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giovedì 23 marzo 2023

Francesco peronista e populista. Lui nega, ma anche si contraddice

Il S. Padre, all'inizio del suo pontificato, disse che non avrebbe mai fatto interviste perchè non gli piacevano. Peccato che ne abbia fatte circa 200 e che, in queste stesse, si sia contraddetto molte volte.
Qui l'ennesima contraddizione indicata da Sandro Magister.
Luigi

Settimo Cielo, 20-3-23
“A me non piace dare interviste, lo faccio un po’ controvoglia”, ha detto Jorge Mario Bergoglio all’amica giornalista Elisabetta Piqué del quotidiano argentino “La Nación”, proprio mentre si faceva intervistare in occasione dei suoi dieci anni da papa.
Viva la sincerità. Dal 2013 a oggi, le interviste date da papa Francesco sfiorano ormai le duecento, con un crescendo all’approssimarsi del decennale e con un picco di sette interviste in quattro giorni, tra il 10 e il 13 marzo scorsi.
Interviste anche chilometriche, come quella a Jorge Fontevecchia (nella foto), fondatore del gruppo editoriale argentino “Perfil“, nella quale papa Francesco si sofferma con insistenza su una questione che da qualche tempo gli sta particolarmente a cuore.
È la questione della sua prossimità giovanile al peronismo, se non proprio a Juan Domingo Perón.
Nei primi anni del pontificato questa sua prossimità era dottrina comune nelle sue biografie, anche in quelle da lui autorizzate e controllate. Oggi, invece, egli non perde occasione per negarla.

Nell’intervista a “Perfil”, è tornato a raccontare che il suo nonno materno era di tutt’altra pasta, era un “radicale del ’90”, un movimento politico affermatosi in Argentina con una rivolta armata nel 1890, poi divenuto partito col nome di Unione civica radicale. Il nonno faceva il falegname, e Bergoglio ricorda che quand’era bambino “un uomo dalla barba bianca” di nome Elpidio veniva spesso a vendergli dell’anilina e stava a chiacchierare con lui di politica. “E sai chi è don Elpidio?”, gli disse un giorno la nonna. “È stato vicepresidente della repubblica”. Proprio così, tra il 1922 e il 1928. “L’amicizia di mio nonno con i radicali era dovuta a Elpidio González e la nostra famiglia ha sempre ereditato quell’essere radicali. Quando iniziò il movimento peronista, erano antiperonisti tremendi”.

Ma anche un po’ socialisti. Ricorda che “papà usciva a comprare ‘La Vanguardia’”, che era il loro giornale, venduto porta a porta. E andava con tutta la famiglia in Plaza Francia ai loro comizi. “Era come andare in pellegrinaggio a Luján, andarci era sacro”.

Insomma, “la mia famiglia era decisamente antiperonista”, insiste col dire oggi Francesco. “Certo, come vescovo ho dovuto accompagnare una delle sorelle di Evita Perón, l’ultima a morire, che è venuta a confessarsi da me, una brava donna”. E in questo senso “ho potuto dialogare con brava gente peronista, gente sana, così come c’erano radicali sani”. Ma l’accusa d’essere stato peronista no, il papa oggi non l’accetta, e ancor meno l’accusa di “aver fatto parte della Guardia de Hierro” per aver consegnato ad alcuni loro esponenti la guida dell’Università del Salvador, quando invece che lo fossero “non ne avevo la minima idea”.

Certo, anche nell’intervista a “Perfil” Francesco riconosce al peronismo grandi meriti, in particolare quello di aver fatta propria la “dottrina sociale della Chiesa” e d’essere stato “un movimento popolare che ha riunito molte persone con progetti di giustizia sociale”. Ma tiene a ribadire di non avervi mai preso parte. Anzi, di neppure essere stato un suo “simpatizzante”, ha detto ai suoi biografi autorizzati Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti nel loro ultimo libro su di lui, “El Pastor”, uscito in Argentina ai primi di marzo.

Ma è proprio così? Se si scorrono i nomi dei filosofi, dei teologi, dei militanti con cui Bergoglio è stato più strettamente legato, da Lucio Gera ad Alberto Methol Ferré, da Carlos Mugica a Jorge Vernazza, il peronismo li accomuna tutti.

Quanto poi ai peronisti della Guardia de Hierro che ora dice di neppure aver conosciuto come tali, basta rileggere ciò che lui stesso, da papa, riferì ai giornalisti Javier Cámara e Sebastián Pfaffen nel libro “Aquel Francisco” del 2014: “Conobbi Alejandro Álvarez [uno dei fondatori della Guardia - ndr] quando ero provinciale della Compagnia di Gesù, perché si facevano riunioni di intellettuali nell’Università del Salvador e io partecipavo a queste riunioni perché ero in procinto di svincolare l’università e consegnarla a dei laici. A una di queste riunioni partecipò Álvarez. Lo vidi un’altra volta in una conferenza con Alberto Methol Ferré. Poi ho conosciuto diverse persone della Guardia de Hierro, così come ho conosciuto gente di altre correnti del peronismo, in queste riunioni che si tenevano all’Università del Salvador”. E fu appunto a loro che Bergoglio consegnò l’università.

Per non dire di quanto si legge nella biografia di Bergoglio forse più documentata e autorevole tra quelle fin qui pubblicate, scritta dall’inglese Austen Ivereigh, firma amatissima dallo stesso papa:

“Non solo Bergoglio era vicino alla Guardia de Hierro, ma nel febbraio e nel marzo del 1974, attraverso l’amico Vicente Damasco, un colonnello stretto collaboratore di Perón, fu uno dei dieci o dodici esperti invitati a scrivere i loro pensieri nella bozza del ‘Modelo nacional’, un testamento politico che Perón considerava il mezzo per unire gli argentini dopo la sua morte”.

Bergoglio non divenne mai attivista di partito, scrive ancora Ivereigh, ma “si identificava col peronismo, ritenendolo il veicolo di espressione dei valori popolari, del ‘pueblo fiel’”.

E proprio la sua prossimità al “pueblo fiel” è materia di un’altra qualifica che oggi Francesco insiste a respingere, quella di “populista”.

Nell’intervista a “Perfil” il papa polemizza con un libro uscito nel 2020 a firma di Loris Zanatta, professore di storia dell’America latina all’università di Bologna ed editorialista del più diffuso quotidiano argentino, “La Nación”, col titolo eloquentissimo: “Il populismo gesuita. Perón, Fidel, Bergoglio”.

Il papa ritiene quella di “populismo” un’accusa per lui intollerabile, a motivo della deformazione negativa che il termine ha preso in Europa e che rimanda, a suo dire, al razzismo hitleriano. Quando invece la qualifica giusta, di cui andrebbe fiero, sarebbe quella di “popolarismo”, che è “la cultura del popolo con la sua ricchezza”.

A suo sostegno Francesco cita Rodolfo Kusch, “un grande filosofo che abbiamo avuto in Argentina, non molto conosciuto, ma che ha capito che cos’è un popolo”.

Bergoglio già l’aveva citato con ammirazione nel suo libro intervista del 2017 col sociologo francese Dominique Wolton: “Kusch ha fatto capire una cosa: che la parola ‘popolo’ non è una parola logica. È una parola mitica. Non si può parlare di popolo logicamente, perché sarebbe fare unicamente una descrizione. Per capire un popolo, capire quali sono i valori di questo popolo, bisogna entrare nello spirito, nel cuore, nel lavoro, nella storia e nel mito della sua tradizione. Questo punto è veramente alla base della teologia detta ‘del popolo’. Vale a dire andare con il popolo, vedere come si esprime. Questa distinzione è importante. Il popolo non è una categoria logica, è una categoria mitica”.

L’aveva detto anche in una sua conferenza stampa in aereo, di ritorno dal Messico il 17 febbraio 2016, che “la parola ‘popolo’ non è una categoria logica, è una categoria mitica”.

Ma questo è appunto il mito populista col quale Francesco si identifica e che non ha nulla a che vedere con il concetto europeo di “popolarismo”, che rimanda alla stagione politica e culturale dei grandi partiti popolari cristiani d’Italia, di Germania e di altri paesi.

Il mito populista è anche il segreto del successo mediatico di papa Francesco, favorito dal suo porsi sempre dalla parte del popolo contro le istituzioni e le gerarchie d’ogni tipo, anche ecclesiastiche.