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venerdì 13 maggio 2022

Magister. I criteri di Francesco nel nominare o cacciare i vescovi. Un campionario

Non dovrebbe essere la Chiesa sinodale?
Preziose, brutte,  notizie da Sandro Magister.
Luigi

Settimo Cielo, 5-5-22
Quella del nuovo arcivescovo di Parigi è l’ultima delle nomine importanti fatte da papa Francesco. Il neopromosso Laurent Ulrich, già vescovo di Chambéry e poi di Lilla, è generalmente classificato come un progressista moderato, vicino a Jorge Mario Bergoglio nella sensibilità per i migranti e nell’individuazione del “clericalismo” come vera radice degli abusi sessuali.
Ma più che questa nomina, è la modalità con cui il predecessore ha dovuto lssciare la carica a caratterizzare lo stile di governo del papa. Michel Aupetit, arcivescovo di Parigi dal 2017, è stato travolto da una massiccia campagna d’opinione, che ha ripescato e gli ha ritorto contro una sua presunta relazione con una segretaria, già archiviata anni prima dalle autorità ecclesiastiche come priva di fondamento. Francesco, si sa, vede come la peste quello che chiama il “chiacchiericcio”, da lui bollato decine di volte come persino più criminale del terrorismo, eppure non ha esitato a sacrificare Aupetit su quello che egli stesso, il papa, ha definito “l'altare dell’ipocrisia”.
Nel 2020, anche la destituzione da arcivescovo di Lione del cardinale Philippe Barbarin, assolto in tribunale ma travolto da un’ondata mediatica di accuse per presunte coperture di abusi, si era inchinata a questo schema.

In bilico, sotto i colpi di un analogo processo d’opinione, c’è ora l’arcivescovo di Colonia, il cardinale Rainer Maria Woelki, in realtà preso di mira per essere uno dei pochi critici di rilievo del “cammino sinodale” della Chiesa di Germania. E sotto tiro c’è anche l’arcivescovo di Milano Mario Delpini, anche lui accusato d’aver coperto degli abusi.

Parigi, Lione, Colonia, Milano sono tutte diocesi di primissima grandezza. Eppure in esse, per le destituzioni dei rispettivi titolari, a farla da padrone è “l’altare dell’ipocrisia”, anche per il papa.

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La diocesi di Roma è un’altra in cui i criteri di destituzione e di nomina adottati da Francesco appaiono molto disinvolti.

Vescovo di Roma è il papa, anche se Bergoglio non sembra spendersi molto in questo ruolo. Quella del vicario è quindi una carica chiave, che Francesco ha assegnato nel 2017 ad Angelo De Donatis, promosso l’anno dopo a cardinale.

Tra i due l’idillio è tuttavia durato poco. A segnare la caduta in disgrazia del cardinale vicario è stata una sua lettera ai fedeli del 13 marzo 2020, in piena pandemia di Covid.

Il giorno precedente De Donatis aveva emesso un decreto che ordinava la totale chiusura, per tre settimane, di tutte le chiese di Roma.

Senonché la mattina del 13 marzo, all’inizio della messa da lui celebrata in solitudine a Santa Marta e trasmessa in streaming, papa Francesco sconfessò le “misure drastiche” decretate il giorno prima dal suo vicario come “non buone” e prive di “discernimento”. E quella stessa mattina il cardinale Konrad Krajewski, “elemosiniere” del papa e suo fidatissimo braccio operativo, spalancò platealmente il portone della chiesa romana di cui è rettore, vantandosi di disobbedire.

A De Donatis non restò che ritrattare, emettendo quello stesso giorno un controdecreto di riapertura delle chiese. Che però accompagnò con una lettera ai fedeli nella quale li informava che la malaugurata chiusura era stata ordinata “consultato il nostro vescovo papa Francesco”.

Bergoglio non gliela perdonò. Da quel giorno non solo il cardinale De Donatis ma l’intero vicariato di Roma è in disarmo. Senza più un vicegerente, carica chiave vacante dal 2017 e attribuita per soli pochi mesi a un vescovo, Gianpiero Palmeri, inizialmente nel cuore di Francesco ma presto anche lui caduto in disgrazia e spedito ad Ascoli Piceno. Senza un vescovo ausiliare per il settore est di Roma. Con i due vescovi ausiliari per i settori nord e sud della città, Guerino Di Tora e Paolo Selvadagi, dimissionari per superati limiti d’età e ancora in attesa dei successori.

Intanto, si rincorrono le voci che De Donatis sarà presto rimosso da vicario e collocato in curia, magari a fare da penitenziere maggiore, non certo una promozione. Mentre al suo posto Francesco richiamerebbe a Roma, da Siena di cui è ora arcivescovo, il cardinale Augusto Paolo Lojudice, già ausiliare di De Donatis per il settore sud di Roma e, lui sì, nel cuore del papa.

Non solo. Per Lojudice pare aprirsi la strada anche per essere nominato da Francesco presidente della conferenza episcopale italiana, in sostituzione del cardinale Gualtiero Bassetti, 80 anni, giunto a scadenza in questo mese di maggio.

Bassetti è un altro che è caduto dagli altari nella polvere, stando agli umori del papa.

Francesco non ha mai sopportato le sue resistenze a fare ciò che lui stesso, il papa, voleva fosse fatto in Italia, in primo luogo un sinodo nazionale. E viceversa, al papa non è mai piaciuto ciò che Bassetti faceva di sua iniziativa, in particolare il doppio convegno internazionale, la prima volta a Bari e la seconda a Firenze, delle Chiese e delle nazioni del Mediterraneo, per la pace tra i popoli e le religioni, presenti i vescovi e i sindaci delle principali città, da Gerusalemme ad Atene a Istanbul.

Sfortuna ha voluto che a Firenze il convegno si sia aperto il giorno stesso, il 24 febbraio 2022, dell’aggressione della Russia all’Ucraina. È vero che anche il Mar Nero e il Mar d’Azov sono parte del Mediterraneo, ma non era certo quell’area il “focus” del programma. Il quale prevedeva nella domenica conclusiva, il 27 febbraio, l’arrivo del papa, con un suo discorso e l’incontro con i vescovi e i sindaci.

Poi però, a convegno in corso, Francesco cancellò la sua visita a Firenze, adducendo difficoltà di deambulazione. Al suo posto sarebbe andato il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, che avrebbe letto il discorso del papa. Ma poi nemmeno Parolin ci andò e toccò a Bassetti celebrare la messa conclusiva, senza neanche più il discorso del papa, sparito anch’esso. Restava da ascoltare quanto Francesco avrebbe detto all’Angelus riguardo al convegno, e per questo furono predisposti dentro e fuori la basilica fiorentina di Santa Croce dei grandi schermi sui quali vedere e ascoltare il papa in diretta tv. Tra gli astanti, in trepida attesa, c’era anche il presidente della repubblica italiana Sergio Mattarella. Ebbene, all’Angelus Francesco non dedicò al convegno del Mediterraneo neppure una parola. Corse voce, mai comprovata, che questo suo silenzio fosse di condanna per la presenza a Firenze di un alto dirigente di Leonardo, la maggiore produttrice italiana di armi. In realtà la vera ragione era di umiliare Bassetti e la conferenza episcopale italiana da lui presieduta.

Come nuovo presidente della CEI il papa ha già fatto sapere, conversando lo scorso 23 aprile con il vicario e gli ausiliari della diocesi di Roma e poi il 2 maggio con il direttore del “Corriere della Sera” Luciano Fontana, che intende nominare “un cardinale”. Dal che si è dedotto che lo sceglierà tra Lojudice e Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, e che il prescelto sarà quasi sicuramente il primo.

Potrebbe così tornare in auge l’identificazione tra vicario di Roma e presidente della CEI che caratterizzò i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, con il cardinale Camillo Ruini a svolgere entrambi i ruoli, in legame stretto con il papa.

Quanto a Zuppi, è verosimile che non scalpiti per aggiudicarsi lui la nomina. Come primo in classifica tra i papabili, non ha nessun interesse per una presidenza della CEI che gli porterebbe più svantaggi che vantaggi, e ancor meno per una prossimità a Francesco troppo marcata per chi ambisce a succedergli.

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Ancora sui criteri di destituzione e di nomina dei vescovi praticati da papa Francesco si può segnalare il “sollevamento” del vescovo Daniel Fernández Torres, 57 anni, “dalla cura pastorale” della diocesi portoricana di Arecibo.

Del forzato “sollevamento” non è stata data alcuna motivazione né dal comunicato vaticano del 9 marzo 2022 né dalla conferenza episcopale di Porto Rico. Anche il vescovo destituito ha detto che “non spetta a me spiegare una decisione che non so spiegarmi”.

Non è la prima volta che dei vescovi vengano rimossi da Francesco, sempre però facendo loro sottoscrivere un atto di rinuncia volontaria. Questa volta, la prima, in cui il vescovo si è rifiutato di piegarsi – dichiarando, anzi, di voler procedere “a testa alta” e di sentirsi “fortunato a subire persecuzioni e calunnie per aver annunciato la verità della dignità dell’uomo” – il papa l’ha “sollevato” a forza.

Ma neppure è la prima volta che Francesco destituisca un vescovo senza dare spiegazioni. È corsa voce che Fernández Torres sia stato punito per aver sostenuto l’obiezione di coscienza contro l’obbligo della vaccinazione anti-Covid. Ma sarebbe troppo poco per una condanna così drastica.

L’arcivescovo emerito di La Plata Héctor Aguer, rara voce libera dell’episcopato argentino, ha detto di conoscere e stimare il vescovo partoricano destituito e di aver potuto visitare la sua “magnifica diocesi, con una grande attività pastorale e con fioritura di vocazioni”.

Il vescovo e gesuita Álvaro Corrada del Río, incaricato da Roma di amministrare la diocesi di Arecibo in attesa della nomina del successore, ha poi detto durante una riunione con il clero di Porto Rico che il ”sollevamento” di Fernández Torres era stato preceduto dalla segreta visita apostolica di un cardinale, l’arcivescovo di Chicago Blase Cupich, molto vicino a papa Francesco.

Sta di fatto che la condanna è scattata senza dichiarare i capi d’accusa né dare voce alla difesa.

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Ultima nomina esemplificativa, del 19 febbraio, quella del nuovo arcivescovo di Torino nella persona del teologo Roberto Repole, 55 anni.

Repole non ha alcuna esperienza di governo di una diocesi e nemmeno era tra i candidati più in vista. Scegliendo lui, Francesco ha colto tutti di sorpresa, non temendo di risvegliare l’attenzione su un momento scottante del suo pontificato, quello in cui venne clamorosamente allo scoperto il contrasto di fondo tra il papa emerito Benedetto XVI e la cerchia di ecclesiastici più vicini a Bergoglio.

Il caso scoppiò nel 2017 con la pubblicazione da parte della Libreria Editrice Vaticana di una collana di undici libretti scritti da altrettanti teologi, finalizzati a “mostrare la profondità delle radici teologiche del pensiero, dei gesti e del ministero di papa Francesco”.

A Joseph Ratzinger fu chiesto di scrivere una presentazione degli undici libretti, elogiandone il contenuto e raccomandandone la lettura.

Ma Ratzinger rifiutò. Mise per iscritto in una lettera all’allora capo della comunicazione vaticana Dario Viganò che quei libretti non intendeva neppure leggerli, perché tra i loro autori figuravano alcuni dei suoi nemici d’antica data, in testa il teologo tedesco Peter Hünermann, “che durante il mio pontificato si è messo in luce per aver capeggiato iniziative anti-papali”.

Fu Settimo Cielo a rendere pubbliche le parti della lettera di Ratzinger che Viganò aveva cercato di occultare. L’incidente costò il posto al monsignore ma non la sua prossimità al papa, che tuttora se lo tiene caro. Sta di fatto che quella vicenda segnò una divaricazione non più sanata nei rapporti tra il papa regnante, il papa emerito e le rispettive cerchie, stando alla ricostruzione dell’esperto vaticanista Massimo Franco, editorialista del “Corriere della Sera”, in un libro uscito il mese scorso.

Ebbene, chi era il curatore degli undici libretti, oltre che l’autore di uno di essi? Roberto Repole, ora promosso da papa Francesco ad arcivescovo di Torino.