Pagine

domenica 14 novembre 2021

Echi tridentini in gastronomia. La sbrisolona e san Carlo Borromeo: "San Carlo Borromeo, coraggio, pietà e dottrina di un eletto"

Nuovi echi tridentini in gastronomia.
Luigi

Liana Marabini, La nuova Bussola Quotidiana, 25-10-2021

San Carlo Borromeo rimane un esempio che attraversa i secoli, non solo per la sua grande pietà e capacità di sacrificio, ma anche per il suo coraggio, caratteristica delle anime elette. Il Concilio di Trento, la peste di Milano, i sinodi e il rapporto col potere. Fu riformatore di ordini e promotore di nuove spiritualità. E fiorirono i miracoli per sua interecessione.


La stretta finestra che dal suo studio dà sulla strada permette al governatore di guardare cosa succede fuori. In quel giorno di luglio 1576 contempla la folla di uomini, donne e perfino bambini che serpeggia attraverso la piazza e si dirige verso il Duomo. È capeggiata dal dannato vescovo, che gli dà del filo da torcere. Vorrebbe annientarlo, ma deve essere cauto: il vescovo è ammirato in città e ha molto seguito.

Eppure, deve trovare una soluzione. Il governatore allunga la mano e prende un pezzo di dolce dal piatto posato davanti a lui: ama molto la sbrisolona, questa torta secca fatta con mandorle e farina di mais, che ha scoperto a Milano già nei primi tempi del suo arrivo come governatore, in rappresentanza dell’imperatore Carlo V [Vedere ricetta].

Ora guarda il vescovo che cammina a piedi nudi, invocando la misericordia di Dio per la disgrazia che si sta abbattendo sulla città. È vero che ci sono stati dei casi preoccupanti di peste e della gente ne era morta, ma di sicuro non la si guarisce con canti e nenie. Stizzito, il governatore si ficca in bocca un ultimo pezzo della deliziosa torta dolce e friabile e si alza dalla sedia. Glielo farà vedere lui.

L’uomo che guarda dalla finestra in quel lontano giorno d’estate di luglio 1576 è Antonio de Guzmán y Zuñiga (Siviglia, 1514 – Milano, 20 aprile 1580). Il vescovo è Carlo Borromeo (1538-1584). La peste che li vede protagonisti ucciderà alla fine 15.000 persone, un po’ meno di dieci per cento dell’intera popolazione milanese di quell’anno.

Ognuno dei due uomini sosterrà poi, una volta passata l’epidemia, che il merito era suo: il governatore perché avrebbe costretto in casa la popolazione, il vescovo perché aveva invocato l’aiuto del Signore.

Avevano forse ragione entrambi e non sapremo mai chi aveva ragione.

Fatto sta che il vescovo, quel vescovo, non temeva la malattia né quell’epidemia, durante la quale mostrò una straordinaria dedizione ai malati e si adoperò con tutto sé stesso per limitare la diffusione della malattia.


Nato ad Arona il 2 ottobre 1538, in una famiglia dell’alta aristocrazia lombarda, Carlo Borromeo ha due genitori che vengono da due illustri famiglie: il padre è Gilberto II Borromeo e la madre è Margherita Medici di Marignano, sorella di papa Pio IV (1499-1565).

All'età di 12 anni ricevette la tonsura e il beneficio dell'Abbazia benedettina di Arona, lasciata vacante dallo zio.

Studiò le discipline umanistiche a Milano sotto la guida di fra Giacomo Merula e il diritto canonico e civile a Pavia sotto la guida del futuro cardinale Francesco Alciato, dove si laureò in diritto il 6 dicembre 1559. Qui avrebbe creato più tardi (nel 1564) un istituto residenziale per studenti in condizioni economiche precarie, ma con alti livelli di preparazione e abitudini di studio. L'istituto prese il nome di Almo Collegio Borromeo, oggi il più antico e prestigioso collegio storico di Pavia e tra i più antichi d'Italia.

Nel 1559 suo zio è eletto al soglio pontificio alla morte di Paolo IV. Nel 1561, lo stesso zio interviene affinché Carlo sia promosso cardinale segretario di Stato, poi legato apostolico a Bologna, in Romagna e nelle Marche.

Partecipò attivamente al Concilio di Trento, sforzandosi di riformare gli abusi penetrati nella Chiesa, e fece scrivere il famoso catechismo noto come Catechismo del Concilio di Trento (1566).

Nominato arcivescovo di Milano nel 1564, rinunciò a tutti gli altri suoi incarichi a Roma per poter risiedere stabilmente nella sua diocesi. La sua integrità personale, la sua intelligenza delle situazioni e la sua virtù facilitano il ristabilimento della disciplina ecclesiastica. Ha cercato di applicare le misure prese al Concilio. Dapprima si stabilì a Milano e aprì un seminario per migliorare la formazione del clero. Restituì l'osservanza della regola nei conventi e fece fissare le porte nelle sale di visita. Ben presto, estese il teatro della sua azione a tutta l'Italia, poi alla Svizzera.

Con il cardinale Vitellozo Vitelli (1531-1568) ha riformato e “rivede gli statuti della Cappella Pontificia [e prescrive] l'intelligibilità delle parole e delle musiche legate al testo”. A quel tempo il maestro in Vaticano era il compositore Giovanni Pierluigi da Palestrina e la polifonia corale si trasformò in tutti i paesi sotto l'influenza vaticana. Carlo Borromeo interviene per convincere i recalcitranti, in particolare Costanzo Porta, a Milano. La corrispondenza di quest'ultimo con “Carlo Borromeo, cardinale arcivescovo di Milano, lo mostra ardente difensore della pratica strumentale in chiesa e del fasto sonoro”, mentre il cardinale contesta ogni argomento con un'acutezza che prova la sua grande conoscenza della scienza della musica.

Nella sua diocesi di Milano, visitò le sue parrocchie, tenne sinodi, riunì concili provinciali: ciò che era ampiamente indicato nei decreti di Trento fu fissato nei minimi dettagli nelle ordinanze del Borromeo e con perspicacia di ciò che era necessario e realizzabile. Le prescrizioni generali formulate dal Concilio di Trento in materia ospedaliera furono tradotte in minuziose applicazioni pratiche nei Concili di Milano da lui presieduti nel 1565 e nel 1576.

Quasi ovunque in Europa, l'esempio dato da Carlo Borromeo doveva essere fedelmente seguito dalle autorità religiose locali, tanto più fedelmente in quanto i governi non intendono promulgare le decisioni del Concilio di Trento che, su questo piano, erano chiaramente contrari alle proprie ordinanze. 

Nel regno di Francia, papa Pio V e il cardinale Borromeo si sforzarono di ottenere, da un lato, dall'autorità sovrana la promulgazione ufficiale delle decisioni tridentine, dall'altro, dai vescovi l'inserimento delle prescrizioni conciliari nella disciplina locale attraverso varie assemblee ecclesiastiche. Questo pensiero emerge chiaramente dalle lettere del cardinale Borromeo, che affida al nunzio due missioni: portare alla promulgazione la reggente Caterina de' Medici, e trasmettere i decreti a conoscenza del clero.

Uno degli ordini che voleva riformare, l'Ordine degli Umiliati, tentò di farlo assassinare, ma lui scampò ai colpi dell'assassino.

E arriviamo così al momento storico descritto all’inizio di questo racconto: all’epidemia di peste che devastò Milano nel 1576. In quel passaggio così difficile Carlo Borromeo portò ovunque aiuti e consolazioni, ignorando i pericoli del contagio.

Fin dall'inizio della diffusione di questa terribile malattia, che la medicina dell'epoca non sapeva curare, il vescovo offrì il suo aiuto alle autorità civili, e consigliò al governatore di porre in essere le prime misure profilattiche volte a limitare la diffusione del male. Le porte della città vennero chiuse per impedire l'arrivo di nuovi appestati, poiché il morbo proveniva dai paesi circostanti. Un'altra misura elementare per limitare il contagio: separare i malati dai sani. Così, al minimo sospetto di peste, gli abitanti venivano mandati al lazzaretto. Ma in fretta questo non bastava e le autorità organizzarono la costruzione, fuori città, di diverse centinaia di capanne per accogliere i malati.

Ma Carlo Borromeo non può concepire di lasciare senza conforto gli appestati e i moribondi. Sa quanto sia fondamentale il supporto emotivo, e soprattutto spirituale, durante un'epidemia e considera che la salute dell'anima è più importante di quella del corpo.

Decide quindi di andare ogni giorno a visitare gli appestati per confortarli, confessarli e dare loro la Santa Comunione. Il suo coraggio e la sua generosità attirarono altri sacerdoti e religiosi. A poco a poco, questi ecclesiastici venivano a loro volta a portare l'aiuto della religione ai malati, che, senza di loro, sarebbero rimasti in profonda solitudine e angoscia.

Nel 1581 fondò una congregazione di oblati, sacerdoti secolari che in seguito sarebbero stati conosciuti con il nome di “Oblati di San Carlo”.

Fu uno degli ultimi atti notevoli che realizzò nella sua vita, tutto sommato, corta: morì nel 1584, all'età di 46 anni, stremato dalla fatica e dall'austerità. Gli è attribuita la frase pronunciata verso coloro che lo invitavano a riposarsi: "Per illuminare, la candela deve essere consumata". E ricordiamoci che per molti anni si è nutrito di pane ed acqua e che mangiava un solo pasto al giorno.

La sua tomba fu teatro di guarigioni considerate miracolose, che permisero l'inizio del suo processo di beatificazione, conclusosi nel 1609 davanti a papa Paolo V, che lo canonizzò il 1° novembre 1610. Fu uno dei pochissimi santi il cui processo di canonizzazione si è concluso solo un anno dopo la sua beatificazione.

Si festeggia il 4 novembre. Gli fu eretta ad Arona una statua colossale.

San Carlo Borromeo è uno dei più grandi prelati italiani del Cinquecento. Ci ha lasciato trattati teologici, raccolti in 5 volumi e pubblicati a Milano nel 1747, fra i quali: Istruzioni ai confessori e Gli Atti della Chiesa di Milano.

La sua biografia è stata scritta da Giovanni Pietro Giussani, da Antoine Godeau e da padre Antoine Touron, nel 1761. San Carlo Borromeo rimane un esempio che attraversa i secoli, non solo per la sua grande pietà e capacità di sacrificio, ma anche per il suo coraggio, caratteristica quest’ultima delle anime elette.

Nessun commento:

Posta un commento