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lunedì 9 marzo 2020

Il Papa e l’Italia prostrata dal Coronavirus: ma lo sa quello che sta succedendo?


Chi scrive ha visto, purtroppo per il mio povero cuore, l'Angelus del S. Padre di domenica scorsa dove ha letto lo striminzito messaggio che leggete più sotto. 
Lettura affrettata e, addirittura, con difficoltà nella lettura stessa (ma non l'aveva visto prima?).
Quando io letto un documento fiscale ci metto un po' più di calore.
E in precedenza, almeno mi pare,  sul medesimo argomento, un tweet  e pochi secondi ad un altro Angelus
Da leggere sotto. Con dolore.
Luigi

Settimo Cielo, 9-3-20
(s.m.) Ricevo e pubblico. L’autore è specialista dei rapporti tra Stato e Chiesa e insegna storia contemporanea all’università di Bergamo, nella regione più colpita dal Coronavirus. Il suo ultimo libro ha per titolo: “La cultura storica dell’Italia unita”.
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FRANCESCO, PRIMO PAPA NON ITALIANO

di Roberto Pertici

Domenica 5 maggio 1940, Pio XII si recò solennemente nella basilica di Santa Maria sopra Minerva per ricordare con rito solenne santa Caterina e san Francesco patroni d'Italia. In quell’occasione, elevò una preghiera per il paese di cui era primate:

“O Gesù, Verbo onnipotente, Re dei secoli, che al dividere che faceste le genti e al separare i figli di Adamo, fissaste i termini dei popoli (Deut 22,8) e entro i confini d’Italia eleggeste e stabiliste il luogo santo, ove siede il vostro Vicario, guardate benigno questo popolo e questa terra da voi prediletta, bagnata dal sangue dei Principi dei vostri Apostoli e di tanti martiri, consacrata dalle virtù e dall’opera di tanti vostri Vicari, vescovi, sacerdoti, vergini e servi buoni e fedeli. Qui la fede in voi brillò sempre immacolata, santificò gli antri e i rifugi dei vostri credenti, purificò i templi dei falsi dèi e innalzò a voi basiliche d’oro dall’una all’altra sponda dei mari che ne circondano; qui il vostro popolo più e più si strinse intorno ai vostri altari, dimentico dei dissensi, ansioso della concordia degli animi; e qui questo medesimo popolo implora da Voi, o Re divino delle nazioni, che corroboriate della vostra grazia e del vostro favore l’intercessione, che a protezione nostra in modo più alto e particolare affidiamo, presso il vostro trono di benignità e di misericordia, ai vostri due gran Servi Francesco e Caterina. Ascoltate, o Gesù, la nostra preghiera, che per le loro mani presentiamo a voi".

Si trattava di una preghiera per la pace: cinque giorni dopo, la Germania avrebbe attaccato il fronte francese e iniziato quella che sembrava la fase conclusiva della guerra in Europa. Pregare per la pace significava in quei giorni auspicare che l’Italia, ancora “non belligerante”, rimanesse fuori del conflitto, secondo la linea seguita dalla diplomazia pontificia nei mesi precedenti e propagandata da “L’Osservatore Romano” e dalla stampa cattolica.

Questa campagna aveva fortemente irritato i vertici del regime e lo stesso Mussolini, che invece stava cercando di preparare il paese alla guerra: secondo le testimonianze degli ambasciatori inglese e francese presso la Santa Sede, Osborne e d’Ormesson, durante il percorso verso Santa Maria sopra Minerva, a un incrocio, l’auto del papa avrebbe rallentato e sarebbe stata oggetto di varie contumelie da parte di gruppi di giovani fascisti: “Il papa fa schifo!”, «”Abbasso il papa!”. Non a caso Pio XII sarebbe di nuovo uscito per le strade della città di cui era vescovo solo il 19 luglio 1943, dopo il primo bombardamento alleato sulla capitale: troppo noto è questo episodio perché si debba qui narrarlo di nuovo.

L’attenzione di lui e dei suoi successori per la “cara e diletta Italia”, come nella retorica pontificia veniva in genere indicato il nostro paese, sarà stata spesso anche eccessiva e avvertita da molti nostri connazionali come una tutela asfissiante, ma è indubbio che nei momenti veramente difficili gli italiani (credenti e non) abbiano spesso rivolto lo sguardo al vescovo di Roma, ricevendone parole non dimenticabili. I più anziani ricordano ancora Paolo VI che celebra la messa di Natale nel duomo di Firenze a un mese e mezzo dall’alluvione del 4 novembre 1966 e il suo messaggio agli “uomini delle Brigate Rosse” durante il rapimento di Aldo Moro nel 1978.

Si dirà che quelli erano papi italiani, anzi di sentimenti notoriamente patriottici fin dalla giovinezza, come nel caso di Angelo Giuseppe Roncalli e dello stesso Montini, eredi della tradizione “conciliatorista” lombarda. Per loro – a differenza di tanti cattolici “intransigenti” – l’Italia unita era un dato assodato, un punto di non ritorno. Ma anche un papa non italiano come Giovanni Paolo II fu autore nel 1994 di una memorabile preghiera per l’Italia, non a caso, perché per il papa polacco le nazioni sono profonde realtà spirituali: basta rileggere il suo grande discorso all’assemblea dell’ONU del 5 ottobre 1995. E si deve fortemente sottolineare che le forti radici nazionali di questi pontefici si coniugarono sempre con una capacità straordinaria di incarnare l’universalità del cattolicesimo e del loro ruolo.

Tutti questi ricordi e queste riflessioni mi hanno accompagnato domenica 8 marzo mentre ascoltavo papa Francesco nel primo Angelus che recitava di fronte a un’Italia prostrata, “divisa in due” dall’epidemia di coronavirus.

Ebbene, Francesco ha speso più parole, anche aggiunte a braccio, per una lontana città siriana…

(“Saluto le Associazioni e i gruppi che si impegnano in solidarietà con il popolo siriano e specialmente con gli abitanti della città di Idlib e del nord-ovest della Siria – vi sto vedendo qui – costretti a fuggire dai recenti sviluppi della guerra. Cari fratelli e sorelle, rinnovo la mia grande apprensione, il mio dolore per questa situazione disumana di queste persone inermi, tra cui tanti bambini, che stanno rischiando la vita. Non si deve distogliere lo sguardo di fronte a questa crisi umanitaria, ma darle priorità rispetto ad ogni altro interesse. Preghiamo per questa gente, questi fratelli e sorelle nostri, che soffrono tanto al nord-ovest della Siria, nella città di Idlib”).

… che per il paese della cui capitale è vescovo.

(“Sono vicino con la preghiera alle persone che soffrono per l’attuale epidemia di coronavirus e a tutti coloro che se ne prendono cura. Mi unisco ai miei fratelli vescovi nell’incoraggiare i fedeli a vivere questo momento difficile con la forza della fede, la certezza della speranza e il fervore della carità. Il tempo di Quaresima ci aiuti a dare tutti un senso evangelico anche a questo momento di prova e di dolore”).

Come si vede – se si deve dar retta al testo – per papa Francesco la crisi umanitaria siriana ha “priorità rispetto ad ogni altro interesse”.

Certo non è mancato poi lo strappo al cerimoniale (la breve apparizione alla finestra su piazza San Pietro), ma un’opinione pubblica smarrita e inquieta poteva – diciamolo francamente - aspettarsi qualcosa di più.

Il papa – si sa – legge in genere dei discorsi predisposti, ma più volte l’attuale pontefice ha mostrato la capacità di alzare gli occhi e di parlare a braccio sulle questioni che più gli stanno a cuore. Se non a lui, il difetto di percezione lo si deve imputare ai suoi più diretti collaboratori: dicono che in Vaticano è ormai costantemente all’opera una pluralità di “esperti della comunicazione”, che però in quest’occasione non hanno trovate le parole giuste.

Qualcosa di analogo si può dire anche della conferenza episcopale italiana, che al di là dello zelo dimostrato nel seguire le regole igieniche prescritte dalle autorità, ha avuto difficoltà a pronunciare parole non generiche, “cattoliche” vorrei dire, sulla crisi attuale. Forse mi sbaglio, ma la sua voce non è riuscita ad assumere un risalto specifico fra le tante che i media hanno rovesciato sugli italiani. Questo sul piano del discorso pubblico, perché sono sicuro che i sacerdoti delle zone colpite siano in trincea accanto ai loro fedeli e si siano impegnati “usque ad effusionem sanguinis” nella loro cura e assistenza, materiale e spirituale.

Questo silenzio significa qualcosa? Non entro in questioni teologiche che esulano dalla mia competenza. Riformulo allora la domanda in un’altra forma: quando e come l’Italia ha finito di significare qualcosa per il nostro clero?

Mi si opporrà – come in tutti gli spot per l’8 per mille - che i sacerdoti italiani sono attivissimi nel sociale, dispensano un’attività caritativa e assistenziale di enorme portata. Tutto vero, tanto che anche papa Francesco ha messo più volte in guardia dalla tentazione di trasformare le strutture ecclesiastiche in una enorme ONG.

Ma tutto questo grande sforzo caritativo non riesce poi a trasformarsi in un progetto culturale consapevole, perché mancano alcune domande di fondo sulla realtà italiana, la sua storia, le sue tradizioni culturali, le sue vicende. Per molti sacerdoti e vescovi, la società in cui operano con tanta alacrità è senza storia e soprattutto non mostrano alcun rapporto empatico con la civiltà che essa ha espresso ed esprime.

Si dirà che questo è comune alla maggior parte degli italiani, ed è vero. Che il clero non ha fatto altro che condividere quell’esperienza collettiva che si è chiamata la “morte della patria”: e anche questo è vero. Che insomma il futuro cardinale Giulio Bevilacqua, combattente sull’Ortigara nel 1916, era coetaneo dei suoi coetanei, e i preti di oggi dei loro.

Ciononostante, quello che resta dell’Italia, in questi giorni di smarrimento, si sente inevitabilmente un po’ più solo.