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martedì 3 ottobre 2023

San Francesco: «l’uomo nuovo donato al mondo»

Riprendiamo un articolo dell'anno scorso di Campari & de Maistre.
Preghiamo S. Francesco d'Assisi nel giorno della vigilia della sua festa.
Luigi

di don Samuele Pinna, 4-10-22

Francesco d’Assisi è stato definito da Gioberti «il più poetico e il più italiano de’ nostri santi» e considerato l’alter Christus, alter perché imago, “a immagine”. A un certo punto della sua vita, in lui cresce sempre più il desiderio di Dio che sfocia nella vocazione religiosa, inizialmente compresa con fatica. È un passo celebre quello in cui lo stesso Assisiate fraintende la volontà divina: «“Francesco, va’ e ripara la mia casa che, come vedi, è tutta in rovina!”.

All’udire quella voce così meravigliosa, Francesco […] si concentra tutto nella missione di riparare la chiesa di mura, benché la parola divina si riferisse principalmente a quella Chiesa che Cristo acquistò con il suo sangue» (Legenda major). Una condizione decisiva per costruire, invece, la propria umanità – non in modo anarchico, ma per giungere al proprio compimento – è saper rileggere con intelligenza (intus legere) quanto si è chiamati a essere. L’autorealizzazione – tanto invocata nel nostro tempo – abbisogna di un tempo di maturazione e di comprensione spirituale (non solo psicologica), di crescita umana che, per l’appunto, richiama un riferimento imprescindibile, quale fondamento della vita. È il riconoscimento del trascendente, dell’intrinseco bisogno dell’Altro, perché «nella vita – afferma Franco Nembrini – non è vero che è possibile non-dipendere; nel corso della esistenza da qualcuno o da qualcosa si dipende sempre. La scelta è giocata – biblicamente – tra Jahweh e gli idoli. Non si può farne a meno: se rifiuti Jahweh, costruisci il vitello d’oro; tertium non datur». D’altronde – scrivevo –, «eclissando il riferimento a Dio, si è oscurato anche l’orizzonte etico, per lasciare spazio al relativismo e a una concezione ambigua della libertà, che finisce per legare l’uomo a degli idoli. Se Dio non è più il riferimento fondamentale, l’uomo stesso smarrisce il senso ultimo della realtà, non trovando più la sua collocazione nel creato, nella relazione con se stesso, con gli altri, e, ultimamente, con Dio» (Meditazioni sul Concilio, p. 117).

Francesco decide di giocare la sua libertà nella paupertas, consumando il suo matrimonio con Madonna Povertà: «Nessuno fu così avido d’oro – scrive di lui san Bonaventura –, quanto Francesco della povertà». Il Poverello, che dalla sua conversione cresce sempre più nell’abbracciare spiritualmente la regina delle virtù, si scontra, ancora giovane, con il padre per la sua scelta di povertà, cui come alla morte – scrive Dante (Par., XI, v. 60) –, « la porta del piacer nessun diserra» (nessuno apre la porta per il piacere di accoglierla). Il Santo davanti al tribunale ecclesiastico della sua città e sotto gli occhi del padre si spoglia di ogni avere. L’umile frate – quale vero discepolo del suo Signore – ha amato la povertà, senza ideologizzarla: non trova in essa il fine, ma il mezzo per comprendere il significato ultimo dell’esistere. Il fascino che trasmette è dirompente: la povertà diviene il frutto maturo di una scelta evangelicamente libera e non è subita, poiché, al contrario, sarebbe un’ingiusta miseria. Non tutti i cristiani sono chiamati a rinunciare in modo radicale ai beni materiali così come ha fatto san Francesco, ma la sua scelta di vita richiama tutti e ciascuno alla giustizia e a un distacco dalle le cose del mondo. Nella Divina Commedia, il Poeta lo spiega meravigliosamente: la povertà è in grado di attrarre, perché apre alla libertà in cui uno è davvero sciolto da ogni impaccio e non è più schiavo delle cose: « La lor concordia e i lor lieti sembianti, / amore e maraviglia e dolce sguardo / facieno esser cagion di pensier santi » (Par., XI, vv. 76-78).

Parafrasando, la perfetta concordia ( la lor concordia) tra Francesco e la Povertà e la letizia dei loro aspetti (lor lieti sembianti), dei loro volti sereni, unita all’amore e alla felice meraviglia (amore e maraviglia) che apparivano nel loro dolce guardarsi, quasi una sorta di contemplazione, erano motivo di santi pensieri in chiunque li vedesse ( esser cagion di pensieri santi). La povertà del Vangelo è, dunque, una grande ricchezza, sconosciuta però a chi non ne fa esperienza. In essa si trova il fondamento della vocazione francescana: l’uomo ha bisogno di nutrirsi di tante cose a cui, però, può rinunciare per Qualcuno di più importante. In questa relazione costitutiva ogni singola realtà non viene a essere rifiutata ma assume un significato nuovo. Ecco perché nel Cristianesimo ogni cosa è considerata buona: è il fine dell’oggetto, cioè come si impiega (e non l’oggetto in sé), a essere buono o cattivo. Francesco intuisce la novità sorprendente e senza misura che Cristo insegna ai suoi e s’impegna in una vita a imitazione del divin Maestro.

L’amore per il creato a opera del Santo d’Assisi dipende unicamente dalla relazione con Dio (e non può essere ridotto a una sorta di ecologismo sentimentale). Se si legge il Cantico integralmente – tra l’altro, ricorda Angelo Branduardi, Francesco «è stato il primo poeta della nascente letteratura italiana e il Cantico di Frate Sole è stata la prima poesia in volgare» – si scorge «l’infinito dolore che la vita porta con sé – afferma Franco Nembrini –, ci sono il male, la cattiveria; che però, proprio per quel che la realtà dice della natura di Dio, nella partecipazione e nel riconoscimento di quella Presenza possono essere vinti». Persino la morte è considerata dall’Assisiate sorella. Come si vede – precisa Giacomo Biffi –, «san Francesco è del tutto estraneo a quel naturalismo neutro, laicizzato, che esalta le creature senza riferirle a un Creatore, che le ha chiamate all’esistenza e le sostiene continuamente col suo amore.

Egli rabbrividirebbe davanti a questa prospettiva opaca, che non sa leggere in trasparenza sotto ogni cosa la presenza della sapienza affettuosa di Dio». D’altro canto, quella del Santo è l’inclinazione a vedere in Cristo il modello e il fine della creazione che gli permette di rileggere la realtà del mondo come una serie di segni che gli parlano del suo unico amore, quel Crocifisso risorto tanto atteso nella vita fintantoché non l’ha trovato in un autentico rapporto di fede. Sicché, scrive di lui Bonaventura, «non c’è da meravigliarsi: come la pietà del cuore lo aveva reso fratello di tutte le creature, così la carità di Cristo lo rendeva ancor più intensamente fratello di coloro che portano in sé l’immagine viva del Creatore e sono stati redenti dal sangue del Redentore». Essere a immagine di Dio consente di amare ciò che è prossimo, dando alla parola “amore” un preciso significato: è il dono di sé in cui ogni realtà acquista un senso ed è portatrice di un intrinseco significato che non si riduce a un punto di vista soggettivo, ma si disvela nella sua oggettività: L’uomo – scrivevo –, «non può negare la realtà: davanti alle cose avvenute non c’è nessuna forza al mondo che può far sì che non lo siano, neanche Dio. Questo non significa che Dio sia soggetto al tempo, essendone al di là, ma che il tempo è assunto in Lui» (Essere Chiesa nello Spirito, p. 235).Contra factum non valet argumentum, dicevano i latini: è il realismo, l’adaequatio intellectus et rei (corrispondenza tra intelletto e realtà), ossia – spiega Nembrinbi – «quel sentimento dell’essere, dell’esserci delle cose, così pieno di gratitudine, così intelligente dal punto di vista della ragione, che nell’accusare il colpo delle cose che esistono le riconosce immediatamente come segno di qualcosa d’altro. Tutto è segno di altro.

Questo sentimento delle cose come segno, questo sentimento del creato è la cifra della religiosità di Francesco». Per scoprire il “vero” è, però, necessario un confronto con l’autorità costituita: non c’è altra via per chi vuole comprendere se le sue intuizioni siano o meno veritiere. L’Assisiate si presenta, allora, senza paure dinanzi «a papa Innocenzo III, davvero illustre per sapienza» ( Legenda major). Uno dei meriti di questo Pontefice, difatti, fu quello di avere accolto le idee di povertà di Francesco, sebbene in quel tempo in Europa vi fossero gruppi di esaltati che, nonostante il sano desiderio di riscoprire la povertà cristiana, ideologizzavano la fede. Il Santo – racconta Dante – si presenta a Innocenzo III all’apparenza miserabile, mentre il suo portamento è regale: « ma regalmente sua dura intenzione / ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe / primo sigillo a sua religïone » (vv. 91-93). Se la sua richiesta al Papa appariva, infatti, « dura et aspera», tanto che Innocenzo III esitò, incerto se ratificare una tale proposta di vita, alla fine concesse la prima approvazione alla sua Regola (primo sigillo) e al nuovo ordine religioso (a sua religïone). L’umile frate si pone, pertanto, davanti all’autorità regalmente e «questo avverbio – spiega la Chiavacci Leonardi – rovescia decisamente la tradizionale e artificiosa immagine di un Francesco “poverello”, cioè piccolo e povero in ogni suo aspetto, che toglieva e toglie tuttora al Santo la sublime dignità e statura di chi, proprio nella povertà, raggiunge la grandezza divina. L’animo di Francesco è quello di un re, re del più vero regno, quello dello spirito (cfr. Regula Bullata VI)». L’obbedienza all’autorità non è mai a discapito della libertà, ma consente un suo sviluppo, nonostante le incomprensioni e le sofferenze dovute a fraintendimenti o a veri propri errori di coloro che detengono l’ultima parola. Chi, però, rimane docile (anche nella fatica dell’umiltà) diventa contagioso e testimone della verità.

Intorno a san Francesco crebbe, infatti, in modo spropositato il numero dei frati, colpiti e ammirati dal suo modo di vivere. Onorio III riconosce così l’opera di Dio nelle intuizioni dell’umile frate e costituisce definitivamente l’Ordine francescano (A.D. 1223). In san Francesco inizia anche a bruciare il fuoco della testimonianza perfetta, il dono totale di sé: decide di mettersi in cammino verso la terra Terra Santa, viaggio intrapreso con dodici frati nel 1219 nella speranza di convertire al Vangelo, a rischio della vita, il popolo musulmano. Non vi riuscirà, ma, tornato in Italia, egli riceve, sul monte dal paesaggio rupestre della Verna, l’ultima approvazione con le sacre stimmate, che le sue membra portarono impresse per due anni. È la massima conformazione a Cristo: ora è assimilato in tutto al suo Signore e può sperimentare con radicalità la perfetta letizia. Se Gesù è il vero uomo, Francesco non ha fatto altro che ricalcare la sua vita su quella del Maestro, divenendo l’uomo nuovo donato al mondo.

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