Pagine

domenica 27 marzo 2022

Giovanni Formicola: "Il modernismo sociale

Riceviamo un interessante analisi di Giovanni Formicola sul cosiddetto, "modernismo sociale" che tanto male ha fatto, e fa, alla Chiesa.
Luigi

Dopo il golpe dell’Ottobre in Russia da parte dei bolscevichi, una dopo l’altro falliscono o si esauriscono le insurrezioni armate, gli assalti al potere attuati o tentati sul modello di quello del comunismo russo. Episodio determinante, che costringe il mondo comunista a ripensare la sua tattica, è il cosiddetto «”miracolo della Vistola” – la battaglia in cui, il 15 agosto 1920, l’esercito dello Stato polacco “risuscitato” sotto la guida del maresciallo Jòzef Piłsudski [1867-1935], fermò davanti a Varsavia l’Armata Rossa in marcia verso il cuore dell’Europa per sostenere manu militari i moti spartachisti tedeschi» (Cantoni [1938-2020], 1994, 3 inedito). Tale episodio, insieme con tutti gli altri fallimenti, sollecita una riflessione, che trova nell’italiano Antonio Gramsci (1891-1937) uno dei suoi maggiori protagonisti, sulle «difficoltà della Rivoluzione nei paesi a grande articolazione sociale, cioè nei cosiddetti “punti alti” del capitalismo» (Ibidem), che porterà alla elaborazione di una via per la quale «l’egemonia culturale ha il primato su quella politica» (Ibidem). « […] Gramsci – che intendeva riferirsi in particolare all’Italia e in generale ai Paesi occidentali – chiariva come […] il primato della coscienza sull’essere, […] si rendeva indispensabile» (Settembrini, 1997, 71). La Rivoluzione – di cui il comunismo è allora l’ala marciante, ma che consiste più in generale in un tematico e titanico sforzo anti-cristiano di allontanarsi dall’ordine dell’essere, cioè dalla verità, per fondare un mondo nuovo, dal quale Dio sia stato definitivamente espulso,

per un uomo nuovo, e quindi è progressismo radicale –, dunque, si dava una curvatura culturale: l’egemonia sugli spiriti, più che il dispiegamento della forza, com’era stato in Russia. In più, rispetto ad una concezione positivista del materialismo – si direbbe «engelsiana» –, nell’italiano Gramsci prevale quella dialettica, per la quale le basi materiali dell’esistenza («l’essere») sono condizionate, se non determinate, dalle idee, dal pensiero, dalla cultura («la coscienza»). Perciò si pone l’esigenza di conquistare l’anima della società prima ancora del suo corpo.

In mondi ricchi di storia e di cultura, di articolazione e stratificazione sociali, dunque, la conquista del potere politico non basta: la società ha una sua soggettività che la rende capace di reazione e resistenza, tali da poter infliggere alla Rivoluzione una storica sconfitta. Occorre allora pazientemente conquistarla dal di dentro: come s’è detto, l’egemonia culturale su quest’ultima per essere in condizione poi di cogliere finalmente il potere politico come un frutto maturo, senza dover poi temere alcun sussulto reattivo. L’egemonia di cui parla Gramsci non si caratterizza come direzione esplicita ovvero come infiltrazione: la sua essenza è l’influenza, la penetrazione «radioattiva» nella società per orientarne la mentalità, il costume, la cultura. In questo sforzo, il partito comunista italiano, oltre a dover affrontare la complessità dell’articolazione della società, deve fare i conti con la sua identità nazionale, con la sua cultura profonda, con il suo senso comune, tutti inequivocabilmente cattolici, e perciò nemici per definizione. Ma come agire su questa identità? La via non può essere quella di un anticlericalismo – ma sarebbe più esatto dire «antiecclesialismo», anticristianesimo – «borghese», ottocentesco, provocatorio. Occorre «dialogare», al fine di coesistere in vista di uno svuotamento del cattolicesimo italiano dei suoi contenuti culturali e di una modifica del senso comune nazionale in direzione secolaristica, laica. E «dialogare» con chi? Nell’immediato dopo guerra (ma già negli anni dei governi di unità nazionale), si distingue «tra la posizione della DC e di De Gasperi [Alcide (1881-1954)] e quella del Vaticano, ma anche all’interno della DC tra la posizione di De Gasperi e quella degli altri dirigenti» (Aga Rossi, Zaslavsky [1937-2009], 1998, 115), facendo propria la lezione gramsciana sulle capacità disgregatrici dell’identità e della presenza cattoliche da parte del popolarismo. «Il cattolicismo democratico fa ciò che il comunismo non potrebbe: amalgama, ordina, vivifica e si suicida. […] Perciò non fa paura ai socialisti l’avanzata impetuosa dei popolari […]. I popolari stanno ai socialisti come Kerensky [Alexander (1881-1970)] a Lenin [1870-1924]» (Gramsci, 1919, 286). Egli, cioè, del cattolicesimo democratico coglie tutta la vena progressista, conformemente alla sua natura di espressione politico-sociale del modernismo teologico: «Il modernismo non ha creato “ordini religiosi” ma un partito politico, la democrazia cristiana» (Gramsci, 1975, II, 1384), cioè, «modernismo significa politicamente democrazia cristiana» (ibid., 1305). Non occorre essere filosofi né dottori in filosofia per capire che il marxismo filosofico è un ossimoro che unisce il materialismo dialettico – che significa totale assenza di punti fermi e «libertà» nel fine, cioè mancanza di una meta, nello svolgimento della storia –, e il materialismo storico, ch’è determinismo in purezza Allo stesso modo, non occorre essere teologi per capire, alla scuola della Pascendi Dominici gregis di s. Pio X (1903-1914), che il modernismo è cronolatra, intende nei fatti «segni dei tempi» come divenire della rivelazione, per cui ogni «verità» è relativa al suo tempo. Questa ricezione della prospettiva hegeliana – secondo la quale «dio» è un avvenimento in divenire dialettico («dialettico» da intendersi come appena specificato), cioè non È, ma avviene, diventa – ha un riflesso forte oltre che a livello dogmatico, pastorale ed ecclesiologico, anche e forse soprattutto a livello culturale e sociale, come aveva ben intuito Gramsci. La totale subalternità al comunismo e comunque ad ogni forma di progressismo, perché consentirebbero allo «spirito» di avvenire, liberandolo nella sua fenomenologia storica da tutti i freni e le pastoie d’una supposta immutabile tradizione, cioè da una resistenza conservatrice se non reazionaria alla sua azione, sempre innovatrice e «sorprendente». Il che comporta il rifiuto d’ogni dottrina definita e stabile, compresa ovviamente quella sociale per una civiltà cristiana. Ed in effetti nulla può interessare di meno ai modernisti che l’idea stessa d’una cristianità, anzi le sono francamente ostili.

Ed infatti, storici esponenti democristiani si esprimeranno con grande chiarezza sul punto (e il florilegio che segue non ha alcuna pretesa di esaustività, ma solo di esemplarità), ma soprattutto terranno condotte politiche assolutamente consentanee e coerenti a tale visione, favorendo ogni scivolata a sinistra, cioè la laicizzazione laicista, la secolarizzazione dell’Italia che fu cattolica e il suo allontanamento dal modello e dalla realtà della cristianità.

Comincia De Gasperi, «Noi ci siamo definiti “un Partito di centro che si muove verso sinistra”» (De Gasperi, 1945), e se non fosse stato chiaro ribadisce, «La democrazia Cristiana [è un] partito di centro inclinato a sinistra, [che] ricava quasi la metà della sua forza elettorale da una massa di destra» (Idem, 1949). E su questa linea si muoverà, con le parole e i fatti, tutta la classe dirigente (elettori e base sono un’altra cosa, fondamentalmente ingannati) e intellettuale della DC. Leopoldo Elia (1925-2008), più volte parlamentare, ministro ed anche Presidente della Corte Costituzionale, dirà che «De Gasperi avvertiva il pericolo che fare dell’anticomunismo la ragione dominante della propria fortuna politica poteva alimentare tendenze reazionarie [e non sia mai!]» (L. Elia, 2003 [1984], 147). L’intellettuale cattolico democratico, Pietro Scoppola (1926-2007), ha ulteriormente – ed autorevolmente – confermato questa tesi sull’azione e l’identità politica autentiche della DC: «In sostanza, la Dc ha sempre raccolto un elettorato prevalentemente moderato, che è stato tuttavia coinvolto in una politica prevalentemente diretta (tranne alcune parentesi) ad un ampliamento verso sinistra delle basi di consenso alla democrazia e alla funzione di governo» (ibidem, 132). E se possono non stupire le dichiarazioni di un «estremista» come Ciriaco De Mita, che facendo eco quasi letterale, non so quanto consapevolmente, alla frase di un vecchio democristiano francese (poi transitato all’estrema destra), Georges Bidault (1899-1983), «gouverner au centre et faire, avec les moyens de la droite, la politique de la gauche», afferma con orgoglio modernista che «Quando gli storici si occuperanno di fatti e non solo di propaganda spiegheranno che il grande merito della DC è stato quello di avere educato un elettorato che era naturalmente su posizioni conservatrici se non reazionarie a concorrere alla crescita della democrazia. La DC prendeva i voti a destra e li trasferiva sul piano politico a sinistra» (Corriere della Sera, 1999). Forse potrebbero ancora stupire quella di un «moderato» (e così, in un certo senso, si chiude il cerchio modernista-progressista nel quale è collocata tutta la leaderhip DC), «Un Doroteo doc come Flaminio Piccoli [1915-2000] non teme affatto l’ipotesi di un accordo a sinistra. “È dagli anni ’60 – afferma – che la Dc non è più anticomunista. Anzi, se fosse stato per noi il Pci sarebbe rimasto al potere ben oltre la vicenda Moro. Non fummo mica noi a dire basta, sa? Fu Mosca a ordinare a Berlinguer di uscire dal governo…”» (Messina 1990). Né si può dire che ciò sia effetto di una degenerazione intellettuale di uomini convinti, e perciò spaventati, che il comunismo e il progressismo fossero ineluttabili, e che non si potesse contrastarli, ma si dovesse patteggiare con loro. No. Il peccato è originale. «Il partito popolare italiano […] è nato come un partito non cattolico, aconfessionale, come un partito a forte contenuto democratico […] che non prende la religione come elemento di differenziazione politica» (Sturzo [1871-1959], 1919), là dove il «forte contenuto democratico», non può significare altro che relativista, sui princìpi e la prassi. Quindi, ha solo ragione Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) quando afferma che «La Democrazia Cristiana non è altro che un dispositivo ideologico e politico specificamente fatto per trascinare verso l’estrema sinistra uomini di destra e soprattutto centristi ingenui».

E questo modernismo sociale – com’è avvenuto nella Chiesa per quello dogmatico-pastorale-ecclesiologico – è stata capace di modificare un volto storico. Come insegna Augusto Del Noce (1910-1989), che pure fu parlamentare con la DC, sia pure da indipendente, «È bensì vero che presto si fece innanzi un’[…] idea della democrazia cristiana che, a partire dal riconoscimento della laicità dello stato, praticamente giungeva alla soppressione dell’aggettivo. Il termine designava il partito di quei cattolici che intendevano collaborare alla realizzazione di una democrazia cui altro non chiedevano, rispetto ai valori religiosi ed etici, che di essere neutrale. È la concezione modernistica, già condannata nella Pascendi e di cui Gentile diceva, non a torto, che riusciva a negare insieme il valore dello stato e quello della chiesa» (Del Noce, 1995 [1971], 105). E ciò, come s’è appena detto, con effetti epocali, cui la DC è concorsa e che certo non ha ostacolato: «Da un quarto di secolo il partito dei cattolici è in Italia al governo […], ma forse mai si è avuto un così rapido ed esteso progresso dell’irreligione» (Del Noce, 1995 [1971], 176).

Bibliografia dei riferimenti tra parentesi

1. Cantoni 1994, Giovanni Cantoni, Le grandi linee politiche in Italia nel quindicennio dal 1979 al 1994 in una prospettiva contro-rivoluzionaria con qualche orientamento operativo, del 6 maggio 1994, inedito.

2. Settembrini 1997, Domenico Settembrini, Il fascino perverso del Diciassette, in Ideazione. I percorsi del cambiamento, anno quarto, n. 5, settembre ottobre 1997.

3. Aga Rossi-Zaslavsky 1998, Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky (1937-2009), Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, il Mulino, Bologna 1998.

4. Gramsci 1919, Antonio Gramsci, I popolari, in L’Ordine Nuovo, anno I, n. 24, 1-11-1919, in L’Ordine Nuovo. 1919-1920, Einaudi, Torino 1954.

5. Gramsci 1975, A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975.

6. De Gasperi 1945, Alcide De Gasperi, Intervento al Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana, del 31 luglio-3 agosto 1945.

7. De Gasperi 1949, A, De Gasperi, Discorso al III Congresso Nazionale della Democrazia Cristiana, Venezia 2/5-6-1949.

8. Elia 2003, Leopoldo. Elia, Dossetti [1913-1996], Lazzati [1909-1986] e il patriottismo costituzionale, in L. Elia e Pietro Scoppola (1926-2007), A colloquio con Dossetti e Lazzati. Intervista di Leopoldo Elia e Pietro Scoppola (19 novembre 1984), il Mulino, Bologna 2003.

9. Corriere della Sera 1999, Intervista all’on. Ciriaco De Mita, 23-8-1999.

10. Messina 1990, Sebastiano Messina, «Muoviti Dc, il nemico non c’è più», in la Repubblica, 16-3-1990.

11. Sturzo 1919, don Luigi Sturzo, Discorso a Verona 16-3-1919.

12. Del Noce 1995, Luigi Del Noce, «Antifascismo» e «unità antifascista», in L’Europa, V, 5, 15-4-71, pp. 41-60, ora in Idem, Fascismo e antifascismo. Errori della cultura, Mondadori, Milano 1995.

13. Del Noce 1995, Idem, «Repubblica della cultura» e realtà politica, in L’Europa, V, 6, 15-11-71, pp. 33-34, ora in ibidem.