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giovedì 16 luglio 2020

Pizzi e merletti - II parte: fonti del "diritto liturgico"

Continua l'excursus storico dottrinale e giuridico sull'uso dei pizzi nei paramenti per le celebrazioni. 
Oggi la seconda parte (qui la prima) del bel trattato di Guido Ferro Canale in difesa dei "pizzi e dei merletti" liturgici. 


Quando la passione per la Liturgia porta
a non capire più la Sua natura 
II parte 

di Guido Ferro Canale 

Seguire, dopo l'avvento di Cristo, i precetti cerimoniali dell'AT è peccato mortale
Ci si potrebbe chiedere se, fermo tutto quanto sopra, i precetti cerimoniali, ossia le norme della Legge antica sullo svolgimento del culto divino (cfr. Summa Theologiae, I-II, qu. 101, a. 1), restino ancora in vigore o conservino almeno un qualche carattere esemplare.
Già il semplice fatto che nella Chiesa fiorisca ab immemorabili la pluralità dei riti basterebbe ad escludere una perdurante vigenza di quella che era una disciplina uniforme; ma devo subito aggiungere che essa ha perduto anche la sua più profonda ragion d'essere, significare il futuro avvento di Cristo. Ora che il Messia è arrivato, sarebbe contrario alla verità riproporre un culto che lo dà per venturo; e non sarebbe conveniente neanche rispetto alla condizione del popolo, mutata a sua volta, giacché noi disponiamo della Grazia e dei mezzi cultuali, di nuova istituzione, che la significano e conferiscono (cfr. ivi, I-II, qu. 103, a. 3). Dunque, i precetti cerimoniali, come tutte le Scritture, conservano un valore perenne – non disciplinare ma dottrinale - quanto al loro significato spirituale; rispetto all'ordinamento del culto, però, seguitare ad osservarle costituirebbe peccato mortale,
poiché “Tutte le cerimonie sono, in un certo senso, professioni della fede in cui consiste il culto interiore di Dio”; e renderemmo a Dio un culto falso se significassimo con simili azioni, pur senza crederlo davvero, che Cristo deve ancora venire (I-II, qu. 103, a. 3).
Si può ancora aggiungere che, siccome II-II, qu. 93, a. 1, specifica che il peccato in parola è la superstizione, vigente il vecchio Codice (can. 2325) l'osservanza dei precetti cerimoniali costituiva automaticamente delitto canonico. Inoltre, di fatto essa induce almeno un sospetto di eresia: la cessazione dei precetti cerimoniali è chiaramente attestata dalla Scrittura (cfr. ad es. At 15,28.9; Col 2,16-7; Eb 8,13) e costituisce essa stessa un articolo di Fede, d'altronde confermato dalla prassi universale e costante della Chiesa; solo l'ignoranza o l'errore potrebbero scusare il gesto, senza però sminuirne la gravità oggettiva.
Nondimeno, come S. Vincenzo Ferrer ha potuto riportare in auge il precetto palino del velo muliebre, concedo come almeno possibile che talvolta - ferma la generale cessazione di cui sopra - alcuni singoli precetti siano stati mantenuti in vita oppure ristabiliti dall'autorità ecclesiastica. Anche in quest'ipotesi, però, vi è una differenza decisiva: la causa della loro obbligatorietà non risiede più nell'origine divina, ma nell'intervento della Chiesa, che, senza esservi affatto tenuta, li ha recepiti o nuovamente approvati come utili nel tempo nuovo.

Le fonti del diritto liturgico
Naturalmente, l'ossatura della Sacra Liturgia è di diritto divino e comprende sia le norme sulla validità dei Sacramenti, sia le nozioni dei diversi peccati che purtroppo si possono commettere in materia di culto - dalla superstizione al sacrilegio - sia i princìpi generali, come la necessità di un culto interno ed esterno, espresso con cerimonie e parole, nonché del sacro silenzio.
Tuttavia, a parte questi elementi fondamentali, la Liturgia è tutta quanta materia di diritto umano, che, nel corso dei secoli, si è sviluppata in forme anche molto diverse secondo i tempi e i luoghi, dando vita in particolare a veri e propri sistemi, talvolta contraddistinti anche da una propria spiritualità: i riti.
Dalle origini in poi, e per lunghissimo tempo, la fonte principe della disciplina liturgica - come del diritto canonico in genere - è stata la consuetudine; la legge scritta non interveniva che per confermarla quand'era minacciata dall'inosservanza, difenderla o ristabilirla contro gli abusi, ben di rado per modificarla. In Occidente, tuttavia, il rito romano, in origine proprio appunto della città di Roma, per il valore esemplare assunto dalle cerimonie in uso presso la Curia e per la scelta dell'Ordine francescano, figlio del Primato pontificio, di adottare nei propri conventi il Messale del Papa, è via via divenuto il rito di gran lunga più seguito e praticato di tutti.
Ma con l'irruzione della Pseudo-Riforma protestante, che spesso si è mascherata o fatta strada proprio attraverso innovazioni liturgiche capaci di guadagnare il favore popolare, il diritto consuetudinario è stato posto in crisi nel suo principio fondante, la generale percezione di legittimità della norma in quanto da sempre osservata. Occorreva dunque tutelare i beni più preziosi della Chiesa dalle mani sacrileghe degli eretici, tutelare le anime dal veleno, ma soprattutto attribuire alle norme un'altra garanzia di legittimità e di sicura osservanza.
Per queste ragioni S. Pio V, con la Cost. Ap. Quo primum tempore, mentre attuava una profonda riforma del Messale Romano, già auspicata dal Concilio di Trento, ha segnato una netta cesura nella storia del diritto liturgico, imponendo l'uso di quel Messale rivisto a tutta la Chiesa latina, tranne i luoghi o gli Ordini che seguivano un rito invalso da almeno duecento anni (l'esempio più noto è l'ambrosiano, ma si può ricordare anche il rito patriarchino di Aquileia, che conobbe una nuova edizione del proprio Messale a fine Cinquecento; i perseguitati Cattolici inglesi proseguirono in un primo tempo a celebrare secondo il c.d. rito di Sarum, gradualmente abbandonato nel corso del sec. XVII; etc. etc.). A tutti i Sacerdoti, comunque, era sempre lecito seguire il Messale Romano: è il celebre “indulto perpetuo”.
Con quest'augusto intervento pontificio, peraltro, non è stato affatto chiuso ogni spazio alla consuetudine, generale o locale: basta scorrere le parti precettive del Messale, o degli altri libri liturgici della riforma tridentina, per rendersi conto di quanti punti non vengano disciplinati. Per esempio, sono molto scarne e generali le indicazioni sulla foggia dei paramenti, che infatti ha sempre mantenuto una grande variabilità secondo i tempi, i luoghi, o anche le vere e proprie mode. Altre volte le lacune sono molto più importanti: si pensi che il Rituale Romanum - unico libro che disciplini l'amministrazione della S. Comunione, anche infra Missam – nulla dice sul fatto che essa vada ricevuta in ginocchio e in bocca.
Tuttavia, la riforma liturgica tridentina ha sottratto ai Vescovi la potestà legislativa in materia, riservandola alla S. Sede, come dichiara espressamente (a distanza di secoli) ancora il can. 1257 CIC, sulla scorta di tutta la prassi anteriore. Siccome in diritto canonico la consuetudine, per aver forza obbligante, deve essere approvata dal legislatore, e posto che quelle, anche immemorabili, anteriori al Messale di S. Pio V e da esso difformi sono abrogate dalla Quo primum tempore (mentre sopravvivono quelle immemorabili contrarie al Caeremoniale Episcoporum), il giudizio su tutte le prassi locali contra o praeter legem, nonché la generale potestà di emanare norme liturgiche per il rito romano, di interpretarle, di apportarvi le deroghe opportune (dispense, privilegi...) o appunto di approvare nuove consuetudini, sono stati attribuiti alla Sacra Congregazione dei Riti, istituita da Sisto V nel 1588, nell'ambito della sua riforma generale della Curia Romana.
Quindi, l'assetto delle fonti del diritto liturgico si è configurato secondo il seguente ordine gerarchico:
-        legge scritta promulgata dalla Sede Apostolica (i libri liturgici);
-        decreti della S.R.C., che interpretano, applicano, integrano i libri liturgici, anche accordando dispense per casi particolari, perché hanno la stessa forza della legge scritta;
-        la consuetudine generale o locale, la cui approvazione spetta però alla medesima Congregazione dei Riti;
-        nel silenzio delle fonti che precedono, l'opinione comune e costante dei liturgisti, il cui consenso può anche valere ad attestare l'esistenza della consuetudine generale;
-        in sede locale, i Propri delle Diocesi o degli Ordini, anch'essi però soggetti ad approvazione della S.R.C.;
-        i più svariati privilegi concessi a, oppure “usucapiti” da, persone fisiche, comunità di ogni genere, etc. (mi limito a un esempio ben noto: l'uso dei paramenti azzurri per le feste in onore della Beatissima Vergine).
[Sull'assetto post-tridentino e sul diritto liturgico in generale, cfr. amplius A. BlatCommentarium textus Iuris Canonici, Lib. I, Roma 1921, App. I; si badi che il primo libro è in fondo al file PDF, perché stranamente rilegato insieme con il quinto].
Insomma, per secoli il sacrosanto principio per cui, nel culto divino, tutto ciò che non è permesso è vietato (ossia, sotto pena di un peccato grave come la superstizione di culto indebito – vedi sopra - si deve fare solo ciò che è previsto dal diritto) ha significato che ogni dubbio e ogni caso particolare dovevano passare, e di fatto passavano, al vaglio di Roma e, a Roma, di un ufficio soltanto: la S. Congregazione dei Riti.
Ne è derivata una mole di decisioni facilmente immaginabile e con altrettanto intuitivi problemi di conoscibilità (tanto più che un decreto generale del 1632 vietava di darle alle stampe senza previo permesso scritto del Dicastero stesso). Dopo una prima, monumentale collezione ufficiale a cura dell'assessore Mons. Gardellini, edita tra il 1807 e il 1827, che però, ambendo alla completezza, conteneva molti decreti ormai superati e altri superflui, la Congregazione, tra il 1898 e il 1899, curò quella che è comunemente nota come “la collezione autentica” - il titolo è Decreta authentica Congregationis Sacrorum Rituum, ex actis eiusdem collecta eiusque auctoritate promulgata - la quale riunisce tutti e soli i decreti generali allora in vigore.
A questo riguardo occorre considerare che i provvedimenti della Congregazione, pur nella loro grande varietà di contenuto, si possono distinguere in tre categorie: quelli propriamente normativi, che nascono rivolti fin dall'inizio a tutti coloro che seguono il rito romano; le innumerevoli risposte a casi particolari, circa dubbi interpretativi posti dalle norme generali o la conformità con esse di situazioni o prassi locali; le concessioni di dispense, privilegi o grazie per singoli soggetti. La prima categoria ha sempre valore generale, per definizione; la seconda ce l'ha in quanto interpreta le norme generali o in quanto il giudizio di conformità, positivo o negativo, diventa estensibile a tutti i casi simili; e così pure la terza, in genere esclusa dalla collezione, vi rientra quando si vuole che la tale grazia venga accordata nelle future situazioni analoghe (il che permette di orientare meglio i richiedenti e fornire ai Vescovi uno strumento per decidere in prima persona nei casi di urgenza, quando non vi è il tempo per interpellare Roma).
Infatti, “La S. Congregazione non ha pubblicato le molte migliaia dei suoi decreti, ma solo i generali per la Chiesa universale. Essi formano la collezione pubblicata negli aa. 1898-99 [...], poi, negli aa. 1912­1927, sub auspiciis Pii Papae X e Pii Papae XI, fino al 14 maggio 1926, con il n. 4403. [...] Dopo questa data la collezione non è stata proseguita; però i più importanti decreti sono stati pubblicati in AAS.” (A. Carinci, s.v. Decreta Authentica Sacrae Rituum Congregationis, in Enciclopedia Cattolica, vol. IV, Città del Vaticano 1950, coll. 1280-1). Le concessioni di privilegi etc., pur non riprese dalla collezione, restano in vigore, ma i decreti generali in essa non inclusi si intendono abrogati ad ogni effetto.
Va peraltro notato che questa poderosa opera di riordino ha davvero chiuso un'epoca, perché di lì a poco S. Pio X ha inaugurato la stagione delle riforme liturgiche; in particolare, “con la riforma delle Rubriche introdotta da Pio X nel Messale e nel Breviario e con il CIC, molti decreti hanno perduto del loro valore.” (ibid.). Cionondimeno, quando si parla della liturgia tradizionale, il principio resta fermo: il diritto applicabile va ricercato anzitutto nei libri liturgici, quindi nei decreti autentici della S.R.C., interpretati o completati, se necessario, giusta l'opinione comune e costante dei liturgisti (che in questa materia sono i doctores la cui sentenza concorde, nel silenzio della legge, è fonte di diritto per l'ordinamento canonico)
Ma quali libri liturgici?
La posizione dell'autore pone, al riguardo, un problema che non è possibile tralasciare.

(fine seconda parte)

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