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domenica 1 dicembre 2019

Porfiri: la musica sacra tra passato e presente

Un'interessante riflessione del Maestro Aurelio Porfiri. Uno spunto di discussione per i nostri molti lettori musicisti.
Luigi


Marco Tosatti, 21-11-19

Cari Stilumcuriali, pubblichiamo volentieri il terzo articolo della serie che il Maestro Aurelio Porfiri sta scrivendo sul tema della musica sacra e della liturgia alla luce e nel contesto del Concilio Vaticano II e di ciò che ne è seguito. Un tema estremamente ricco e interessante, e sviluppato con grande maestria e professionalità dall’autore. Buona lettura.
§§§

“C’è chi conosce tutte le note, e chi conosce la musica.”
Lu Ji, (L’arte della scrittura, Guanda, Parma 2002, pag. 12)

Chi legge queste righe, come del resto chi le scrive, ha idee proprie, una propria formazione
umana, culturale e professionale. Qualcuno è laico, qualcuno è prete, qualcuna è suora, qualcuno vescovo e via dicendo. Però tutti una cosa in comune l’abbiamo: amiamo profondamente la liturgia, e ci impegniamo a renderla sempre più degna e bella. Questo, del resto, è stato sempre lo scopo di chi ci ha preceduto nella storia, i nostri fratelli e sorelle nella fede, che si sono prodigati con riti splendenti di bellezza e musiche di livello artistico eccelso perché il popolo cristiano si sentisse sempre più coinvolto nelle sacre celebrazioni. Ogni periodo storico ha manifestato esigenze diverse e ha posto questioni nuove, che la Chiesa ha sempre cercato di affrontare tenendo in mente il bene dei fedeli. Nel secolo trascorso, molti grandi sconvolgimenti hanno mutato il quadro politico e culturale della nostra società: in ogni parte del mondo sono nate nuove istanze sociali e culturali e qualcosa del passato si è fatalmente perduto. Eppure dovremmo stare attenti che quanto è essenziale nel passato per la nostra sopravvivenza culturale, non venga mai a mancare. Questo è purtroppo qualcosa a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni nella Chiesa cattolica, questo atteggiamento contro la tradizione, contro tutto ciò che ci viene dalla nostra vita di fede e mutuato dall’esperienza che ereditiamo dai nostri padri.

La Chiesa, che come madre vuole solo il bene dei suoi figli, ha cercato di dare una risposta alle tante domande che le venivano dai rinnovati “segni dei tempi”. Si è sentita in dovere di non far finta di niente ma di porsi sempre più come “pellegrina sulle strade della storia” (per prendere in prestito un’espressione cara a Giovanni Paolo II). Questa risposta dunque, non è stata breve ed elusiva ma vasta ed articolata, ed ha toccato svariati campi della sua vita, tra cui quello liturgico. Questa risposta è stata il Concilio Ecumenico Vaticano secondo. Naturalmente, siamo nel diritto di chiederci se la domanda che la Chiesa si è fatta fosse posta nei termini più adeguati. Questo lo dico perché possiamo osservare che, purtroppo, alcune riforme che provengono dal Vaticano secondo, sono certamente problematiche. Questo specialmente se pensiamo alla liturgia. Abbiamo messo da parte un rito che, con tutti suoi limiti, era (ed è) certamente un rito venerabile per storia, tradizione e arte (il cosiddetto rito di Pio V, ora forma straordinaria del rito romano); abbiamo sacrificato una lingua così impregnata della nostra tradizione cristiana come il latino, oggi pressoché sconosciuto e dimenticato; abbiamo accantonato un patrimonio musicale che ha pochi rivali (se ne ha) nel panorama musicale nelle creazioni per scopi celebrativi. Abbiamo fatto tutto questo, ma cosa ne abbiamo avuto in cambio? Cosa ha funzionato perfettamente e cosa invece stenta a decollare? Qual è la radice dei problemi attuali e come possono essere risolti?

Mi rendo perfettamente conto che una parte di un documento giuridico va letta e inserita nel contesto generale sia del documento, che del quadro legislativo in cui viene ad essere inserito. Così come della tradizione storico-giuridica dell’istituzione che promulga quella particolare norma. Io mi limiterò a “volare” sopra tanti argomenti che meriterebbero ben altra attenzione. Se non lo facessi, eccederei di molto i limiti di questo studio.

Solenne uguale a festivo? Il paragrafo 113

“L’azione liturgica riveste una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati solennemente con il canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo”. Questa celeberrima frase ci offre un programma di lavoro importante. La liturgia, per rivestirsi di maggiore nobiltà, richiede tre cose importanti: il canto, i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo (per questo aspetto, nello stesso paragrafo ci sono rimandi ad altri articoli che ne parlano più specificamente). Ora leggiamo il testo in questa maniera: ““L’azione liturgica riveste una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati con il canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo.” Come vedete funziona, no? Eppure ho tolto una parolina, proprio perché chi legge possa rimarcare la differenza tra il testo ufficiale e questo lievemente modificato e, quindi, trarne le opportune conseguenze. La parola che manca è “solennemente”. Nel testo non viene detto soltanto che la forma del culto è più nobile quando i tre elementi citati (canto, sacri ministri e partecipazione attiva) sono presenti; ma esso è più nobile quando tutto ciò viene fatto “solennemente”. Come qualifica quella parola “solennemente” tutta la frase? Come va letta? Cosa significa in pratica “celebrare solennemente”? Da questo momento intraprenderemo un percorso (che per forza di cose deve essere breve) in cui ci imbatteremo in questioni storiche, musicologiche e perfino etimologiche. Alla fine però spero di aver chiarito cosa si dovrebbe intendere per liturgia celebrata solennemente secondo la mente dei padri conciliari.

Il vocabolario Zingarelli della lingua italiana ci dà questa definizione della parola “solenne”: “Di festa, cerimonia che si celebra con apparato e pompa particolari, /Insigne, Maestoso.” La definizione appena letta ci fa capire come la parola “solenne” si applica a situazioni particolari, non ordinarie. Quindi si oppone il termine “solenne” al termine “ordinario”. Il termine italiano “solenne” deriva dal latino “sollemnis” ed è l’unione dei due termini “sollus” (intero) e “amno” (anno) e propriamente si può tradurre “che ha luogo ogni anno”. Altri autori preferiscono leggervi l’unione di “sollus” e “omnis”, mutando il significato in “tutto intero”, “pieno”. Anche questo significato ci offrirà spunti di riflessione più avanti. Quindi, il termine, nell’accezione più comune, denota un qualcosa che accade con regolarità e che quindi implica attesa. Troviamo molto spesso il termine impiegato in vari autori latini. In una terminologia più religiosa, “solenne” non muta di molto il suo significato, mantenendo quello della scansione annuale di qualche avvenimento religioso, implicando anche il senso di “celebrazione di un sacrificio”. Nella Sacra Scrittura, questo termine ricorre più volte, specialmente nell’Antico Testamento. C’è da dire che il termine “sollemnitas” non sempre viene tradotto con il corrispettivo italiano “solennità”, ma spesso (come diremo più avanti nel testo) si sceglie il termine “festa”. Così come si traduce in italiano con la parola “solenne” o “solennità” quando dal latino non si trova il termine corrispettivo ma termini che evocano qualcosa di grande e maestoso. Prendiamo ad esempio un brano dalla Genesi che nella Vulgata e nella Neo-Vulgata viene scritto “planctu magno atque vehementi” e nella Bibbia di Gerusalemme si trova “lamento molto grande e solenne” (Gen 50, 10).

Ho potuto contare più di 80 presenze di questo termine nell’AT. Ovviamente esso viene anche impiegato in tutte le sue varianti di forma. La traduzione più comune di questo termine, nella versione italiana che ho consultato (Bibbia di Gerusalemme) è la parola “festa” che, come abbiamo visto, viene indicata anche dallo Zingarelli come una delle prime definizioni di questa parola. Ma dire “festa” e dire “solennità” è proprio dire la stessa cosa? Non c’è qualche imprecisione (pur se lieve) nell’identificare un termine con l’altro?

La festa

Il termine “festa” può sicuramente essere sinonimo di “solennità”, anche se non esaurisce per me tutte le implicazioni semantiche e psicologiche del termine. Una festa ha varie gradazioni di espressione, può essere molto elaborata (quindi, in un certo senso, solenne) oppure molto semplice. La parola “solenne”, va letta certamente accanto al termine “festa” ma ad un certo punto bisogna connotarla in modo diverso. Partiamo dalla “festa”.

Quando possiamo dire che “c’è festa”? Alcuni caratteri importanti non possono essere sottovalutati: il rapporto che la festa ha con il calendario e quindi con il tempo. “La periodicità o non occasionalità della festa rinvia al fluire del tempo, così come viene percepito, pluralisticamente, nelle diverse culture.” Silvano Maggiani, “Festa/ feste” in “Nuovo dizionario di Liturgia” a cura di Domenico Sartore e Achille M. Triacca, ed. San Paolo, 1988 Cinisello Balsamo (Milano) pag. 519. Questa voce (pagg. 517-541) curata da padre Maggiani nel dizionario è stata per me utile strumento di approfondimento e di reperimento di altro materiale sul tema in oggetto e la consiglio vivamente a chi volesse tornare con più calma sull’importante argomento.

La festa è inoltre caratterizzata dall’essere un evento collettivo, “corrisponde ad un periodo di intensificazione della vita collettiva e dell’esperienza sacrale, nel corso del quale il gruppo rinunzia alla sua attività normale, produttiva e utile.” A. di Nola, “Festa” in Enciclopedia delle religioni II (Vallecchi, Firenze 1970), pag. 1585 in S. Maggiani, op. cit., pag. 519).

Inoltre essa richiede qualche rito o cerimonia particolare che dà quel particolare significato a quel particolare giorno e poi il ricordare qualcosa o qualcuno. Possiamo leggere tutti questi elementi, per esempio, nelle feste di compleanno. Il rapporto con il calendario è dato da quel giorno particolare dell’anno in cui si festeggia (né prima, né dopo); per essere un evento che si rispetti richiede almeno la presenza di qualcuno per stare insieme (e infatti se qualcuno preferisce stare da solo il giorno del suo compleanno si dice che “non festeggia il suo compleanno”); il rito o i riti che si compiono sono quelli ben noti a tutti degli auguri, dei regali, della torta e via dicendo; il ricordare riguarda proprio la data di nascita del festeggiato. Questa struttura, la troviamo pari pari in tutte le “feste” civili e religiose, anche se la festa religiosa mantiene un significato più pieno di quella civile che spesso scade nella “vacanza”.

Oggi noi siamo abituati a dare un significato lieto a questo termine, ma esso sta principalmente a denotare un evento che ha queste caratteristiche. E non possiamo nasconderci una deriva del significato festa nella nostra cultura liturgica, quando la “festa della liturgia” diviene la “liturgia della festa”. Padre Maggiani lo nota nel suo studio sulla festa: “probabilmente mai si è tanto parlato di festa o della necessità di far festa nella liturgia come in quest’ultimo periodo storico” (Op. Cit. Pag. 519). Quindi la festa diviene automaticamente “il far festa”, da atteggiamento rituale e strutturato in ben preciso modo diviene momento di liberazione delle pulsioni che noi sentiamo come positive, costruttive, giovani. Il rito stabilito viene percepito come una costrizione, il rito solenne (a cui ci stiamo avvicinando) diviene sinonimo di qualcosa di obsoleto e superato. La liturgia, come festa, diviene quasi un momento di “ribellione”, specialmente in tanta cultura giovanile: “Un movimento simile (al riso: virtualità inutile, gioco, utopia) fa della festa una esplosione sociale che può essere considerata, se si vuole, patologica o riconducibile a una supposta spontaneità. L’eccesso di energia, di cui dispone la specie, fa esplodere il quadro sociale e culturale, come il riso fa esplodere il corpo. La sovrabbondanza di energia risvegliata improvvisamente (l’effervescenza di cui parla Durkheim) situa gli insiemi umani nella situazione di attesa o di preparazione ad una esplosione comune, una ‘estasi’, termine preso in un senso liberato da ogni teologia” (J. Duvignaud, « Le don du rien. Essai d’anthropologie de la fete », Stock, Parigi 1977, pag. 281 in S. Maggiani, op. cit., pag. 523). Quindi il rito deve essere superato da una sorta di spontaneismo che sarebbe il solo veramente “naturale”. Ma questa concezione della natura mi sembra risenta di una certa “istintualità” un po’ “animalesca”. La natura umana è natura anche razionale, oltre che sottoposta ad istinti e passioni; una riflessione più pacata sulla festa e dunque sul rito, ci permette di arrivare a conclusioni diverse. Io credo che sia proprio per questo motivo che quella frase “celebrati solennemente” nella SC non sia lì messa a caso, ma proprio per indicare una modalità precisa di azione. La solennità prevede il rito (e dunque la festa) perché essa, a nostro modesto parere, è la forma in cui la festa diventa efficace. Ma torniamo al rito. Esso, lontano da essere una costrizione, è invece una liberazione (e qui ovviamente ci muoviamo per la strada opposta dallo spontaneismo). Chiunque abbia studiato un’arte, sa bene come la vera libertà espressiva passa attraverso il travaglio dello studio tecnico e quindi della costrizione. Non si può scrivere una fuga per organo se non si passa attraverso la dura disciplina del contrappunto. Quindi la tradizione, con la sua ritualità, guida alla liberazione delle proprie capacità espressive. Il rito, nella liturgia, è il sentiero che ci conduce alla liberazione delle nostre energie spirituali “anche” attraverso una dose di spontaneismo, ma spontaneismo vissuto all’interno di una regola formata e forgiata da secoli e secoli di vita liturgica di coloro che ci hanno preceduto.

Un percorso storico

Ma quale percorso storico ha avuto la parola “ Messa solenne” o “solennità” almeno nel nostro secolo? Non si sorprenderà nessuno se inizio la mia breve indagine dei precursori della SC dal documento storico per la rinascita della vera musica liturgica, il Motu proprio di San Pio X “Tra le sollecitudini” del 22 novembre 1903. Io non so se a chi legge la numerologia dice qualcosa, ma possiamo tentare una numerologia “spicciola” rilevando due fatti interessanti e importanti. Uno è ovvio: il documento è stato emanato il 22 novembre, giorno di Santa Cecilia, patrona dei musicisti. L’altro, meno evidente, è che il Motu proprio precede di 60 anni la nostra costituzione conciliare. Il percorso che porta al Motu proprio proseguirà in altri documenti (che in parte vedremo insieme) fino alla costituzione conciliare che funge da passaggio per le applicazioni legislative successive. Tra il Motu proprio, la SC e l’ultima istruzione emanata in materia, non c’è mai rottura ma semplicemente aggiornamento. Se ne deduce che la SC non abolisce il Motu proprio ma lo rende adeguato alle esigenze dei nostri tempi, così come oggi abbiamo bisogno noi di “aggiornamenti” della SC, laddove ce ne fosse bisogno soprattutto per legittimi motivi pastorali. Dunque, il Motu proprio.

Personalmente, non posso nascondere la mia grande ammirazione per la chiarezza e il coraggio del Motu proprio. Nell’ottocento la musica liturgica era molto pesantemente influenzata dai modelli operistici imperanti in quel periodo. Non parliamo di quello che succedeva in Italia, quando all’elevazione si poteva sentire suonato dall’organista qualche bel duetto amoroso dell’opera in voga in quel momento o quando anche le forme liturgiche come il Gloria venivano concepite esattamente come forme teatrali a sé stanti e molto spesso anche intercambiabili (si faceva magari il Gloria di un autore, ma al momento del “Qui Tollis” se ne metteva un altro di una altro autore perché magari c’era un bel assolo per il tenore e quel giorno si aveva un tenore di fama per mano). La situazione, certo, era anche questa. Le mie personalissime ricerche mi hanno fatto vedere che, specie a Roma, non tutto era così e che, accanto ad una produzione di certo impregnata di teatralismo, ve n’era un’altra più liturgica. Certo anche in questa si sentiva l’eco del teatro ma chi componeva quelle musiche erano uomini del diciannovesimo secolo e quello era il mondo musicale in cui si era immersi. Il cecilianesimo, avallato proprio dal Motu proprio, darà le sue risposte alla rinascita della vera musica liturgica ma di questo ce ne sarebbe da parlare in abbondanza. Torniamo a noi.

La frase di apertura di questo documento potremmo metterla come intestazione di qualunque altro documento sull’argomento in questione: “La musica sacra, come parte integrante della solenne liturgia, ne partecipa il fine generale, che è la gloria di Dio e la santificazione ed edificazione dei fedeli.” Più chiaro di così! La SC ribadirà questi punti con molta precisione, solo aggiornandoli e precisandoli: “Effettivamente per il compimento di quest’ opera così grande, con la quale viene resa a Dio una gloria perfetta e gli uomini vengono santificati, Cristo associa sempre a sé la Chiesa, sua Sposa amatissima, la quale l’invoca come suo Signore e per mezzo di lui rende il culto all’eterno padre” (SC I, 7). “Perciò il sacro Concilio, conservando le norme e le prescrizioni della disciplina e della tradizione ecclesiastica e considerando il fine della musica sacra che è la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli (…)” (SC 6, 112).

Quindi, mi sembra, il primo capoverso che abbiamo letto all’inizio del paragrafo 113 della SC è sostanzialmente una riproposizione di quanto già detto 60 anni prima da Pio X con qualche precisazione pastorale importante: il popolo, per essere edificato, deve partecipare “attivamente”. Sappiamo quanti fiumi di parole sono stati spesi sulla partecipazione “attiva” e anche quante cattive interpretazioni, spesso anche “politicizzate”, si sono date di questo termine. Si è scambiato “attivo” per “attivismo”, in cui tutti devono fare tutto. La qual cosa, va senz’ombra di dubbio contro lo spirito e la lettera di qualunque documento in materia liturgica della Chiesa. Padre Maggiani, in una sua conferenza del 1987 parla a proposito di “partecipazionismo efficientista”.

Dunque il Motu proprio propone concetti che poi la SC riprenderà, anche se lo farà a modo suo. Per l’oggetto del nostro studio vedremo come ci sarà un decisivo passaggio dalla “liturgia solenne” al “celebrare solennemente”. Alcuni (e vedremo anche questo), vedono in questo una confusione su cosa sia o non sia la liturgia solenne, ma forse così non è. Torniamo a Pio X. Nel suo documento viene affermato senza ombra di dubbio il divieto del canto in volgare e quindi la riproposizione con forza estrema del latino come unica lingua del culto. Quindi solennità è sinonimo di “lingua sacra” e quindi, come diretta conseguenza nella musica liturgica, di canto gregoriano e polifonia classica (massime espressioni in questa lingua della nostra tradizione musicale), pur non chiudendo la porta, anzi incoraggiando, le moderne espressioni della composizione musicale liturgica che non rinneghino certe caratteristiche di bontà, santità ed universalità delle forme. La solennità, nel succitato documento piano, è intesa come splendore dei riti per il concorso di una musica artisticamente elevata (“Essa (la musica sacra n.d.r.) concorre ad accrescere il decoro e lo splendore delle cerimonie ecclesistiche, e siccome suo ufficio principale è di rivestire con acconcia melodia il testo liturgico che viene proposto alla intelligenza dei fedeli, così il suo proprio fine è di aggiungere maggiore efficacia al testo medesimo, affinchè i fedeli con tale mezzo siano più facilmente eccitati alla devozione e meglio si dispongano ad accogliere in sé i frutti della grazia, che sono propri della celebrazione dei sacrosanti misteri.”; S. Pio X, Motu proprio, cap. 1, par. 1) e per la bellezza di tutto ciò che concorre allo svolgimento di un azione rituale.

Merita successivamente attenzione un documento di Pio XI, la costituzione apostolica “Divini Cultus Sanctitatem”, scritta per commemorare proprio i 25 anni del Motu proprio di cui or ora ci siamo occupati e che viene emanata il 25 dicembre 1928. Qui ancora si ribadisce l’efficacia della musica sacra sulla solennità delle celebrazioni, ribadendo altri concetti riguardanti, ad esempio, l’ufficiatura corale e le scholae cantorum. Ma si dà un maggior spazio al problema della partecipazione del popolo. Questo passaggio mi sembra chiaro segno di un clima in mutamento: “Affinché i fedeli prendano una parte più attiva al divin culto, il canto gregoriano, in ciò che spetta al popolo, sia restituito nell’uso del popolo. Occorre infatti che i fedeli, non come estranei o muti spettatori, ma, compresi veramente e penetrati dalla bellezza della liturgia, assistano in tal modo alle sacre funzioni – anche allorché si celebrano processioni solenni – da alternare la loro voce secondo le dovute norme, a quelle del sacerdote o della schola cantorum; se ciò accadrà felicemente, non si avrà più a lamentare quel triste spettacolo in cui un popolo non risponde affatto, o appena con un mormorio sommesso e indistinto, alle preghiere più comuni proposte in lingua liturgica ed anche in volgare”. Certo che un cambiamento evidente è difficile non notarlo. Anzi, più che un cambiamento mi sembra un approfondimento su cosa significa veramente una celebrazione solenne e come si percepisca il contrasto tra una messa magari ricchissima di apparato e il popolo muto. E successivamente al passo citato, il pontefice chiede che tutti nella Chiesa si adoperino in quest’opera di istruzione del popolo, curando che esso (nei limiti consentiti in quel periodo storico) potesse partecipare più attivamente alla Messa.

Eccoci ora ad un’altra tappa fondamentale del rinnovamento liturgico, l’enciclica di Pio XII “Mediator Dei”, promulgata il 20 novembre 1947. In questa enciclica si da conto del risveglio degli studi liturgici, con apprezzamento e incoraggiamento. Si parla di quello che con termine generale viene definito “movimento liturgico”, attivo sia oltralpe che da noi e le cui istanze in parte confluiranno nella SC e saranno alla base della riforma liturgica. La “Mediator Dei” è un documento ricco e complesso, che andrebbe indagato con più calma e competenza di quello che si può offrire in questo scritto. Mi sembra importante però citare un passo che segna un altro passo nel percorso di avvicinamento alla riforma liturgica e ci chiarisce ancora di più il cammino verso la riscoperta di un diverso modo di solennizzare l’azione liturgica: “Sono, dunque, degni di lode coloro i quali, allo scopo di rendere più agevole e fruttuosa al popolo cristiano la partecipazione al Sacrificio Eucaristico, si sforzano di porre opportunamente tra le mani del popolo il “Messale Romano”, di modo che i fedeli, uniti insieme col sacerdote, preghino con lui con le sue stesse parole e con gli stessi sentimenti della Chiesa; e quelli che mirano a fare della Liturgia, anche esternamente, una azione sacra, alla quale comunichino di fatto tutti gli astanti. Ciò può avvenire in vari modi: quando, cioè, tutto il popolo, secondo le norme rituali, o risponde disciplinatamente alle parole del sacerdote, o esegue canti corrispondenti alle varie parti del Sacrificio, o fa l’una e l’altra cosa: o infine, quando, nella Messa solenne, risponde alternativamente alle preghiere dei ministri di Gesù Cristo e insieme si associa al canto liturgico “. Già stiamo, praticamente, nella SC e precisamente nel paragrafo che stiamo osservando in questo breve studio. La Messa sarà ancora più solenne “quando i divini uffici sono celebrati solennemente con il canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo” (SC, par. 113). Come vediamo, questo percorso è sempre più serrato e il concetto in questione si va sempre più precisando. Per una liturgia solenne non ci vuole esclusivamente una bella musica, ma anche che essa sia funzionale al momento celebrativo, “servendone” anche, ma non solo, le esigenze di funzionalità. In questo non è mai stato implicato che essa deve essere sciatta o brutta. Questa è stata una tragedia che è senz’altro figlia di un certo modo di intendere la riforma liturgica ma che con essa non ha niente da spartire. Sempre il papa Pio XII tornerà sull’argomento musica sacra il 25 dicembre 1955, con l’enciclica “Musicae sacra disciplina” in cui, oltre ad un’inquadratura anche dal punto di vista dottrinale della materia musicale liturgica, si trova un ulteriore progresso e incoraggiamento per coloro che si adoperano per far partecipare attivamente il popolo alle celebrazioni. Già quando definisce cosa è la musica sacra possiamo avvertire un chiaro mutamento di prospettiva: “E infatti in ciò consiste la dignità e l’eccelsa finalità della musica sacra, che cioè per mezzo delle sue bellissime armonie e della sua magnificenza essa apporta decoro ed ornamento alle voci sia del sacerdote offerente sia del popolo cristiano che loda il Sommo Iddio, eleva i cuori dei fedeli a Dio per una sua intrinseca virtù, rende più vive e fervorose le preghiere liturgiche della comunità cristiana, perché Dio Uno e Trino da tutti possa essere lodato e invocato con più intensità ed efficacia.” E ancora: “Essa adunque nulla può compiere di più alto e di più sublime dell’ufficio di accompagnare con la soavità dei suoni la voce del sacerdote che offre la vittima divina, di rispondere gioiosamente alle sue domande insieme al popolo che assiste al sacrificio, e di rendere più splendido con la sua arte tutto lo svolgimento del rito sacro.” Poco dopo la frase riportata, il pontefice fa un elogio del canto popolare religioso, pur precisando il suo posto quasi esclusivamente nelle funzioni extra-liturgiche anche se, qualche paragrafo dopo, concede che si possa far cantare qualche brano in volgare (dopo il testo ufficiale in latino) a patto che questo brano non sia composto sulle parole del testo liturgico di quel momento del rito. E anche questa concessione viene fatta con tutte le prudenze dal caso. Altri documenti precedono la SC, documenti che hanno un’importanza da non trascurare ma che qui possiamo solo accennare appena di sfuggita. Informazioni su questo periodo immediatamente preparatorio alla SC possono trovarsi in due libri che però, purtroppo, sono di non facile reperimento: Emidio Papinutti, “La musica sacra dal Concilio Vaticano II° al nuovo “Ordo Missae””, Edizioni Francescane Roma 1971; Fiorenzo Romita, “La musica sacra e la Costituzione Conciliare sulla Sacra Liturgia”, Desclée e C.

Il 3 settembre 1958 viene emanata dalla Sacra congregazione dei Riti l’istruzione “De Musica Sacra et Sacra Liturgia”. Questa istruzione contiene la seguente definizione della liturgia solenne: “Si chiama Messa cantata se il sacerdote celebrante canta effettivamente le parti che le rubriche prevedono che siano cantate: altrimenti si chiama letta. Se la Messa cantata si celebra con l’assistenza dei sacri ministri, si chiama Messa solenne; se si celebra senza ministri sacri, si chiama cantata”. Il 25 luglio 1960, Giovanni XXIII promulga il Motu proprio “Rubricarum Instructum” e la Congregazione dei Riti emana il: “Nuovo Codice di rubriche per il breviario ed il messale romano.” La stessa Congregazione emanerà, il 14 febbraio 1961, l’”Instructio de Calendariis particularibus et Officiorum ac Missarum propiis ad normam et mentem Codicis rubricarum revisendis”. Il periodo pre-conciliare viene significativamente chiuso da due documenti che poi faranno molto parlare anche ai giorni nostri (e su cui, purtroppo, non possiamo fermarci più a fondo), tutti e due emanati da papa Giovanni XXIII: il Chirografo “Jucunda Laudatio” (8 dicembre 1961) e la costituzione apostolica “Veterum Sapientia” del 22 febbraio 1962.

Il Concilio Vaticano II

L’inizio dei lavori conciliari, a quando sembra, non faceva prevedere che nell’ambito della musica sacra ci sarebbero state novità eclatanti. Anzi, nella solenne liturgia per l’apertura del concilio l’11 ottobre del 1962, la musica eseguita nella solenne celebrazione presieduta dal cardinale Tisserant (con papa Giovanni che assisteva dal trono) è quella della grande tradizione musicale della Chies cattolica: la celeberrima “Missa Papae Marcelli”, il “Tu es Petrus” e l’”Ad Te levavi” di Palestrina. Il “Confirma hoc Deus” e l’Exaudi Domine” (composto per l’occasione) di Monsignor Domenico Bartolucci, maestro della cappella musicale pontificia. Quindi siamo pienamente nella prassi musicale di quegli anni. Certo la Sistina era molto apprezzata dai padri conciliari ma qualcuno sollevava obiezioni in quanto sembrava che il movimento liturgico non trovasse accoglienza nel Concilio Ecumenico. Il cardinale Ottaviani propose di alternare durante i giorni di lavoro del Concilio, le messe celebrate in rito romano con messe celebrate in altri riti. Alcuni padri manifestarono entusiasmo per queste celebrazioni: “Vidimus hodie pulcherrimum specimen concelebrationis et actiones et cantus et commentarium clarum et lucidum; videndo hoc spectaculum fortasse aliqui inter nos erant tentati transire a ritu latino ad ritum orientalem!” (cardinale Gracias dopo la celebrazione in rito Melchita nella 6a congregazione generale, il 24 ottobre). Padre Papinutti riferisce di una confidenza fattagli da un arcivescovo, e che cioè c’erano manifestazioni di entusiastica approvazione per qualunque rito tranne che per quello romano. Una certa svolta si avrà all’inizio del quarto periodo del Concilio, quando venne distribuito ai padri un libricino che recepiva alcune delle istanze liturgiche portate avanti dal movimento liturgico. Già per l’incoronazione di Paolo VI si poterono vedere evidenti modifiche, ancora più chiare l’8 dicembre 1965, per la messa di chiusura del Concilio. La Sistina si alternò per l’introito e per l’ordinarium missae al canto del popolo.

Andiamo a vedere quello che ci interessa specialmente, cioè la liturgia solenne. L’articolo di cui ci stiamo occupando, causò non poche tensioni all’interno del Concilio. Lo schema preparatorio, consisteva in una preposizione molto più lunga e articolata rispetto al testo che oggi abbiamo e vi si parlava di “liturgia sollemnis”. Alla fine invece sarà “sollemniter in cantu celebrantur”. Ma leggiamo insieme il racconto che ne fa il padre Papinutti nel testo citato prima: “Confrontando ora i due testi, si vede subito che ci sono almeno due cambiamenti sostanziali: la scomparsa della Liturgia solenne e della lingua latina. Infatti nel testo definitivo non si parla più di “Liturgia solenne” come forma più nobile di Liturgia, inteso nel senso tradizionale e già stabilito nella citata Istruzione del 1958, ma semplicemente si afferma che l’azione liturgica acquista una forma più nobile quando i divini uffizi sono celebrati “solennemente” in canto. E’ caduta così la distinzione tra la Messa cantata semplice e la Messa solenne”.

Sia le varie istruzioni per l’applicazione della riforma liturgica che i successivi documenti dell’episcopato, insisteranno sul fatto che l’assemblea non doveva più “assistere” alla messa, ma parteciparvi “perfettamente” (per usare il termine che si trova nella prima istruzione del 26 settembre 1964). Le conseguenze di questo, purtroppo, non sono state sempre esaltanti. È un’occasione che si è mancata ma, fortunatamente, sempre recuperabile se ci fosse una volontà precisa in questo senso. Infatti, si è fatto passare il concetto di “partecipazione” per un attacco a tutta la tradizione precedente; si è così tradito il vero concetto di partecipazione, che sottintende soprattutto la partecipazione interiore e poi anche quella esteriore. Certamente io non sono tra coloro che pensa che il popolo deve essere totalmente escluso dal canto. Ho tentato, con fatica, anche di introdurre questo concetto nella celebrazione della forma straordinaria del rito romano.

Per celebrare solennemente

Vorrei ora indicare cosa per me significa solennemente o solennità, secondo quello che mi sembra di aver compreso dal percorso or ora fatto. La solennità non può e non deve essere disgiunta dal dato celebrativo. Non esiste una solennità a sé stante, quando essa non è al servizio dell’azione sacra. Noi non siamo dei cultori dell’estetica fine a sé stessa ma la viviamo in un contesto liturgico e rituale. Solennità è lo scatenamento dei codici di comunicazione nella liturgia. “Scatenamento” non selvaggio e incontrollato, ma iscritto nel percorso celebrativo. Noi sappiamo che sono tanti i codici che si trovano nella celebrazione liturgica: codici non verbali e verbali, codici spazio-temporali, codici personali e sociali, codici iconici e musicali (Aldo Natale Terrin, “Leitourgia/ Dimensione fenomenologica e aspetti semiotici”, Morcelliana, Brescia 1988 pagg. 135-143). Quando questi codici presenti nella liturgia vengono esaltati dal loro uso corretto e, ripeto, “celebrativo”, la liturgia diviene realmente solenne, anche intendendo questa parola nella seconda accezione a cui ci riferivamo all’inizio (sollus+omnis), essa è un “tutto intero”. Non bisogna intendere il termine “funzionale” dandogli esclusivamente un accezione di “meramente pratico”. Non va bene qualunque “Santo” o qualunque musica per un salmo responsoriale. L’artista compreso nel suo ruolo di “solennizzatore” delle sacre funzioni è ancora più necessario che mai, e sempre più urgente è la sua competenza specifica. Tutti possono comporre un “Signore pietà”, non tutti lo sanno fare osservando delle “costrizioni” che quella particolare celebrazione ti pone (organici, tropi, estensioni e via dicendo). Direi che solennità è uguale a attuazione di codici adeguati. Qui ogni ministero liturgico ha il suo bel da fare: esiste un ‘arte per mettere i fiori, un’arte per proclamare la parola di Dio, un’arte per “sonorizzare” la celebrazione…e a tutti questi ministeri viene richiesta una competenza superiore alla specifica competenza di ogni capacità. Viene chiesta anche una specifica competenza liturgica.

E’stato messo in pratica questo negli anni successivi alla SC? Molto poco. La riforma liturgica non è stata capita fino in fondo e anzi essa è stata manipolata. Ne vediamo veramente i risultati nella povertà delle liturgie del nostro tempo, non solo in Italia ma anche in moltissime altre parti del mondo. Sono inutili le conferenze, i discorsi, i congressi, quando non c’è una volontà specifica di cambiare le cose. Si è pensato di esiliare i musicisti perché doveva cantare il popolo, quando non si è capito che senza i musicisti di professione anche il popolo ne usciva più impoverito. I musicisti stessi, almeno una parte, si sono chiusi nel loro castello (non “interiore”) per difendere i diritti della vera “musica sacra”, o vi sono stati costretti dal disprezzo di troppo clero.

Forze opposte si sono fronteggiate, chi per un diritto chi per un altro, chi difendeva il latino chi il volgare, chi difendeva le chitarre, chi l’organo, chi difendeva il canto beat, chi il gregoriano…ma chi difendeva il la liturgia? Tutti, o forse nessuno.

C’è stato un periodo, e non è ancora finito, in cui chi avesse avuto competenze e studi musicali veniva trattato come un nemico del canto del popolo, cose che si sentivano solo ai tempi della rivoluzione culturale di stampo Maoista. Tutti sappiamo che questo atteggiamento ha tradito la SC e la riforma liturgica, l’ha tradita in quanto di più bello e innovativo poteva aver portato. Era già tutto nella SC: “Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della musica sacra. Si promuovano con impegno le “Scholae cantorum” in specie presso le chiese cattedrali. I vescovi e gli altri pastori d’anime curino diligentemente che in ogni azione sacra celebrata con il canto tutta l’assemblea dei fedeli possa partecipare attivamente, a norma degli articoli 28 e 30.” (SC 6, 114). Bastava legare 113 a 114 per evitarci questi anni di brutture.

Le “Scholae non dovevano essere eliminate ma dovevano affrontare i nuovi principi voluti dalla riforma liturgica. I maestri di cappella erano ancora più necessari che in passato e si sono quasi eliminati del tutto (ne resistono molto pochi, sempre meno). Purtroppo ataviche divisioni a tutti i livelli ci impediscono una effettiva collaborazione che converga tutte le energie belle all’unico scopo che tutti desideriamo: quello di una liturgia più bella e dignitosa.

Aurelio Porfiri

3 commenti:

  1. Ma Bergoglio ha fatto la Lettera apostolica sul presepe citando i personaggi gay muscolosi a San Pietro o i migranti sui barconi nelle Chiese chiamando Cristo "immigrato clandestino"?!

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  2. La foto si riferisce all'esecuzione del Credo della Missa Papae Marcelli del sommo Pierluigi da Palestrina, diretto al M° card. Domenico Bartolucci, in occasione della Messa pontificale celebrata dal card. Brandmuller nel 2011 per il Convegno sul MP Summorum pontificum.

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  3. La equivoca e possibilista SC è stata la causa dello squallido stato attuale della musica nella liturgia post CVII, difeso e giustificato da tanti ignoranti vescovi e non. La Costituzione dice: si conservi l'uso della lingua latina ( che fine ha fatto?), si promuovano le scholae cantorum e la formazione musicale nei Seminari ( idem !), si riservi il primo posto al canto gregoriano a parità di condizioni ( primo posto !?!), si abbia in grande onore l'organo ( scomparso !).. altri strumenti si possono ammettere ( chitarra e batteria !) e via.... continuando. Erano proposizioni. per loro natura applicabili a piacimento da chiunque, che hanno generato la riforma del 1969. Forse la maggioranza dei Padri non si è resa conto, in più o meno buona fede, del pericolo insito nel documento che era quello atteso dalla modernista "esigua minoranza che ha vinto perché il papa era con noi ", che era da tempo in agguato . Chi volesse conoscere le cause della situazione del canto che si sbiascica in chiesa, tra banalità e profanazione, può leggere il libro 'Musica e Concilio' del p. Papinutti, organista in S, Pietro, testimone privilegiato degli eventi relativi alla musica liturgica negli anni sessanta dello scorso secolo e gli articoli del M° card. Bartolucci, vittima dell'odio contro la millenaria mirabile musica liturgica.

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