i pazienti in stato vegetativo permanente (“la prescrizione formulata dalla Congregazione possiede quindi una validità generale, che però chiede di essere declinata con discernimento nei casi concreti”, pag. 56 del libro).

Si dà poi una lettura soggettivistica del principio di Proporzionalità dei trattamenti, superando le dichiarazioni di Pio XII del 1957 e la Dichiarazione sull’Eutanasia della Congregazione della Dottrina della Fede del 1980 (“Questo modo di esprimersi, infatti, pur utilizzato in documenti ecclesiali nel passato (cf. Pio xii 1957b; CDF 1980), incorre nel rischio di concentrare l’attenzione più sulle caratteristiche oggettive dei mezzi terapeutici che sulla relazione di cura all’interno della quale essi vengono impiegati”, pag. 64): “anche qualora fossero appropriati clinicamente, i trattamenti potrebbero tuttavia risultare sproporzionati, qualora la persona malata li ritenesse troppo gravosi nelle circostanze in cui si trova” (pag. 64). Così opinando, tuttavia, si ribalta il senso della Dichiarazione sull’Eutanasia della Congregazione della Dottrina della Fede del 1980, che ritiene eticamente legittimo il rifiuto delle sole cure straordinarie, mentre la soggettivazione del giudizio di proporzionalità proposta dal glossario legittimerebbe eticamente anche il rifiuto delle cure ordinarie, in piena conformità peraltro con la logica delle DAT, operando confusione fra principio di proporzionalità e volontà soggettiva.

In questo modo, nella voce Eutanasia, per il resto nel complesso chiara e ben impostata, si giunge a definire come “legittimo, anzi doveroso, porre fine a un trattamento (anche di sostegno vitale) che si valuta come sproporzionato” (pag. 45). Concetto che, come evidente, si presta ad ampie strumentalizzazioni, anche per l’intrinseca vaghezza del concetto di proporzionalità.

Scivoloso può essere altresì l’uso che viene fatto dei passaggi della Dichiarazione sull’Eutanasia della Congregazione della Dottrina della Fede del 1980 riferiti all’onerosità delle cure. In quella dichiarazione, si affermava la legittimità morale (“non equivale a suicidio”) della volontà del paziente di “accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire” senza ricorrere a cure straordinarie, giustificando tale rifiuto fra l’altro con la possibile “volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia o alla collettività”. Nel glossario, invece, si inserisce il piano economico come uno degli elementi che concorrono con gli altri alla valutazione della proporzionalità del trattamento (pag. 63) e a definire il perimetro della nozione di accanimento terapeutico (pag. 58).

Molto scivolosa appare anche la voce Medicina intensiva, laddove si qualifica come “fondamentale l’attenzione a rimodulare i trattamenti – attivati nelle fasi iniziali in situazioni talvolta segnate da notevole incertezza – in relazione all’evolversi della situazione clinica, riconoscendo l’esigenza di modificarli o eventualmente di sospendere quelli intrapresi, e di avviare o incrementare percorsi di cure palliative” (pag. 47). All’apparente ragionevolezza dell’affermazione, fa da contraltare l’applicazione che di essi può esserne fatta in concreto: si pensi ai casi dei bambini inglesi cui è stata negata la prosecuzione dei trattamenti contro la volontà dei genitori, casi nei quali è stato applicato esattamente un criterio del genere di quello sopra esposto. Al riguardo, si dedica un’apposita voce ai casi di Medicina intensiva neonatale e pediatrica, ma essa non si pone in termini di discontinuità netta con la prassi del sistema sanitario inglese, invocando anzi un concetto di “confort” non estraneo a tale sistema e criticando la risonanza mediatica dei casi che avrebbe accentuato la “polarizzazione” delle posizioni di genitori ed equipe mediche (pag. 50).

Quanto alla voce Ostinazione irragionevole nelle cure, essa rimane in sé piuttosto generica, pur non disdegnando una stoccata verso i familiari dei pazienti gravemente malati, in quanto “talvolta tendono a incoraggiare forme di ostinazione”. Giudizio che certo non aiuta a creare quella serenità nella relazione di cura che pure il documento correttamente auspica.

4. L’aperto sostegno alla legge sulle DAT e il suggerimento di un modulo di DAT.

La legge sulle DAT, n. 219/2017, viene ampiamente apprezzata nel volume, al punto che esso si conclude con una appendice contenente un dettagliato modulo di indicazioni utili per compilare un modello di DAT.

Il glossario si limita a qualche rigo, inserito a metà voce, per affermare che anche le DAT “non sono prive di ombre” (pag. 35), ma si affretta immediatamente ad affermare che, “nonostante questi limiti, tuttavia, rimane il fatto che le DAT costituiscono il riferimento obbligato di valutazione, in caso di definitiva incapacità decisionale. Il loro valore non può ritenersi meramente orientativo”, ma vincolante (pag. 36).

Questo convinto sostegno al meccanismo delle DAT appare indicativo del risultato cui rischia di condurre l’impostazione di fondo del libro, ossia un inevitabile arretramento rispetto alle posizioni antropologiche fino a oggi costantemente sostenute.

5. Le voci maggiormente apprezzabili del glossario.

Nondimeno, proprio per la sua impostazione fondamentalmente “laica”, il glossario si presta ad apportare alcuni argomenti utili nel ragionamento civile sul tema del fine vita.

Particolarmente rilevanti in tal senso possono essere le voci Accompagnare e Cure Palliative. Si evidenzia, in particolare, che l’accompagnamento del morente richiede “un grande lavoro su di sé” anche per chi lo affianca: “occorre riconciliarsi con l’impotenza, anche oltre il campo specifico dell’intervento medico. È un’impresa particolarmente difficile nell’epoca dell’efficienza tecnica centrata sul controllo e sul risultato. Si tratta di un atteggiamento che richiede, pure da parte dei curanti, una seria rilettura della propria esperienza, includendo la consapevolezza della finitezza e della mortalità, anche proprie. Concretamente, significa riconoscere che attraverso la morte si tocca il confine del tempo in cui si compie l’esistenza, che assegna un termine non rinviabile allo svolgersi delle nostre azioni. Accettare questo confronto è un esercizio austero” (pag. 20).

La voce Autonomia e autodeterminazione risulta impostata in modo attento ed equilibrato. Essa offre validi argomenti per contestare il concetto di autodeterminazione assoluta, evidenziando che “l’uomo esercita sempre un’autonomia in relazione, cioè situata in uno spazio e in un tempo, in determinate reti di rapporti con gli altri (le reti familiari e sociali, la cui mancanza – qualora si dia – è riconosciuta come difetto), a partire dall’inizio dell’esistenza fino alle condizioni di fragilità che caratterizzano la malattia. Si tratta di fattori che certamente limitano, ma che allo stesso tempo rappresentano, la concreta condizione di possibilità di ogni scelta e aprono all’integrazione e al rapporto con gli altri nello sviluppo delle decisioni che disegnano la fisionomia dell’esistenza” (pag. 24).

Argomenti, questi, particolarmente profondi e importanti per dimostrare l’oggettiva erroneità di quelle impostazioni che riducono il concetto di libertà personale a quello di assoluta autodeterminazione individuale.

Francesco Farri

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