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martedì 22 febbraio 2022

dalla rivista 'Cardinalis' #1: "Traditionis Custodes, chi ha reagito e chi no" #traditioniscustodes #cardinalis

Sabato scorso (19 febbraio 2022) abbiamo dato notizia di una rivista (dal felice nome in latino "Cardinalis") che è e sarà inviata ai cardinali di tutto il mondo. 
Con molto piacere, riceviamo dalla redazione la traduzione autorizzata di alcuni interessanti articoli che possiamo proporre - in esclusiva in italiano per MiL - ai nostri lettori. 
Roberto

Questo articolo è apparso sulla rivista Cardinalis.

Traditionis Custodes, chi ha reagito e chi no
Di Andrea Gagliarducci

Non chiamatevi tradizionalisti. Chiamatevi cattolici”. La parola d’ordine era arrivata ad uno degli ultimi raduni del Motu Proprio Summorum Pontificum. Mentre già circolava la lettera della Congregazione della Dottrina della Fede che indagava sulle applicazioni del documento con cui Benedetto XVI aveva liberalizzato la celebrazione secondo il rito antico, il mondo tradizionale cercava di trovare una nuova coesione, e soprattutto di mostrare di non essere in contraddizione con la Chiesa cattolica. Anzi, il loro obiettivo era per l'appunto rivendicare che usare il Messale di Giovanni XXIII, continuare in quella che Benedetto XVI aveva chiamato “forma straordinaria” del rito non significava necessariamente stare fuori dalla Chiesa Cattolica. Al contrario, si sentivano cattolici e uniti al Papa, nonostante il rito con il quale celebravano non fosse quello partorito da Paolo VI dopo il Concilio Vaticano II.

Il motu proprio Traditionis Custodes di Papa Francesco ha messo in pericolo la auto-percezione di essere cattolici. Con il motu proprio, pubblicato il 16 luglio, Papa Francesco revoca, di fatto, tutte le concessioni al rito antico che erano state concesse da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI prima di lui. Il vetus ordo non viene più considerato una forma straordinaria, e chi vuole continuare a celebrare secondo il cosiddetto usor antiquior deve chiedere un permesso al vescovo, che prima di concederlo si deve consultare con la Santa Sede.

Di fatto, Papa Francesco sottolinea che uno solo è il rito, e che nell’abrogare tutto il resto non sta facendo né più né meno di quello che fece San Pio V dopo il Concilio di Trento. Soprattutto, Papa Francesco nota che le concessioni daet da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI al rito antico avevano l’intento di creare maggiore unità nella Chiesa, e in particolare di superare lo scisma con la Fraternità Sacerdoteale San Pio V (i cosiddetti lefevbriani), che avvenne concretamente nel 1988, con l’ordinazione di quattro vescovi senza il mandato di Roma.

In una lettera indirizzata a tutti i vescovi per spiegare la sua decisione, Papa Francesco scrive in particolare di essere rimasto “rattristato dall’uso strumentale fatto da alcuni del Messale del 1962, che spesso è accompagnato non solo dal rigetto delle norme liturgiche, ma anche dello stesso Concilio Vaticano II, pretendendo, sulla base di insostenibili asserzioni, che esso tradiva le tradizioni della vera Chiesa”.

Sulla base di questo, è difficile per un cattolico amante dell’uso antiquior riuscire a scrollarsi di dosso l’etichetta di tradizionalista. È cattolico, ma difficilmente viene considerato come tale. Proprio quello che Giovanni Paolo II e Benedetto XVI volevano evitare.

Per tutti questi motivi, non deve sorprendere la reazione di cardinali da ogni parte del mondo al motu proprio di Papa Francesco. Alcuni lo hanno pedissequamente applicato, ma la maggioranza ha cercato piuttosto di trovare una via di mezzo. Vale a dire: non andare contro le parole del Papa, ma trovare nelle indicazioni del Papa una possibilità per non perdere comunità di fedeli che celebrano con l’uso antiquior, ma che rappresentano un grande serbatoio di cattolicesimo, in momento in cui invece in molti hanno paura di essere cattolici e di darlo a vedere.

Vengono da queste controversie le prese di posizioni dei vescovi in tutto il mondo, che, cercando di non contraddire mai il Papa, trovano comunque un modo di mantenere la celebrazione secondo l’uso antiquior.

Non solo. Ci sono diversi cardinali che hanno preso una posizione netta sulla decisione del Papa. Alcuni hanno persino invitato alla disobbedienza civile, mentre altri hanno cercato di mediare tra le durissime parole del Papa e la situazione che si poteva creare. La parola d’ordine, in questo caso, è stata “pragmatismo”. E, di fronte al pragmatismo, non esistono cardinali conservatori e progressisti. Ci sono, piutttosto, cardinali che devono badare al proprio gregge. E il gregge di molti cardinali conta diversi fedeli che usano il rito di San Giovanni XXII.

Per questo, le posizioni dei cardinali sul motu proprio del Papa si possono dividere in due categorie.

La prima è la categoria di quanti hanno preso una posizione netta per difendere i principi. Si tratta soprattutto di cardinali liberi da ogni peso istituzionale, e quindi in qualche modo più “liberi” di poter dire con precisione quello che pensano. Possono, insomma, parlare, e lo fanno, senza mezzi termini. Sono i Cardinali Sarah, Mueller, Brandmueller, Zen.

La seconda è la categoria di quanti hanno ancora in cura un gregge. Gestiscono ancora una diocesi e non vogliono mettersi contro le decisioni del Papa. Ma non vogliono nemmeno, però, perdere nuclei di fedeli numerosi, né lo hanno mai voluto fare nemmeno quando hanno visto le derive che nascevano nel movimento tradizionale. Una idea non si giudica dalle derive, e un popolo non va sempre tutto nella stessa direzione. I cardinali vescovi lo sanno e agiscono di conseguenza. Hanno gruppi di fedeli, anche consistenti, che vogliono celebrare secondo l’uso antiquior e fanno di tutto perché continuino a farlo. A questa categoria appartengono i cardinali Zuppi e Nichols.

A queste due categorie si aggiunge anche chi ha deciso di seguire il Papa fino ad arrivare a proibire le celebrazioni secondo l’uso antiquior. Come il Cardinale Gregory a Washington in occasione di un grande pellegrinaggio tradizionale che si sarebbe concluso con la messa celebrata secondo il rito di San Pio V nel National Shrine di Wasghigton DC dall’arcivescovo Thomas Gullickson, già nunzio in Ucraina.

In linea più generale, è difficile trovare un cardinale che abbia applicato verbatim il motu proprio di Papa Francesco. Come sempre, Papa Francesco lascia formalmente ai vescovi una certa discrezione di gestire le situazioni. Lo aveva fatto con l’Amoris Laetitia, quando aveva poi lasciato ai vescovi la possibilità di decidere come applicare l’esortazione. Si ricorderà che, al tempo, l’arcivescovo Charles J. Chaput, allora alla guida dell’arcidiocesi di Philadelphia, aveva stabilito linee guida che ribadivano l’insegnamento tradizionale della Chiesa. Contestato, aveva ribadito che il Papa aveva dato ai vescovi la discrezione di decidere, e che lui aveva deciso insieme al popolo di Dio, dopo aver fatto l’appropriato discernimento.

Sarà questa la strada anche per l’applicazione della Traditionis Custodes? Ad un primo sguardo, si potrebbe dire di sì.

Il Cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, ha deciso di avere un approccio pragmatico alla questione dell’uso antiquior.

Il Cardinale ha notato che il motu proprio di Papa Francesco dispone che la decisione sull’opportunità e le modalità della celebrazione con il rito di Giovanni XXIII venga presa dalle singole diocesi, e che la celebrazione avviata 14 anni fa nella chiesa di Santa Maria della Pietà a Bologna dopo la promulgazione del Summorum Pontificum rispondesse alle caratteristiche previste. Per questo, il Cardinale Zuppi, di certo non annoverabile tra i cosiddetti tradizionalisti, ha autorizzato la prosecuzione della celebrazione. Per ora, le celebrazioni si terranno nella stessa chiesa, ma poi sarà individuata “una chiesa parrocchiale idonea”.

Una decisione simile ha preso il Cardinale Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster. Lo scorso 22 luglio, il cardinale ha inviato una lettera ai sacerdoti della sua arcidiocesi, sottolineando che in molti gli avessero chiesto di continuare a celebrare la Messa secondo il rito di Giovanni XXIII.

“La mia intenzione – ha scritto il Cardinale – è di rispondere positivamente a queste richieste, fin quando è chiaro che le condizioni del motu proprio sono rispettate e che le intenzioni del Santo Padre pienamente rispettate”.

Il Cardinale ha anche scritto che il Papa ha espresso “tre profonde preoccupazioni”: che le concessioni fossero “sfruttate”, che le prescrizioni del nuovo messale non fossero seguite, e che ci fosse un legame tra l’usare il Messale del 1962 e il rifiuto della Chiesa e delle istituzioni nel nome di una supposta “vera Chiesa”.

“A mio giudizio, queste preoccupazioni non riflettono la generale vita liturgica di questa diocesi. Sono, tuttavia, segnali di avvertimenti che ci dovrebbero mettere in guardia”, ha detto il Cardinale.

I due cardinali rispecchiano una posizione generale di molte conferenze episcopali, e comunque di molti vescovi che hanno continuato a concedere la celebrazione secondo l’uso antiquior.

Addirittura, la Conferenza Episcopale Francese ha emesso una dichiarazione congiunta di tutti i vescovi, i quali hanno espresso “ai fedeli che abitualmente si trovino a celebrare secondo il Messale di San Giovanni XXIII ed i loro pastori tutta la stima per lo spirito zelante, così che la loro determinazione possa far proseguire la missione insieme, in comunione con la Chiesa e secondo le norme in vigore”.

I vescovi francesi hanno poi rilanciato, sottolineando che “il motu proprio e la lettera del Sano Padre ai vescovi che introduce il documento sono richieste all’intera Chiesa ad un autentico rinnovamento eucaristico. Nessuno può esserne dispensato”.

Ovviamente, la Traditionis Custodes ha comunque creato un dibattito ampio. Tutti si aspettavano degli aggiustamenti, dopo 14 anni e, soprattutto, dopo la lettera inviata dalla Congregazione della Dottrina della Fede a tutte le Conferenze Episcopali nel mondo. Come era possibile, in alcuni casi le richieste dei gruppi che volevano celebrare secondo la Messa tradizionale erano diventate pretese alla luce della liberalizzazione. Ma, a onor del vero, si trattava di problemi confinati a piccoli gruppi. Niente che non si sarebbe potuto risolvere con pochi emendamenti amministrativi, una migliore regolamentazione e, magari, un blando ritorno del controllo al vescovo locale.

Il provvedimento di Papa Francesco, però, è invece andato a revocare le concessioni fatte dai predecessori, centralizzando tutto nella Santa Sede. La volontà di preservare l’unità della Chiesa è un obiettivo comune. Il modo operato per cercare di riportare la Chiesa ad unità ha, invece, lasciato delle perplessità.

Ed è qui che sono intervenuti i cardinali che hanno voluto sottolineare le questioni di principio. Il Cardinale Raymond Leo Burke, prefetto emerito del Tribunale della Segnatura Apostolica, ha chiaramente parlato al National Catholic Register di “una serie di difetti” presenti nel documento papale.

Il Cardinale Burke contesta che il Messale di Paolo VI possa essere considerato “l’unica espressione della lex orandi del rito romano”, e che anzi la forma straordinaria della Messa “è forma vivente del rito romano, e non ha mai cessato di esserlo”.

Il Cardinale ha anche detto di non aver mai notato la situazione gravemente negativa evidenziata da Papa Francesco nella sua lettera ai vescovi. Scrivendo nel suo sito internet personale, il Cardinale Burke ha detto che le restrizioni stabilite dal Papa sono “severe e rivoluzionare”.

Il Cardinale Ludwig Gerhard Müller, prefetto della Congregazione della Dotrina della Fede dal 2012 al 2017, ha puntato il dito contro i toni duri della lettera. “Invece di apprezzare il profumo dell’agnello – ha detto – il pastore qui lo colpisce duramente con il suo bastone”.

In particolare, il prefetto emerito della Congregazione della Dottrina della Fede mette in discussione la scelta di Papa Francesco di mettere in atto le misure restrittive con la scusa degli “innumerevoli abusi nella liturgia”. “Questa dicotomia tra buone intenzioni e cattiva esecuzione – sostiene – sempre viene fuori quando le obiezioni di impiegati competenti sono percepite come una ostruzione delle intenzioni delle loro superiori, e che perciò non sono nemmeno presentate”.

Durissimi i toni del Cardinale Joseph Zen Ze-kiun, vescovo emerito di Hong Kong. Nel suo blog personale, il Cardinale ha scritto che “molte tendenziose generalizzazioni presenti nel documento [del motu proprio] hanno colpito i cuori di molte buone persone più di quanto ci si possa aspettare". Il cardinale ha anche aggiunto di ritenere che “molte delle persone colpite da queste restrizioni "non abbiano mai avuto la benché minima idea di non accettare le riforme liturgiche del Concilio Vaticano II”.

Anche il Cardinale Walter Brandmüller, presidente emerito del Pontificio Comitato delle Scienze Storiche, non ha lesinato critiche al documento.

“Prima di tutto – ha notato – si deve notare che una legge, perché abbia forza legislativa, non richiede alcuna accettazione speciali dalle parti coinvolte. Ma richiede che sia recepita. Vale a dire, l’accettazione affermativa della legge nel senso di “farla propria”.

Inoltre, il Cardinale tedesco sottolinea che “se c’è dubbio sul fatto che la legge sia vincolante, questa allora non lo è”, e per questo è chiaro che “le leggi e la comunità per cui le leggi sono stabilite sono collegati l’uno con l’altro in un modo quasi organico”.

Insomma, conclude, la “validità di una legge dipende alla fine sul consenso di quanti sono interessati dalla legge stessa. La legge deve servire il bene della comunità – e non viceversa la comunità serve il diritto”.

Il Cardinale Robert Sarah, prefetto emerito della Congregazione del Culto Divino, ha legato l’uso antiquior alla necessità della Chiesa di giocare un ruolo di fondamento della società. Ciò che era sacro per gli antichi non può non essere più sacro, ha spiegato, e per questo Benedetto XVI aveva concesso ai fedeli di celebrare anche secondo quel rito. “Il litigio sulla questione dei riti mette la credibilità della Chiesa a rischio”, ha detto il porporato africano.

Tra i cardinali, c’è anche chi invece sostiene completamente il motu proprio. Ad esempio, il Cardinale Walter Kasper, il quale ha sottolineato che secondo lui “la stragrande maggioranza dei fedeli cattolici” sia contro la Messa secondo l’antico rito. Sempre secondo il Cardinale Kasper, i fedeli che celebrano secondo l’uso antiquior scandalizzano sostenendo che questa sia l’unica vera Messa cattolica, di fatto andando a tradire gli sforzi di Benedetto XVI di superare le divisioni nella Chiesa.

C’è da considerare, poi, una opinione pubblica generalmente contraria all’uso antiquior, che si era già mostrata particolarmente ostile sotto Benedetto XVI. Don Cluade Barthe, cappellano principale dei pellegrinaggi Summorum Pontificum, ha punato il dito contro una lobby nella Conferenza Episcopale Italiana che si sarebbe attivata per disinnescare il Summorum Pontificum.

E questo perché, nelle sue parole, “in Italia, più tardi che in Francia, i giovani sacerdoti cominciavano ad utilizzare la Messa tradizionale e ad adottare idee più tradizionale. Hanno notato una ‘tradizionalizzazione dei seminari’, che li ha molto preoccupati”.

Se è vera questa ricostruzione, allora si comprende perché Papa Francesco abbia voluto una ispezione presso la Congregazione del Culto Divino, prima di decidere della successsione del Cardinale Sarah, e abbia affidato questa ispezione al vescovo Claudio Maniago, che è anche presidente della Commissione Liturgica della Conferenza Episcopale Italiana, nonché il curatore della nuova traduzione del Messale in lingua italiana.

Tutto, in fondo, suggerisce che dietro la scelta del Papa ci sia un motivo dottrinale, più che meramente liturgico. Il timore sarebbe quello che la liturgia tradizionale portasse invece a rigettare l’insegnamento del Concilio Vaticano II, come se ci fosse un’altra Chiesa.

Un pensiero che sembra confermato dal modo in cui il Papa ha spiegato la sua decisione ai gesuiti che ha incontrato a Bratislava lo scorso 12 settembre.

“Adesso – ha detto Papa Francesco – spero che con la decisione di fermare l’automatismo del rito antico si possa tornare alle vere intenzioni di Benedetto XVI e di Giovanni Paolo II. La mia decisione è il frutto di una consultazione con tutti i vescovi del mondo fatta l’anno scorso. Da adesso in poi chi vuole celebrare con il vetus ordo deve chiedere permesso a Roma come si fa col biritualismo”.

Il Papa ha anche chiosato che “ci sono giovani che dopo un mese di ordinazione vanno dal vescovo a chiederlo. Questo è un fenomeno che indica che si va indietro”.

Ci potrebbe essere, in fondo, una paura di perdere i frutti del Concilio Vaticano II, dietro questa decisione. Una decisione comunque dura, discussa più nei toni che nel merito.

Al di là di tutto, i Cardinali stanno imparando a fare i conti con questo motu proprio. La panoramica di prese di posizione sulla Traditionis Custodes dimostra, di fatto, che sono in pochissimi a voler applicare il documento di Papa Francesco in maniera dura. Tutti vogliono piuttosto trovare una unità, avere un equilibrio, senza mettere insieme quanti hanno utilizzato il rito antico per creare divisione nella Chiesa.

Se l’obiettivo del Papa è l’unità, lo è a maggior ragione per i cardinali. Magari non tutti hanno condiviso i toni del Papa, ma tutti hanno cercato di trovare una spiegazione e di andare avanti. In fondo, anche la distinzione tra progressisti e conservatori, in questo caso, è diventata più sfumata, tanto che è impossibile stabilire la dicotomia. Come si può definire progressista, in queste circostanze, il Cardinale Blaise Cupich, arcivescovo di Chicago, che in uno statement pubblicato appena dopo la pubblicazione del motu proprio ha fatto sapere che si sarebbe preso tempo per riflettere e comprendere come implementare la decisione del Papa.

Tutto va letto in questa ricerca di equilibrio. Senza fare in inutili dicotomie ideologiche, la chiave sta proprio nell’essere cattolici. Ed è così che devono farsi chiamare anche coloro che celebrano secondo l’antico rito. Tutto il resto, rischia di creare divisioni. E, magari, reazioni difficili da gestire.

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