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lunedì 12 luglio 2021

Echi tridentini in gastronomia: San Luigi Gonzaga e la cucina mantovana

Riprendiamo ancora sulla Bussola il tema della gastronomia.
Luigi

Liana Marabini, La Nuova Bussola Quotidiana, 13-6-21

Pur di seguire Gesù, san Luigi Gonzaga rinunciò a tutti i suoi averi e ai diritti ereditari sui marchesati di Mantova e Castiglione. Un casato illustre, il suo, che ha lasciato il segno anche nella storia del cibo. La tradizione culinaria mantovana è ricchissima, si va dal famoso salame al tiròt, fino al bevr'in vin.

Castiglione delle Stiviere, 2 novembre 1585. Siamo nella cappella privata del castello della famiglia Gonzaga. Un giovane gracile elegantemente vestito sta inginocchiato davanti al Santissimo Sacramento, gli occhi chiusi e le mani giunte sotto il mento appuntito. Il raggio di luce che penetra da una vetrata colorata fa indovinare la giornata soleggiata, malgrado l’autunno inoltrato. Da una porta laterale entra un uomo che si ferma ad osservare il giovane: è suo padre, Ferdinando I Gonzaga (1544-1586), signore, poi marchese di Castiglione. Ferdinando sente il cuore stringersi a quella vista e l’incomprensione per la scelta di suo figlio aumenta la sua confusione. Luigi, suo diletto figlio, il primogenito, dotato di un’intelligenza fuori dal comune, colui che doveva portare avanti il nome, la fortuna e le armi dei Gonzaga, ha rinunciato a tutto per diventare prete. Ha scelto Dio.

Ferdinando non è che non ci crede, ma l’idea del Cielo, del Paradiso, dei Santi e di tutto ciò che questo comporta gli sembra astratta e molto lontana dal fascino della vita terrena. Invece Luigi, già a 10 anni, ha scelto la castità a vita e poi lo ha comunicato al padre con una semplicità che lo ha lasciato frastornato. Lui, che sognava per il figlio un matrimonio grandioso, con inclusa un’alleanza politica che avrebbe reso ancora più forte il loro casato.

Ora Luigi ha 17 anni e si sta preparando per andare a Roma, dove realizzerà il suo sogno: entrerà al seminario e più tardi prenderà i voti. Nel corso della mattinata di quello stesso giorno, Luigi aveva rinunciato solennemente, davanti al notaio di famiglia, in favore del fratello minore Rodolfo (futuro Rodolfo II da Castiglione, 1569-1593), al titolo, a tutti i suoi averi, ai diritti ereditari sui marchesati di Mantova e Castiglione. Quando Ferdinando gli aveva detto “ora non hai più niente”, Luigi lo aveva guardato con i suoi occhi che sondavano l’anima e un sorriso sereno gli aveva illuminato il viso mentre gli rispondeva: “Ora ho tutto”.

Ferdinando lo guarda, mentre Luigi, ignaro della presenza del padre, continua a pregare, in una comunione assoluta con quel Dio che Ferdinando vorrebbe odiare e che accusa mentalmente di tutti i suoi mali. E forse una parte di colpa l’ha anche sua moglie (Marta Tana di Santena, 1550-1605) che portava il figlio fin dalla più tenera età in chiesa con lei. Alla loro tavola c’erano sempre dei preti, dei vescovi e dei cardinali e Luigi provava un piacere evidente in loro compagnia, beandosi della loro conversazione. Il 22 luglio 1580, aveva ricevuto la Prima Comunione da Carlo Borromeo, che il giovane ammirava oltre ogni limite.

Dopo aver letto un libro sui missionari gesuiti in India, Luigi aveva sentito il desiderio di diventare missionario. Aveva anche iniziato a “praticare”, insegnando catechismo ai ragazzi di Castiglione durante l’estate. Aveva visitato più volte anche le case dei Frati Cappuccini e dei Barnabiti situate a Casale Monferrato, capitale del Ducato del Monferrato governato dai Gonzaga, dove la famiglia trascorreva l’inverno. E aveva adottato anche uno stile di vita ascetico. E lui, il padre, non aveva visto il pericolo.

Guarda il figlio e si domanda che cosa il suo ragazzo avrà trovato in quel mondo invisibile e lontano, forse inesistente, per rinunciare a ciò che aveva. A ciò che gli spettava di diritto. Era sempre stato diverso dagli altri, questo non poteva negarlo. Lo aveva inviato alle corti più brillanti e sofisticate d’Europa, per cercare di dargli il gusto per lo sfarzo, ma aveva ottenuto il risultato opposto.

La vita di corte, con il suo lusso, gli intrighi e il lassismo morale, lo aveva lasciato profondamente insoddisfatto. Si era imposto atti di penitenza per difendersi dall’indolenza dei costumi della corte spagnola e dalle tentazioni di quella toscana. Voleva uno stile di vita più evangelico, più semplice e austero, incentrato sui valori spirituali ai quali aspirava e che davano un senso alla sua giovane vita. Rivoltato dalla superficialità e dai costumi dubbiosi di quelle realtà, Luigi si era chiuso sempre di più in sé, anelando ad una vita dedicata a Dio. Il suo desiderio di servire la Chiesa si era affinato, fino alla decisione suprema, quella di abbracciare il sacerdozio.

E così quel giorno di tardo autunno partì per Roma, dove, poco tempo dopo, tramite il conte d’Olivares, ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede, fu presentato a papa Sisto V, che gli impartì la benedizione il 23 novembre 1585. Due giorni dopo entrò nel noviziato di Sant’Andrea al Quirinale. A parte qualche interruzione per motivi di salute o familiari, Luigi Gonzaga trascorse sei anni a Roma. Emise i primi voti il 25 novembre 1587, all’età di 19 anni, per poi iniziare gli studi universitari presso il Collegio Romano. Negli anni, come ogni altro studente gesuita, esercitò le funzioni di lettore e di accolito. Il tempo non occupato dallo studio veniva speso nella preghiera e nella carità.

Nel 1591, quando a Roma scoppiò un’epidemia di peste, i gesuiti si misero al servizio dei malati. Un testimone ricorda di aver visto Luigi Gonzaga con sulle spalle un malato di peste per portarlo in ospedale. Naturalmente, fu contaminato e si ammalò gravemente. Presto, apparve evidente che sarebbe morto in breve tempo, e gli fu data l’Estrema Unzione. Mentre era malato, parlò più volte con il suo confessore, il cardinale (e poi santo) Roberto Bellarmino. Luigi ebbe un’altra visione e disse a diverse persone che sarebbe morto nell’ottava della festa del Corpus Domini. Quel giorno, 21 giugno 1591, al mattino sembrava migliorato, ma insisteva che sarebbe morto prima della fine della giornata.


Quando iniziò a indebolirsi, Bellarmino recitò le preghiere per i moribondi. Morì poco prima di mezzanotte. Padre Joseph Tylenda S.J. (1928-2018) racconta: “Quando i due gesuiti vennero al suo fianco, notarono un cambiamento nel suo volto e si accorsero che il loro giovane Aloysius stava morendo. I suoi occhi erano fissi sul crocifisso che teneva tra le mani e, mentre cercava di pronunciare il nome di Gesù, morì”.

La purezza era la sua virtù più notevole. La mistica carmelitana S. Maria Maddalena de’ Pazzi affermò di averne avuto una visione il 4 aprile 1600. Lo descrisse come raggiante di gloria per le sue “opere interiori, martire nascosto per il suo grande amore per Dio”. Morì di peste il 21 giugno 1591, a soli ventitré anni (era nato il 9 marzo 1568). È stato beatificato solo quattordici anni dopo la sua morte da Paolo V, il 19 ottobre 1605. Il 31 dicembre 1726 fu canonizzato insieme ad un altro novizio gesuita, Stanislao Kostka, da Benedetto XIII.

Tra qualche giorno, il 21 giugno, sarà la sua festa. Faremo una preghiera per la sua anima pura, che ha scelto la bellezza della fede e ha rinunciato alle ricchezze terrene e al potere del suo casato. Non dimentichiamo che quello dei Gonzaga era un casato illustre, che regnò in particolare sul marchesato (diventato poi ducato) di Mantova.

Mantova è anche una città con una straordinaria tradizione gastronomica, in gran parte risalente ai Gonzaga, che al pari di altri signori rinascimentali italiani hanno lasciato il segno anche nella storia del cibo. Vista la posizione geografica occupata dalla provincia di Mantova, la tradizione culinaria mantovana si apparenta con la cucina emiliana del salume e della pasta e con la cucina lombarda del riso. È famoso il salame mantovano (che può essere preparato con o senza aglio), ma anche la coppa, la pancetta, i ciccioli e il culatello. Sono squisiti i piatti tipici: la chisœla (focaccia salata), il tiròt (focaccia con cipolle), i tortelli di zucca, i capunsei (gnocchi di pane di forma cilindrica affusolata). Nei risotti citiamo: risotto col puntèl (condito con salamella, costine o braciola di maiale), risotto con le rane (condito con le rane pulite, olio e cipolla), risotto con i saltaréi (condito con gamberi di fiume fritti), risotto alla pilota (condito con salamella di maiale).

Un piatto che merita un commento è il bevr'in vin (dal dialetto mantovano bevr'in ven = bere nel vino): si tratta di una minestra che costituisce l’aperitivo e l’antipasto tipico della cucina mantovana. Secondo la tradizione della terra gonzaghesca, i pasti invernali debbono essere preceduti dal bevr'in vin, sempre servito in scodella preriscaldata e preparato in tre differenti modi, in funzione del successivo primo piatto. Nel caso il primo piatto sia costituito da agnolini o da cappelletti, in brodo o asciutti, il bevr'in vin viene composto da un mestolo di brodo bollente, contenente alcuni agnoli o cappelletti. La temperatura verrà diminuita dal commensale aggiungendo a piacere vino rosso di forte corpo. Tale operazione viene anche definita “negàr i caplét in d’l’acqua scura”, ovvero “annegare i cappelletti nell’acqua scura”. Nei ristoranti, per favorire la comprensibilità dei menù ai turisti, questa versione del bevr'in vin viene spesso denominata sorbir d’agnoli. Nel caso il primo piatto sia costituito da tortelli di zucca, il bevr'in vin viene composto da cinque o sei tortelli appena cotti, ai quali vengono aggiunti un goccio d’acqua di cottura e mezzo bicchiere di vino. Questa versione del bevr’in vin viene anche definita turtèi sguasaròcc, ovvero “tortelli sguazzanti”, sottolineando la stranezza dei tortelli di zucca in minestra, di solito serviti asciutti. Per tutti gli altri primi piatti, il bevr'in vin è semplicemente preparato con brodo di carne e mezzo bicchiere di vino. Le varianti a queste tre versioni consistono esclusivamente nelle diverse tipologie e quantità di vino utilizzate, solitamente Lambrusco, Ancellotta, Clinto o Merlot, e nell’aggiunta (facoltativa) di formaggio grana grattugiato.

È antica credenza popolare che questo tipo di aperitivo-antipasto costituisca una sorta d’elisir di lunga vita e, a tale riguardo, un antichissimo proverbio mantovano, tuttora molto in uso, recita: “Al bevr’in vin l’è la salut ad l’omm”, ovvero “il bere nel vino è la salute dell’uomo”.

Infine, i dolci sono vari: la bignolata è una torta fatta con bignè allo zabaione, cioccolata e panna; il fiamòn (torta ormai caduta in “disuso”, fatta con avanzi di polenta fritta e cosparsa di zucchero); il sugolo o sugol è una sorta di budino di origini antichissime che si prepara nel periodo della vendemmia usando il mosto pigiato legato con la farina; i papasìn (a volte italianizzato in papassini) è un dolce preparato con uvetta, pinoli, farina di castagne e zucchero; infine, dulcis in fundo, ricordiamo l’anello di san Luigi Gonzaga, squisito dolce di mandorle a forma di corona (che ricorda il collo di pizzo che indossavano gli uomini del suo secolo) tradizionalmente preparato il 21 giugno (vedi ricetta).

Sarà un altro modo per ricordare questo santo fuori dal comune, che ha preferito l’eterno all’effimero.

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