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martedì 13 agosto 2024

Arte cristiana; "I pittori aretini"

La grande arte cattolica in Italia.
Luigi C.

Mauro Loreti, Schola Palatina,  14 Febbraio 2024

Dal 1303 al 1325 si legge nei documenti antichi di Toscanella il nome di Ser Secondiano Diotabive, notaio, procuratore del Comune, avvocato, rappresentante del consiglio municipale e della popolazione in tante occasioni ed appartenente ai guelfi. Egli, molto ricco, chiamò a Tuscania gli artisti Gregorio e Donato d’Arezzo, che avevano lavorato come frescanti col grande Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova; essi furono tra i migliori suoi collaboratori.

Negli anni 1303-1305, mentre dipingeva a Padova, Giotto ricevette anche la visita di Dante Alighieri, suo grande estimatore. Tuscania era una delle città italiane che, oltre ad interessarsi delle attività economiche ed amministrative, voleva glorificare la fede cristiana anche con le opere artistiche, pedagogiche e didattiche.

Il Giudizio Universale

I due pittori vennero perciò a Tuscania e, dipingendo il Giudizio Universale nella chiesa di Santa Maria Maggiore, raggiunsero un’arte profonda. Il tema è simile a quello di Padova e Secondiano viene messo nella scena. Nelle foto precedenti al 1971 si nota anche l’immagine di Secondiano offerente in ginocchio ai piedi della Croce ed il suo nome. Il committente fa parte della stessa narrazione nell’affresco, in cui notiamo Cristo Giudice col volto sereno, la Vergine Maria Sua madre, gli Apostoli e gli eletti alla Sua destra nel Paradiso. Alla Sua sinistra ci sono i condannati in mezzo al fuoco, inghiottiti dal cetaceo infernale tramite Lucifero. Gli eletti iniziano ad ascendere verso il regno dei Cieli, mentre i dannati sprofondano nell’inferno.

L’Annunciazione, la Natività e l’Assunzione si ammirano nelle pareti laterali contigue al Giudizio. Questi affreschi sono rari e molto interessanti e presentano tratti simili a quelli di Padova. Il linguaggio artistico è plastico e naturalistico e l’ispirazione fu data dal teologo agostiniano Alberto da Padova. Molto caratteristici sono i volti realizzati di profilo. Nell’insieme c’è l’illusione della prospettiva, per cui sembra che la pittura vada oltre la superficie della parete.

Tra bene e male

L’opera spiega ai Cristiani che gli uomini sono di fronte alla scelta del bene o del male. Come a Padova la cappella degli Scrovegni, a Tuscania Santa Maria Maggiore è il tempio della giustizia divina. Nel 1883 l’arciprete di Toscanella, mons. Giuseppe Di Lorenzo, scrisse che questa bellissima pittura del giudizio universale «presenta i caratteri dello stile giottesco: corretto il disegno, varietà nelle teste, freschezza nelle carni, espressione di affetti, eleganza nei contorni, morbidezza nell’impasto, vivezza nei colori, nelle grandiose figure dell’eterno Giudice, dei profeti, degli apostoli, di tutti gli eletti e nelle altre parti del magnifico quadro.

Nell’alto della parete in un trono formato da un’iride, circondato da angeli, sta il Redentore; siedono ai lati, sottoposti, i dodici apostoli e danno sentenze: a destra, sotto di essi, segue lo stuolo degli eletti, Adamo ed Eva, i patriarchi, i re, i profeti dell’antica legge. Maria di Nazareth, di caro e soave aspetto, presenta la vecchia sua madre, sant’ Anna. Seguono il popolo cristiano, Papi con una sola corona, Vescovi, sacerdoti, religiosi, laici, sotto i quali, al suono delle angeliche trombe, si addensano turbe di genti che, allo scoperchiar delle tombe, attonite riprendono i loro corpi.

Nel centro del quadro si leva alta la croce con i segnali della Passione; ma terribile e spaventoso esce un torrente di fuoco dal trono dell’eterno Giudice che, ampiamente, dilaga a sinistra e investe ed affuoca la massa dannata. Vedi angeli con lunghe forche cacciare e sospingere le anime ree entro la valle dal fuoco allagata, ove sono demoni di orrido ceffo ai tormenti, demoni che le graffiano con artigli e, tormentate e guaste, le rovesciano a precipizio entro un vaso che Lucifero, di smisurato e terribile aspetto, ha fisso sopra il capo: quivi, tratte dai mali spiriti, le anime s’impozzano e, passando maciullate e mal digeste, per lo smisurato ventre del gran Vermo, miste a pioggia di fuoco, cadono nell’ampia bocca di un dragone.

La fiera infernale, con occhi di brage, colle adunche mani tiene afferrato il traditor di Cristo mentre un serpente lo allaccia per le gambe, pel collo a grandi spire e, addentatolo nella faccia, gli rende il bacio che aveva dato a Cristo. Molte altre scene di tormenti e tormentati sono nella dolorosa valle».

Grazie a questa decorazione il committente dette a tutta la città la prova tangibile della sua importanza e della sua ricchezza. Aumentarono poi le sue relazioni ed il suo prestigio personale, i suoi affari ed i suoi profitti. Un altro affresco con la Madonna, Gesù Bambino e san Secondiano si può ammirare nella parete laterale della navata destra.

Il Lignum vitae Christi

Gli aretini lavorarono anche nella chiesa di San Silvestro, dove dipinsero il «lignum vitae Christi» e tradussero in immagini il testo di san Bonaventura da Bagnoregio, che nel 1260 scrisse questo libro per accendere nei cristiani il ricordo della vita di Gesù Cristo. Vi sono dipinti anche la Vergine, san Giovanni, i profeti Ezechiele e Daniele, Mosè, sant’Agnese ed il profeta Isaia. L’albero è distinto in dodici rami di quattro frutti ciascuno, secondo il modello della Sacra Scrittura; nei più bassi la nascita e la vita del Salvatore, al centro la Passione ed in alto la glorificazione.

Gli artefici del dipinto sapevano che i loro manufatti erano destinati a sostenere le funzioni liturgiche. Nel Medioevo dipingere era come un atto di devozione, per mezzo del quale l’artista s’immaginava la vita futura nell’eternità. La pittura insegnava agli ignoranti che, pur senza istruzione, “leggevano” i dipinti. I manufatti erano destinati ad assolvere il compito di sostenere le funzioni liturgiche del popolo e la pratica religiosa.

L’opera pittorica degli aretini si sviluppò anche nella chiesa di San Pietro dove, nella cripta, dipinsero i tre santi martiri protettori della città: Secondiano, Veriano e Marcelliano col vessillo con la croce bianca in campo amaranto. Le loro opere sono la Bibbia dei poveri, in cui umano e divino si fondono.

Dante tra gli estimatori

Nell’anno 1814 lo scrittore Filippo De Romanis, nella sua opera sull’originalità della Divina Commedia, approfondendo la cantica dell’inferno, scrisse: «Ed il dottissimo assessore della S. R. ed inquisizione, Monsignor Francesco Antonio Turriozzi, oriundo di Toscanella, molto erudito delle patrie antiche memorie, ci ha comunicato, confessiamolo pure, la notizia di un’antichissima pittura esistente in quella chiesa Collegiata di Santa Maria, che esprime il giorno dell’universale giudizio, in cui merita particolare attenzione la figura gigantesca di un infernale dragone che ingoia, colla bocca smisurata, le anime spintevi da altri demonj e, poi, le restituisce da tergo tormentate e malconce…

Né è inverosimile, dicono altri, che Dante, viaggiando, vedesse in Orvieto le sculture di Nicolò Pisano ed in Toscanella l’antica pittura testé nominata. Egli descrive con tanta frequenza e con tanta esattezza molte cose di quelle contrade che sembra quasi impossibile ne potesse additare le precise circostanze, senza averne avuta personale cognizione».

La professoressa Laura Pasquini dell’Università di Bologna ha scritto che Dante «forse poté apprezzare lo spaventoso Lucifero affrescato nel Giudizio Universale della basilica di S. Maria Maggiore a Tuscania». Gli artisti di Arezzo, oltre che a Tuscania, realizzarono le loro opere anche a Viterbo, Bracciano, Tarquinia, San Martino al Cimino, Montefiascone e furono, tra i continuatori, i maggiori artisti giotteschi della scuola toscana.


FONTE IMMAGINE: Tuscia Web (https://www.tusciaweb.eu/)