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lunedì 25 novembre 2019

In ricordo dell'uccisione di Eluana Englaro



Due ampi e densi interventi giuridici del Centro Livatino,  nell'anniversario della nascita (25-11-1970, oggi compirebbe 49 anni) della nostra Eluana.
Pregare, lottare e non dimenticare.
BCM
Luigi

Pubblichiamo le relazioni svolte dal prof. Mauro Ronco, presidente del Centro studi Livatino, e dal cons. Giacomo Rocchi, in occasione del convegno E’ ancora vita. Dall’uccisione di Eluana all’eutanasia legale, organizzato a Roma sabato 18 maggio dallo stesso Centro studi e dal Comitato Verità e Vita. 

IN RICORDO DI ELUANA ENGLARO: L’INGIUSTIZIA DELL’EUTANASIA PER VIA GIUDIZIARIA
La lunga e complessa vicenda giudiziaria che ha condotto alla morte di Eluana Englaro a seguito dell’interruzione dell’idratazione e dell’alimentazione ha un’importanza epocale perché segna il passaggio da una concezione etica e giuridica che assegna primalità alla vita umana a una concezione che ne erode il primato a favore di criteri non ultimamente chiari, ma orientati in sostanza ad attribuire rilievo al c.d. ‘best interest’ del soggetto disabile, individuato tramite una ricostruzione presuntiva dello stile di vita serbato dal malato prima dell’inabilitazione.
ll campo giuridico – legislazione e giurisprudenza – relativo alla protezione della vita era rimasto invariato fino alla sentenza n. 21784/2007 della Corte di Cassazione e al decreto 25 giugno – 9 luglio 2008 della Corte di Appello di Milano, che, in applicazione del principio di diritto dettato dalla Corte Suprema, accoglieva il reclamo proposto dal tutore di Eluana Englaro di autorizzarlo a interrompere il trattamento di sostegno vitale a quest’ultima, praticato mediante alimentazione-idratazione con sondino naso-gastrico.


Il passo compiuto nel 2007/2008 non significa che in precedenza non fossero accaduti eventi giuridici volti a infirmare la solidità del quadro giuridico a favore della vita.

Due aspetti appaiono di grande rilievo. Il primo riguarda il fondamento giuridico della relazione medico-paziente. Essenziale a tale relazione è il fine terapeutico e di alleviamento della sofferenza del malato. Mai la relazione può essere imperniata sulla morte del paziente. L’autodeterminazione non è il fondamento dell’attività medico-chirurgica; il suo fondamento è la tutela della salute del paziente. Il consenso del paziente all’intervento è indispensabile per evitare che iniziative invasive sulla persona – come sono quelle medico-chirurgiche – siano assunte contro la volontà della persona, vìolando la sua libertà fondamentale. Se, invece, il consenso non costituisce il limite del trattamento, ma è il suo fondamento, si rischia di trasformare il senso stesso dell’attività terapeutica. Se si riconduce, infatti, il baricentro dell’attività medica al solo consenso in ordine a una determinata prestazione, il rapporto di alleanza terapeutica svanisce. Il medico è ridotto a essere un prestatore di servizi, mero esecutore della volontà del paziente.

La descrizione normativa dei trattamenti terapeutici in un’ottica di mero consenso è contraria al principio solidaristico che sta alla base dell’ordinamento democratico, perché riduce l’esercizio della medicina a un rapporto di tipo contrattualistico. Il medico dovrebbe fare ciò che il paziente richiede, anche se il trattamento fosse contrario al finalismo terapeutico o fosse manifestamente futile e sproporzionato, e, inversamente, dovrebbe astenersi dal fare ciò che è utile e proporzionato, anche se l’astensione avesse conseguenze di danno o addirittura di morte per il paziente.

Il secondo aspetto riguarda la cifra giuridica della rinuncia del paziente ai trattamenti medici. Il fondamento del diritto alla rinuncia sta nell’immunità della persona dall’invasione esterna del suo corpo da parte di un qualsivoglia terzo, ivi compreso il medico, quale che sia l’intenzione di questi, anche se essa sia intesa a garantire un suo interesse (art. 13, co. 1, Cost.). E’ gravemente errato, invece, ritenere che la legittimità del rifiuto stia in un diritto a monte di portata più vasta, identificabile con un preteso, ma inesistente, diritto di essere malati, di ammalarsi o addirittura con l’assurdo diritto di morire. La ragione dell’errore sta nel fraintendimento tipico di alcuni giuristi, ispirantisi a una sorta di geometria legale, i quali rovesciano il dictum della legge e trasformano il semplice diritto negativo a non subire un certo trattamento nel diritto positivo a ottenere l’evento che il trattamento potrebbe impedire. Il diritto è una facoltà morale prevista dalla legge affinché il soggetto consegua liberamente un certo bene. Il diritto alla salute, in specie, consiste nella facoltà di richiedere e di ottenere i presidi e i trattamenti volti a realizzare questo bene fondamentale. Si tratta di un diritto positivo per la realizzazione di quel bene. Il diritto ha un risvolto negativo: io non posso essere costretto ad esercitare il diritto. Posso rinunciare a esercitarlo. Ma il diritto non può essere rovesciato nel suo contrario, cioè nel diritto ad essere ammalato, ad ammalarmi e a uccidermi. Queste sono libertà di fatto: e, come tali, non sono tutelate dall’ordinamento giuridico.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza Pretty del 2002 ha proclamato con chiarezza questo principio, che il diritto alla vita non può essere trasformato nel diritto alla morte. Moltissimi giuristi, soprattutto cultori del diritto penale, hanno trasformato l’art. 32 della Costituzione in un grimaldello per rovesciare il diritto alla salute nel diritto alla morte.

Si tratta di un sofisma, che suona così: se la legge mi riconosce il diritto a rifiutare i trattamenti, vuol dire che io ho il diritto di ammalarmi e di uccidere. Le cose non stanno così. Tu puoi non esercitare il tuo diritto – come risvolto negativo del diritto positivo alla salute – ma questa possibilità non si rovescia nel diritto di ammalarti o di ucciderti. L’art. 32, co. 2 è stato introdotto nella Costituzione allo scopo di vietare assolutamente di strumentalizzare la persona umana a esigenze collettive, in specie alla sterilizzazione coercitiva e alla sperimentazione medica coercitiva nell’interesse della scienza o della collettività, come era avvenuto all’epoca dello sterminio eutanasico nazionalsocialista.

L’art. 32, co. 2 afferma il principio fondamentale dello Stato di diritto, secondo cui l’interesse della collettività alla salute (e alla vita) dell’individuo, interesse pur costituzionalmente protetto (art. 32, co. 1), soccombe al diritto di libertà di ciascuno. Ciò non perché la salute e la vita siano beni giuridicamente disponibili, bensì perché la loro tutela non può non affidarsi ultimamente all’azione libera e consapevole di ognuno. Come ben dice Adriano Pessina, il rifiuto dei trattamenti, sia chirurgici che farmacologici, non costituisce un implicito riconoscimento di un preteso diritto di essere ammalato e/o di uccidersi; esso invece “[…] serve per limitare l’intervento di altri sul corpo della persona: vale cioè per impedire che un atto di forza come può essere un intervento chirurgico, possa trasformarsi in un atto di violenza. Dal punto di vista morale, il dovere di non intervenire sul corpo altrui senza il suo consenso si fonda sull’idea che il corpo altrui non è violabile perché esiste un nesso inscindibile tra l’essere persona umana e l’essere persona corporea. Ogni violenza fatta sul corpo è una violenza fatta sulla persona umana”[1].


Nel periodo antecedente la sentenza della Cassazione del 2007 e il decreto della Corte di Appello di Milano del 2008 l’universo dei giuristi aveva in una certa misura aderito al sofisma interpretativo che riconduceva all’art. 32, co. 2 della Costituzione una sorta di diritto alla morte. Ciò era avvenuto grazie a un’operazione concettualmente scorretta, giuridicamente infondata e praticamente paradossale, intesa a fare della norma massimamente protettrice della vita e della salute del cittadino il baluardo dell’assunto opposto, che lì stesse la base normativa di un inesistente diritto alla morte.

La vicenda giudiziaria della giovane Eluana Englaro abbonda peraltro di altri paradossi giuridici, sintomatici delle storpiature interpretative che hanno condotto alla tragica conclusione.

Comincio con l’aspetto relativo alla legittimazione del tutore (il padre di Eluana) a richiedere l’autorizzazione a interrompere l’alimentazione e l’idratazione ai sensi degli artt. 357 e 424 del codice civile. Le norme assegnano a tale figura, volta a tutelare l’incapace, il compito, tra gli altri, della “cura” della persona interdetta. La richiesta di interrompere il sostegno basilare per la vita – quel sostegno di cui ciascuno di noi ha bisogno per sopravvivere – non è rivolto alla “cura” dell’interdetto, bensì alla sua morte. Come possa un atto finalizzato alla morte rientrare nel concetto di cura non è comprensibile né sul piano lessicale né su quello razionale. Il principio giuridicamente esatto venne esposto in modo piano e persuasivo dai giudici del Tribunale di Lecco nel decreto del 15-20 luglio 2002, che respingeva per la seconda volta il ricorso del tutore. Osservava il Tribunale che la nozione, condivisa dal P.M., di “cura” del soggetto incapace implica “un quid di positivo volto alla conservazione della vita del soggetto stesso e non certo, invece, alla sua soppressione”.

Evidente è la contraddizione e, comunque, la contrarietà “alla logica, prima ancora che al diritto, assegnare al tutore, ovverosia a colui che è titolare di poteri-doveri di conservazione della persona interdetta, la potestà di compiere atti che implichino di necessità…la morte del soggetto tutelando”. D’altra parte – proseguivano i giudici – “il diritto alla vita costituisce il principale dei diritti dell’uomo a cui si riferisce l’art. 2 della Costituzione”. Sì che il Collegio concludeva dichiarando che la richiesta del tutore si poneva in diametrale contrasto con il principio di primario ordine costituzionale del diritto alla vita in ogni sua forma e grado. Il che non consente ad alcun soggetto la “possibilità di scelta in ordine al mantenimento in vita”.


La Corte di Appello di Milano Sezione delle persone dei minori e della famiglia (decreto 17 ottobre – 10 novembre 2003) sul reclamo del tutore ha iniziato il percorso di cedimento che avrebbe condotto alla decisione finale. Pur senza aver rintracciato alcuna disposizione normativa che contraddicesse l’ineccepibile interpretazione del primo giudice in ordine al perimetro dei poteri del tutore, la Corte milanese, dichiarando di attingere “come spunti di riflessione” ad alcuni provvedimenti dell’autorità giurisdizionale germanica, ha ritrovato in quell’ordinamento pronunce che avrebbero ammesso la facoltà del tutore di richiedere l’interruzione, non beninteso come decisione assunta al posto del paziente incapace, bensì come esecuzione dell’autodeterminazione previa del medesimo. Accanto a pronunce ammissive, altre pronunce dell’autorità giurisdizionale germanica erano invece attestate sulla posizione del Tribunale di Lecco, secondo cui non può essere demandata al tutore una decisione per la morte, che ha carattere strettamente personale e che incide sulla dignità della persona. I compiti del tutore, infatti, sono finalizzati alla tutela della salute e, dunque, della vita.

Su queste fragili basi – una giurisprudenza germanica spaccata a metà –, la Corte ha richiamato la Raccomandazione europea n. 779 del 1976 del Consiglio di Europa sul diritto del paziente al rispetto della sua volontà circa il trattamento da applicare e al suo diritto di morire con dignità. Ha ritenuto poi che potrebbe essere conveniente allo scopo di conservare rilievo alla volontà del paziente anche in stato di incapacità, l’istituto delle dichiarazioni anticipate di trattamento. Si è rammaricato del fatto che questo istituto non esistesse ancora nell’ordinamento italiano e, auspicando che “il legislatore ordinario individui e predisponga gli strumenti adeguati per l’efficace protezione della persona e il rispetto del suo diritto di autodeterminazione”, ha dichiarato di essere “perplessa sull’opportunità/legittimità” di “un’interpretazione integrativa della legge”, nonché “in ordine al possibile espletamento di attività sostanzialmente paranormativa, considerati i dilemmi giuridici, medici, filosofici, etici che si avvertono nei dibattiti della società civile e nelle relazioni dei comitati e delle commissioni investite della tematica”.

Dunque, la decisione della Corte mette in primo luogo nel nulla gli articoli del codice civile che limitano i poteri del tutore alla “cura” del tutelato, precludendogli la facoltà di decretarne la morte. In secondo luogo, ricostruisce il quadro normativo in forza della giurisprudenza divisa di uno Stato estero. In terzo luogo, manifesta il suo orientamento a favore di istituti (le dichiarazioni anticipate) che consentirebbero all’incapace di far valere il suo diritto all’autodeterminazione, auspicandone la promulgazione in Italia. Infine, dichiara di non sentirsi in grado di innovare, esercitando una funzione paranormativa, il quadro normativo di riferimento.

Se ne segnalano qui alcuni del decreto: l’omessa applicazione degli articoli del codice civile; la palese contraddittorietà della motivazione, che auspica per la soluzione del caso l’introduzione di un istituto (le dichiarazioni anticipate), che non esistevano nel compendio istruttorio e che, dunque, non avrebbero potuto risolverlo; infine, l’esposizione di opinioni inconferenti per la decisione e di auspici di modifiche legislative in forza di sollecitazioni ricavabili da decisioni esterne all’ordinamento italiano.


La Corte di Cassazione, Sezione I Civile con ordinanza 20.04.2005 n. 8291 dichiarava inammissibile il ricorso del tutore, accogliendo l’eccezione del Procuratore Generale sul rilievo che lo stesso non era stato notificato ad alcuno; inoltre il ricorso era privo dei requisiti previsti dalla legge, necessari anche nei procedimenti che si svolgono in camera di consiglio. La questione si doveva considerare definita una volta rilevata l’inammissibilità del ricorso. Senonché la Corte riapriva la questione rilevando che l’oggetto della controversia avrebbe dovuto vedere la presenza anche di un controinteressato, atteso il possibile conflitto di interessi tra l’interdetta, incapace di esprimere la propria volontà, e il suo rappresentante ex lege. Di qui la necessaria applicazione di un curatore speciale al rappresentato ai sensi dell’art. 78 c.p.c..

A parte l’esattezza dei rilievi strettamente giuridici sul conflitto di interessi del tutore e sull’inesistenza in capo a lui di una rappresentanza generale degli interessi dell’interdetto con riferimento al tipo di atto richiesto, non si comprende tuttavia la ragione giuridica per cui la Cassazione abbia ritenuto di dover richiamare l’esigenza della nomina di un curatore speciale ex art. 78, quando ormai la questione era risolta in forza dell’inammissibilità del ricorso per la mancata sua notificazione al Procuratore Generale a quo.


Ripresentato il ricorso da parte del tutore, previa nomina di un curatore speciale ex art. 78, il Tribunale di Lecco lo dichiarava inammissibile, esprimendo con chiarezza i motivi di stretto diritto che lo determinavano alla decisione.

Il Tribunale ribadiva che né il tutore né il curatore potevano domandare l’interruzione dell’alimentazione di Eluana “per difetto da parte di questi ultimi dei poteri di rappresentanza sostanziale e quindi processuale dell’interdetta con riferimento alla presente domanda”. La natura strettamente personale del tipo di atto richiesto non consentiva che lo stesso fosse richiesto da un terzo, né tutore, né curatore speciale. E ciò in forza dell’interpretazione sistematica della legge, che prevede tassativamente le ipotesi in cui il rappresentante dell’interdetto per infermità di mente può compiere atti personalissimi. Disposizioni tassative che “non avrebbero ragione di essere se la generica rappresentanza del tutore dell’infermo di mente in tutti gli atti civili comprendesse anche gli atti personalissimi”.

Il Tribunale aggiungeva che la mancata previsione di una norma attribuente al tutore o al curatore il potere di richiedere atti per la morte era conforme ai princìpi costituzionali fondamentali, in particolare agli artt. 2 e 32 della Costituzione. Garantire all’incapace un trattamento, tanto più se di sostegno vitale, è “non solamente lecito, ma addirittura dovuto, espressione di quel dovere di solidarietà che l’ordinamento richiede ai consociati al fine di garantire la tutela della persona in tutte le forme in cui essa si esprime”.

La pronuncia del Tribunale svela per vero il non detto implicito della pronuncia della Cassazione, che ammette che il terzo, dotato del potere tutorio e in contraddittorio con il curatore, avrebbe il potere di richiedere l’autorizzazione a compiere un atto per la morte del tutelato. Esattamente, invece, il Tribunale sottolineava che se il potere di richiedere l’interruzione manca in radice al tutore, tale potere non può scaturire dalla nomina di un procuratore speciale!


Sul ricorso del tutore la Corte di Appello di Milano con decreto del 16 dicembre 2006 compiva due passaggi decisivi, entrambi contrari alla legge, intesi a consentire l’interruzione dell’alimentazione/idratazione. Con il primo riconosceva al tutore, con la partecipazione del curatore, il potere di compiere l’atto personalissimo al posto di Eluana; con il secondo ammetteva le prove testimoniali al fine di provare la volontà presunta di Eluana.

Le questioni sono state risolte con argomenti gravemente fallaci. Il ricorso sarebbe ammissibile, anzitutto, perché i rappresentanti legali della giovane donna “non chiedono di essere autorizzati, in tale veste, dal Giudice a interrompere l’alimentazione forzata” bensì“domandano che sia l’autorità giudiziaria a disporre l’interruzione”. Ciò è contrario alla verità, perché la domanda consisteva proprio nella richiesta dell’autorizzazione. Non è, infatti, il giudice a esprimere la volontà di distaccare il sondino, egli è soltanto il soggetto competente per rilasciare l’autorizzazione. In secondo luogo la Corte ricomprendeva erroneamente nel concetto di “cura della persona” anche il diritto di “rifiutare la cura”. Il che è contrario alla legge e all’art. 32 della Costituzione, che riconosce tale diritto soltanto al paziente e non a terze persone in sua rappresentanza.

Quanto, poi, alla ricostruzione della volontà di Eluana in via presuntiva, va soltanto rilevato che nessuna norma di legge consentiva – e, a tutt’oggi, consente – di ricostruire una volontà circa la rinuncia a un diritto personalissimo – quella della vita – a una persona diversa dell’interessato.

La Corte milanese, tuttavia, scrutinate le dichiarazioni testimoniali, ha infine correttamente escluso che le stesse consentissero di accogliere il ricorso; infatti, all’esito dell’istruttoria, la posizione di Eluana sarebbe assimilabile – così la Corte – a quella di qualsiasi soggetto incapace che nulla abbia detto in merito alle cure e ai trattamenti medici a cui deve essere sottoposto.


Il semaforo verde all’uccisione della giovane venne azionato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 21748 del 16 ottobre 2007, che accoglieva i ricorsi del tutore e del curatore. I princìpi cui il giudice di merito avrebbe dovuto adeguarsi suonano nel senso che il giudice può autorizzare il tutore che rappresenta l’incapace, nel contraddittorio con il curatore speciale, a disattivare il sondino naso-gastrico che provvede alla nutrizione e all’idratazione di un malato che giaccia da moltissimi anni “in stato vegetativo permanente” a condizione che (a) la condizione di stato vegetativo sia irreversibile alla luce di “un rigoroso apprezzamento clinico” e che (b) l’istanza del tutore sia “realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero della sua personalità, del suo stile di vita e dei suoi convincimenti, corrispondenti al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”.

La sentenza costituisce una lacerazione del tessuto ordinamentale di notevole rilievo. Il punto di partenza della motivazione sta nel riconoscimento del diritto del paziente a rinunciare alle cure. Ma questo diritto ha natura personalissima e può essere esercitato soltanto dal soggetto capace di esprimere un dissenso alla cura, non da un terzo al suo posto. Di ciò è consapevole la Corte quando è costretta ad ammettere che è carente “una specifica disciplina legislativa”. Ritiene però di compiere “una delicata opera di ricostruzione della regola di giudizio nel quadro dei principi costituzionali”.

Sul punto cruciale dei poteri del rappresentante legale in ordine all’esercizio di un diritto personalissimo, la Corte argomenta in modo contraddittorio. Per un verso, infatti, dichiara che “il carattere personalissimo del diritto alla salute” non investe il tutore di “un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza”. Per un altro verso, però, sostiene, con espressione suggestiva ma inconcludente, che il tutore dovrebbe decidere non “al posto dell’incapace” né “per l’incapace”, bensì “con l’incapace”. Questo asserto è intrinsecamente contraddittorio, perché l’incapace – soprattutto l’incapace in stato di persistente incoscienza – non è in grado di interloquire in alcun modo con il tutore.

Quindi, la decisione sarà al massimo “per l’incapace”, se non “contro l’incapace”. Il metodo suggerito è di “ricostruire la presunta volontà del paziente incosciente”, tenendo conto dei desideri espressi prima della perdita di coscienza, ovvero inferendo la volontà dalla sua personalità e dal suo stile di vita. L’asserto, ancora una volta, è contraddittorio. La focalizzazione dei desideri e dello stile di vita di una persona è cosa diversa dall’individuazione della sua volontà in relazione al compimento di un atto personalissimo che ha come conseguenza la morte. In realtà, la Corte sposta l’oggetto dello scrutinio dalla volontà presunta del disabile a quello che sarebbe il suo “best interest”. Ed è evidente che tale “best interest” scaturisce – come riconosce la stessa Corte – dal giudizio che il rappresentante darà in ordine al concetto che egli si è fatto sull’ “identità complessiva del paziente e al suo [sul] modo di concepire…l’idea stessa di dignità della persona”.

La Corte, quindi, oltre a creare ex novo i parametri normativi di giudizio, ha prescritto non di ricostruire la volontà presunta del soggetto incapace, bensì di individuarne l’idea che egli si sarebbe fatto durante la sua esistenza in ordine alla dignità della vita. Se questa idea ipotetica fosse conflittuale con il permanere in vita, il rappresentante legale avrebbe il diritto di interrompere l’idratazione e l’alimentazione. Con questa interpretazione, mentre la legge e la Costituzione dicono che la decisione sulla protrazione delle cure è oggetto di un diritto personalissimo, la Cassazione proclama che il suo esercizio è trasferito al rappresentante. Tutto ciò in adesione al principio dell’autodeterminazione di un soggetto impedito assolutamente a pronunciarsi e a interloquire dialogicamente con il suo rappresentante legale.


La Corte di Appello di Milano, I Sezione Civile, con il decreto 25 giugno – 9 luglio, accogliendo il reclamo, ha autorizzato il rappresentante a interrompere il trattamento di sostegno vitale artificiale di Eluana Englaro. Il giudice di merito, ricostruendo il senso della vita della donna, è andato, se possibile, ancora al di là delle stesse indicazioni della Corte Suprema, lasciando chiaramente intendere quali potranno essere gli sviluppi in senso eutanasico della frattura aperta dalla Corte di Cassazione.

Occorre, sia pure brevemente, svolgere alcune considerazioni critiche sul decreto in oggetto. Anzitutto, i giudici milanesi confermano che il compito loro demandato dalla Suprema Corte non consisteva nell’accertare una sorta di volontà effettuale della disabile, bensì nell’accertare se la sua visione della vita le avrebbe consentito di accettare di vivere la vita di deprivazione sensoriale che caratterizza lo stato vegetativo. Ora, tutti gli uomini e le donne si troverebbero in crisi davanti alla propria rappresentazione futura come soggetti completamente deprivati di coscienza. La visione della vita di ciascuno, soprattutto nella gioventù, è orientata al pieno dispiegamento delle proprie potenzialità. Domandarsi se la visione della vita di Eluana fosse compatibile con la visione di se stessa deprivata di coscienza è cosa manifestamente assurda.

Le suggestioni indotte dalla Corte sul contrasto tra il desiderio di libertà e di realizzazione di sé che animavano la gioventù di Eluana e la condizione dello stato vegetativo sono perciò fuorvianti. Il problema non consisteva nel valorizzare lo spirito di apertura verso il mondo di Eluana, bensì di accertare se, posta di fronte all’alternativa concreta di rinunciare all’assistenza per il caso di deprivazione sensoriale, ella avrebbe dilatato la sua apertura mentale fino al punto di accettare l’assistenza, ovvero di morire. Lo scrutinio affidato al giudici di merito cela in realtà un giudizio sul ‘best interest’ critico della persona. Un ‘best interest’ ricavato, cioè, non da ciò che la persona realmente vuole per sé nel caso drammatico della caduta nella malattia, bensì dalle sue idee sulle condizioni necessarie affinché la qualità della vita sia fruibile con soddisfazione.

L’idea del ‘best interest’ come criterio dirimente per le scelte di fine vita nei riguardi dei malati mentali è stata da moltissimi anni argomentata in prospettiva eutanasica da Ronald Dworkin nel suo libro Life’s Dominion. Egli si domanda, con riferimento a un malato di Alzheimer, se occorre tener conto del suo attuale ‘best interest’ come demente, ovvero del suo ‘best interest’ come persona che è divenuta demente, alla luce dell’intero corso della sua vita. Per Dworkin il ‘best interest’ di cui occorre tener conto è quello della persona sana, anche se egli, come demente, manifesta il desiderio di continuare a vivere. Ciò per rispetto alla sua autonomia, perché quando è divenuto malato non è più capace di autonomia. Se si rispettassero i suoi desideri attuali, noi violeremmo la sua autonomia nell’integrità come persona.

Le conseguenze di questa tesi sono agghiaccianti. Si tratta per esempio di uccidere una donna che sta conducendo una vita serena, ma è demente e non manifesta alcun desiderio di essere uccisa. Se noi non la uccidessimo, allora violeremmo la sua autonomia. Tra gli interessi sperimentali della persona demente e gli interessi critici posseduti in antecedenza bisognerebbe privilegiare questi ultimi, uccidendo il soggetto demente perché, quando era lucido, non avrebbe desiderato vivere così.

Il caso della persona demente, presentato da Dworkin, è perfettamente sovrapponibile a quello di Eluana Englaro. Chi dichiara il ‘best interest’ della persona demente o della persona in stato vegetativo? Le autorità tutorie nominate dal giudice che hanno il dovere di curare ed assistere il soggetto gravemente minorato? E in forza di quale diritto? E il ‘best interest’ critico, diverso da quello esperienziale, di milioni di uomini e di donne poveri, non adusi a distinguere tra il ‘best interest’ dell’esperienza comune e il ‘best interest’ critico, chi lo dichiara? Lo Stato, la struttura sanitaria o chi altri per loro? Il ‘best interest’ di milioni di uomini e donne, procedendo su questa strada, sarà per essere deciso in forza non dell’autodeterminazione del soggetto candidato alla morte, bensì dalla determinazione eteronoma formulata in base al criterio della qualità della vita.

La seconda considerazione ricavabile dal decreto milanese ha una portata generale. Ho osservato in precedenza che la decisione in oggetto preannuncia gli sviluppi futuri della deriva eutanasica. La Corte si domanda infatti se sussistano dubbi plausibili di legittimità costituzionale del principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte. Il dubbio, ovviamente prospettato soltanto in astratto, concernerebbe – secondo i giudici di merito – il “disparitario trattamento in danno del malato incapace (rispetto a quello pienamente capace e cosciente), in violazione dell’art. 3 della Costituzione” a cagione delle condizioni limitative poste dalla Suprema Corte all’esercizio del diritto da parte del tutore. All’esito del ragionamento la Corte milanese asserisce infatti che la legittimità della richiesta del tutore volta all’interruzione del trattamento di sostegno vitale non potrebbe essere esclusa “neppure nei casi in cui sia di fatto impossibile ricostruire una volontà presunta dell’incapace orientata al rifiuto del trattamento…rispetto alla quale potrebbe in effetti apparire ingiustamente sfornito di tutela il diritto alla dignità individuale del malato incapace...”.

Con ciò la Corte di Appello milanese apre uno scenario nuovo – la cui esposizione non era certamente necessitata dalla soluzione del caso dedotto in giudizio – volto a estendere la possibilità che una richiesta di rinuncia al trattamento dell’incapace sia esperita anche nel caso in cui non sia possibile ricostruire l’orientamento critico del paziente precedente alla malattia. L’esigenza di aprire questo scenario è ricollegata dai giudici al principio di uguaglianza, per non privare del diritto a morire il paziente incapace di cui non sia possibile accertare l’orientamento precedente alla caduta nella malattia.

La disamina compiuta consente di comprendere per quali motivi la vicenda giudiziaria che ha riguardato Eluana Englaro costituisca una sorta di discrimine tra due concezioni del diritto: l’una, tradizionale, secondo cui il compito del diritto e di coloro che operano nel suo solco, ivi compresi i tutori e i giudici, è di tutelare la vita alla luce dei principi di beneficità, autonomia e giustizia e delle buone prassi cliniche, che, evitando ogni trattamento futile, sono dirette ad assisterlo fino alla morte naturale in modo conforme alla dignità della persona; l’altra concezione si è affacciata anche in Italia e sta rischiando di estendersi a seguito della curvatura eutanasica della legge sul consenso informato del dicembre 2017 e dell’ordinanza della Corte Costituzionale dell’ottobre-novembre 2018. Per tale seconda concezione la vita è oggetto di un diritto che deve essere bilanciato con l’autodeterminazione del paziente e con il suo ‘best interest’, allorché questi non è in grado di pronunciarsi sulla protrazione delle cure, pure utili e proporzionate, che la comunità medica gli sta praticando per evitarne o alleviarne la sofferenza. La relativizzazione del diritto alla vita costituisce una minaccia per la pace e la tranquillità dell’ordine sociale.

prof. Mauro Ronco

[1] A. Pessina, Eutanasia. Della morte e di altre cose, Siena, 2007, 41.


LICENZA DI UCCIDERE


Come abbiamo spesso sentito dai media, negli Stati Uniti, da molti anni, è in corso una battaglia politica e giudiziaria sulla pena di morte, prevista nella maggioranza degli Stati. La Corte Suprema degli Stati Uniti è più volte intervenuta non solo sulla conformità della pena capitale alla Costituzione americana, ma anche sui metodi da utilizzare per le esecuzioni, tenuto conto del divieto di infliggere “pene crudeli ed inusuali”. Dopo aver negato nel 1878 che la fucilazione fosse una pena crudele e nel 1890 che anche la sedia elettrica lo fosse, la Corte Suprema si è occupata nelle sentenze Baze v. Rees del 2008 e Glossip v. Gross del 2015 del metodo “scientifico” che ha preso piede, quello dell’iniezione letale, in entrambi i casi confermandone la liceità: la posizione è stata ribadita anche quando la sostanza che viene iniettata per prima, il pentotal, un potente barbiturico ad effetto rapido che induce nel condannato un profondo stato di incoscienza simile al coma affinché questi non soffra, è divenuto difficile da reperire ed è stato sostituito dal midazolam, un agente sedativo appartenente alla famiglia delle benzodiazepine, che dovrebbe avere il medesimo effetto ma che, in certe esecuzioni, è risultato inefficace.

La Corte Suprema, pur consapevole della incertezza sull’efficacia del midazolam, ha ribadito che il suo uso è legittimo perché la pena di morte è prevista dalla Costituzione americana; e, in un passaggio, ha osservato: “poiché un certo rischio di dolore è connaturato ad ogni metodo di esecuzione, abbiamo ritenuto che la Costituzione non richieda che qualunque rischio di sofferenza debba essere eliminato”.

Pochi giorni fa, la Corte Suprema, ancora una volta, ha risposto al ricorso del condannato Russel Bucklew che la Costituzione “non garantisce una morte indolore ad un detenuto”.
Mi chiedo se la Corte Costituzionale italiana abbia tenuto conto di queste controversie sul metodo più rapido ed indolore per determinare la morte di un uomo quando, nell’ordinanza n. 207 del 2018, ha osservato che “la legislazione oggi in vigore non consente al medico che ne sia richiesto di mettere a disposizione del paziente (…) trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte. In tal modo, si costringe il paziente a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care”.

La Corte ha suggerito – o forse, meglio: intimato – al Parlamento di adottare “una disciplina delle condizioni di attuazione della decisione di taluni pazienti di liberarsi delle proprie sofferenze non solo attraverso una sedazione profonda continua e correlativo rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale, ma anche attraverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte”, ribadendo anche successivamente il suo favore per “l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente”.

Un dubbio: il legislatore dovrà indicare il farmaco più adatto per provocare una morte rapida ed indolore o dovrà farlo un decreto ministeriale? E, nella scelta di tale farmaco, dovranno essere approfonditi i tentativi e le ricerche scientifiche svolte negli Stati Uniti per giungere ad una pena capitale che non sia “crudele”? Del resto, quelli che vengono somministrati ai condannati a morte sono, appunto, farmaci: il pentotal veniva prodotto anche in Italia, mentre in Europa sono prodotti da imprese farmaceutiche altri barbiturici utilizzati nelle esecuzioni capitali (in particolare il pentobarbital viene usato per il suicidio assistito ma è stato usato anche per l’esecuzione di condanne a morte). Sappiamo che la parola « farmaco » ha la sua radice etimologica nel termine greco ϕάρμακον, traducibile come « rimedio » ma anche come « veleno ».

In realtà, uno dei problemi che si presentano nell’esecuzione della pena capitale è l’assenza di medici che, per motivi deontologici, nella quasi totalità dei casi non prendono parte alle esecuzioni: un problema che, come vedremo subito, nell’ipotesi prevista dalla Corte Costituzionale non si pone.
Vediamo, allora, le caratteristiche di questa nuova disciplina che il legislatore dovrebbe introdurre, secondo quanto intima la Corte Costituzionale.

In primo luogo, ad uccidere il paziente dovrebbe essere un medico: la Corte, infatti, rappresenta il rischio che “in assenza di una specifica disciplina della materia, qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino”: non sia mai! Si deve fare “in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della «relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico»”!

In secondo luogo, la somministrazione della morte rapida e indolore deve giungere dopo una “procedura”: il legislatore dovrà configurarla prevedendo “le modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, la disciplina del relativo ‘processo medicalizzato’, l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale”; ancora, nella procedura dovrà essere previsto “il coinvolgimento in un percorso di cure palliative, che dovrebbe costituire un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente”.

Infine, la somministrazione della morte rapida e indolore, al termine di questa procedura, dovrà essere garantita dallo Stato: abbiamo già visto il riferimento alla somministrazione dei trattamenti da parte del servizio sanitario nazionale; ma, subito dopo, la Corte Costituzionale fa un fugace riferimento alla “possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura”. Si potrebbe osservare: bene! Almeno questo … ma se si prevede la possibilità dell’obiezione di coscienza rispetto ad una pratica sanitaria significa che questa pratica è obbligatoria per il medico (salvo, appunto, che sollevi obiezione di coscienza) e garantita dallo Stato. Pensiamo alla legge 194 sull’aborto: è prevista l’obiezione di coscienza per i medici che non vogliono praticare aborti ma nell’ambito di un obbligo generalizzato: e infatti, dice l’art. 9, “gli enti ospedalieri e le case di cura sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza” e la Regione ne deve controllare e garantire l’attuazione.
Quando mi è stato chiesto dal Comitato Verità e Vita di scrivere un libro a commento della legge 219 del 2017 sul consenso informato, DAT e dintorni, mi è venuto in mente questo titolo un po’ provocatorio, che echeggia il famoso film “007 Licenza di uccidere” in cui Sean Connery combatte il Dottor No, avendo, appunto, licenza di uccidere in nome della Regina.

Non pensavo sinceramente che, prima ancora che il libro fosse pubblicato, sarei stato superato dalla Corte Costituzionale: in effetti, il titolo giusto ora potrebbe essere “Dovere di uccidere” (ma esistono già un giallo di un famoso giallista svedese e un saggio di Vittorio Strada con questo titolo): la Corte afferma che, in certi casi, lo Stato ha l’obbligo, con i medici del Servizio sanitario nazionale, di somministrare un farmaco rapido e indolore per provocare la morte di una persona; e che i medici, a loro volta, saranno obbligati a farlo, a meno che non venga loro riconosciuto dal legislatore l’obiezione di coscienza (ipotesi, per la verità, assai incerta alla luce della mancata previsione dell’istituto sia nella legge sulle unioni civili che, appunto, nella legge 219 del 2017).

Questo principio di rango costituzionale – l’obbligo dello Stato di uccidere alcune persone –, mai affermato in precedenza (anzi: la Costituzione è stata modificata per impedire in ogni caso la pena di morte), trova la sua fonte nella legge 219, come la Corte indica espressamente: infatti, l’ordinanza prima afferma la legittimità – anzi: la doverosità – del divieto penale dell’aiuto al suicidio (con argomentazioni che affronteremo in seguito), e poi, con una virata a 180 gradi, contempla un’eccezione.

La Corte dice: “la decisione di lasciarsi morire potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua. Ciò, segnatamente in forza della recente legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento): legge che si autodichiara finalizzata alla tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona, nel rispetto dei principi di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost. e degli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 1, comma 1)”. Nel prosieguo del provvedimento le diverse previsioni della legge 219 vengono più volte richiamate.

Notate: la Corte usa un termine strano – la legge si “autodichiara” finalizzata alla tutela di vita, dignità e autodeterminazione – ma si guarda bene da verificare se a questa autodichiarazione del legislatore corrisponda davvero la tutela proclamata; del resto, non è un atteggiamento nuovo: anche la legge 194 proclama “la tutela della vita umana dal suo inizio”, ma la Corte si è sempre rifiutata di verificare se l’aborto libero, gratuito ed assistito fosse compatibile con questo proclama …
Ovviamente si può replicare: l’obbligo di uccidere è previsto nei confronti di coloro che l’hanno chiesto e, per di più, soltanto se si trovano in determinate condizioni molto gravi; in effetti, l’ordinanza della Corte Costituzionale lo limita “alle ipotesi in cui il soggetto si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”; soggetto che eserciterebbe, dice la Corte, la propria “libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.”; quindi, al dovere di uccidere da parte dello Stato corrisponde il diritto di essere ucciso da parte del malato; in poche parole: il diritto di morire e non il dovere di morire.

Ecco: la legge 219 è fondata su queste due illusioni: che il contenuto delle norme riguardi il trattamento delle persone vicine alla morte, dei malati gravi e inguaribili che soffrono dolori insopportabili e che la scelta del legislatore sia stata quella di riconoscere – finalmente! – un nuovo diritto: quello di morire serenamente senza soffrire e di rifiutare liberamente terapie inutili, anche per il futuro, con il testamento biologico; cosicché, negli incontri in cui spiego il contenuto della legge mi accorgo che le persone che ascoltano si aspettano di sentire parlare di qualcosa che non li riguarda direttamente, almeno per il momento.

Il mio tentativo è di svelare che si tratta, appunto, di illusioni, partendo dalla consapevolezza che il diritto a rifiutare le terapie salvavita e ad ottenere un “suicidio medicalmente assistito” si accompagna sempre – e inevitabilmente – all’uccisione delle persone che non l’hanno chiesto, senza o contro la loro volontà.

Chi si illude che gli venga riconosciuto il “diritto di morire”, non si accorge che la spinta sociale, filosofica e normativa è verso il “dovere di morire” di alcune categorie di persone; soprattutto, non si accorge che al legislatore che ha introdotto il diritto al suicidio medicalmente assistito (immediato o per il futuro, tramite testamento biologico) interessa soltanto l’eutanasia non consensuale di determinati soggetti: il riconoscimento della piena autodeterminazione sulla propria vita è lo strumento per introdurre e legalizzare il fenomeno esattamente opposto, la piena eterodeterminazione sulla vita altrui.

Insomma, al legislatore (non solo in Italia: in tutto il mondo, pensiamo soltanto alla Gran Bretagna e alla Francia) non interessa affatto come muoiano Piergiorgio Welby o Fabiano Antoniani (DJ Fabo); al Parlamento interessava che vengano uccisi i soggetti in stato vegetativo, i neonati con disabilità, i bambini gravemente malati, gli anziani in stato di demenza o poveri, i malati cronici …

Quindi la legge riguarda tutti, perché tutti, prima o poi, ci ammaliamo o diventiamo disabili, invecchiamo e ci avviciniamo al termine della vita.
Facciamo, allora, qualche approfondimento pratico – l’analisi è di carattere pratico: il tentativo è di capire come funziona davvero la legge – sul contenuto della legge.

Partiamo dalle DAT, le Disposizioni anticipate di trattamento, quelle con le quali, dice l’art. 4, “ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di una eventuale futura incapacità di autodeterminarsi (…) può (…) esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso e il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari”. Il famoso “testamento biologico” che, si dice, finalmente è stato riconosciuto a ciascuno di noi.

Proviamo a confrontare questo istituto con i principi del “consenso libero e informato” e della “relazione di cura e fiducia tra paziente e medico” proclamati dall’art. 1 (art. 1 legge 219: “La presente legge (…) stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata (…). E’ promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato …”).

L’informazione.

La legge prevede che le DAT siano redatte “dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte” (art. 4 comma 1): come si verifica questa circostanza?

E’ molto semplice: non si verifica affatto. Le DAT si possono presentare all’Ufficio di Stato civile del Comune di residenza, quindi ad un impiegato amministrativo il quale – lo dice una circolare del Ministero dell’Interno – deve “limitarsi a verificare i presupposti della consegna, con particolare riguardo all’identità ed alla residenza del consegnante nel Comune – e a riceverla”; pensate che, in un parere reso al Ministro della Salute, il Consiglio di Stato afferma espressamente che l’esistenza delle informazioni di carattere medico nonincide sulla validità dell’atto, ritenendo opportuno che venga autocertificata.

Ancora: teniamo conto che la DAT può essere redatta su un modulo precompilato (ce ne sono molti in giro, alcuni si rinvengono nei siti web dei Comuni), facendo una crocetta sulle opzioni scelte. Con questo gesto – che richiederà qualche minuto – una persona stabilisce che, in un futuro incerto, la sua vita potrebbe essere fatta cessare in anticipo perché certe terapie salvavita non gli saranno erogate.
Faccio una riflessione. Mi pare evidente che, anche se una persona, prima di sottoscrivere una DAT, avesse acquisito una grande quantità di informazioni di carattere sanitario, essa non sarebbe affatto “informata” (e quindi non avrebbe prestato un rifiuto informato), perché non avrebbe la percezione del dolore e della malattia che ipotizza possa colpirla e in quanto la disposizione dettata nel documento non inciderebbe immediatamente dopo sulla prosecuzione della sua vita.

In altre parole: è fin troppo facile affermare di “non voler vivere in determinate condizioni” (è il ragionamento suggestivo con cui veniamo sollecitati a sottoscrivere le DAT: “non vorrai mica restare attaccato ad un macchinario?”), se queste condizioni non si conoscono e se, nel momento di cui l’affermazione viene enunciata (e il documento sottoscritto), gli effetti della mancata erogazione della terapia salvavita o del sostegno vitale – cioè, la morte, spesso rapida – sono “lontani” e ipotetici.

In realtà, non sorprende affatto che il legislatore abbia fatto in modo che le DAT siano redatte da persone non adeguatamente informate e che, quindi, non sono in grado di esprimere un giudizio effettivo sulla condizione in cui potrebbero trovarsi: quel giudizio lo ha già fatto per noi il Parlamento; ha già deciso che le terapie nei confronti di soggetti in stato vegetativo o gravemente malati in stato di incoscienza o di anziani in stato di demenza sono “futili” (per usare l’espressione adottata dal giudice inglese per le terapie nei confronti di Alfie Evans), “un’ostinazione irragionevole” (così il Tribunale amministrativo per Vincent Lambert): le DAT sono un “via libera” ad una valutazione già presa.
Parliamo allora della libertà (“un consenso libero e informato”): come farà l’impiegato dello Stato civile del Comune a capire se quella persona anziana, accompagnata da parenti o, ad esempio, dai responsabili della casa di riposo in cui vive, è davvero libero di presentare la Disposizione anticipata di trattamento? Non può capirlo, anzi, deve disinteressarsene. E siamo davvero sicuri che certe persone avranno compreso di avere firmato una DAT?

L’autodeterminazione della persona – uno dei principi fondamentali della legge – è un requisito formale o sostanziale?

Il depresso che chiede di essere ucciso (come è recentemente avvenuto per una giovane insegnante siciliana, aiutata a suicidarsi in Svizzera dalla stessa associazione che aveva aiutato anche Fabiano Antoniani) deve essere rispettato nella sua autodeterminazione, è veramente libero o è meglio che venga curato nella sua depressione e non ascoltato nella sua richiesta di morire?

Pensate che in un libro di stampo femminista ho trovato voci contrarie ad una legislazione che autorizzi il suicidio assistito e l’eutanasia perché rischiano di penalizzare le donne, proprio sotto il profilo della libertà di scelta: esse, dice l’Autrice, rischiano di essere influenzate dall’ “equazione morale tra bontà e sacrificio di sé”, tipico della femminilità. In parole povere, le donne anziane potrebbero convincersi che la loro morte sia un sacrificio doveroso a favore di altri.
E veniamo alla relazione di cura e fiducia tra paziente e medico.

Le DAT funzionano così: giunge un paziente in stato di incoscienza e che necessita di interventi salvavita (non necessariamente in stato di urgenza: la legge fa riferimento alla “incapacità di autodeterminarsi”), viene assegnato a un medico o a più medici che non lo conoscono, risulta la sottoscrizione di una DAT in cui si rifiuta ogni trattamento salvavita (non ci nascondiamo dietro ad un dito: il contenuto della DAT è questo, e solo questo) e i medici, senza conoscerlo, senza sapere in quali condizioni il documento era stato presentato, se il soggetto era informato o, all’epoca, era depresso o aveva dei problemi, sono obbligati a non prestare le terapie salvavita e a lasciar morire il paziente, anche se hanno a disposizione strumenti e terapie che potrebbero salvarlo e farlo guarire.

Si, obbligati: la legge dice che “il medico è tenuto al rispetto delle DAT”; e pensate che, all’art. 1, la legge proclama che sono rispettate “la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico”! Comprendiamo bene dove sono finite la competenza e l’autonomia professionale!

E se il medico vuole fare il suo lavoro secondo scienza e coscienza? Egli può – non deve, può – disattendere le DAT, ma solo se raggiunge un accordo con il fiduciario; e se non c’è accordo deve rivolgersi ad un giudice e lo deve convincere che esistono “terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita del paziente”.

Il fatto è che, se il medico lascia morire il paziente “è esente da responsabilità civile e penale”; se, invece, vuole fare bene il suo lavoro, non solo deve rivolgersi al giudice in contraddittorio con il fiduciario e, ovviamente, vedersela con la Direzione del suo ospedale (che certamente non ama le controversie giudiziarie), ma non ha più alcun “paracadute legale”.

Se lasci morire il paziente, sei al sicuro; se cerchi di curarlo, rischi spese legali, provvedimenti disciplinari, richieste di risarcimento danni…
Concludo sulle DAT tornando sul tema della libertà: se ogni persona può redigere una DAT anche se si trova in ottimo stato di salute, può anche revocarla se ha cambiato idea; e se questo avvenisse in una situazione di urgenza? Se, ad esempio dopo un incidente stradale che le ha provocato gravi ferite, la persona si rendesse conto, prima di perdere conoscenza (magari perché sottoposto ad un intervento di urgenza) che il quadro è cambiato? Che l’unica cosa importante è salvare la propria vita e tornare alla sua famiglia e che per ottenere questo è disposto a tutto e vuole tutte le terapie possibili?

La legge, premurosamente, prevede il caso: “Nei casi in cui ragioni di emergenza e urgenza impedissero di procedere alla revoca delle DAT con le forme previste dai periodi precedenti, queste possono essere revocate con dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, con l’assistenza di due testimoni“. Ecco la rappresentazione plastica del soggetto “ingabbiato” dalle DAT! In quella situazione drammatica, se non c’è un medico e due testimoni (quindi tre persone contemporaneamente presenti sul posto), quello che ha scritto anni prima – magari in una situazione di totale inconsapevolezza – prevarrà ed egli sarà lasciato morire, senza che il medico rischi alcuna conseguenza civile e penale.

Scherzando (ma non troppo) do spesso questo consiglio: se avete firmato una DAT, quando viaggiate in auto portate sempre con voi un medico e due testimoni…
Esaminando le DAT abbiamo compreso, quindi, quanto davvero conti per il legislatore l’esistenza di un “rifiuto libero e informato” a tutte le terapie: e, in effetti, anche per quanto riguarda il rifiuto attuale da parte del paziente maggiorenne restano tutti i dubbi che abbiamo già evidenziato.

E’ la stessa Corte Costituzionale – in questa ordinanza schizofrenica di cui abbiamo parlato – a rappresentare i rischi di legalizzare l’aiuto al suicidio, anche per motivi di carattere medico.

Leggiamo: “L’incriminazione dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio è funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere”.

Vedete? La libertà di decidere per la propria morte potrebbe essere vanificata da “interferenze di ogni genere”.

E ancora: “Il divieto (di aiuto al suicidio) conserva una propria evidente ragion d’essere anche, se non soprattutto, nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto. Al legislatore penale non può ritenersi inibito, dunque, vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite”.

Vedete? Le “interferenze” possono derivare anche da interessi di chi vuole indurre al suicidio e colpisco le persone psicologicamente fragili, depresse, anziane, in solitudine … insomma tutte quelle che la nostra società inizia a considerare inutili, improduttive, costose per tutti, pesanti da sopportare.

L’autonomia individuale, dice la Corte, non può essere considerata in maniera astratta, ma nel concreto!

Ma la Corte, benché consapevole di questi rischi, sollecita il legislatore ad ampliare le maglie della legge 219, anche se esplicitamente teme “scenari gravidi di pericoli per la vita di persone in situazione di vulnerabilità” ed uccisioni di soggetti “senza alcun controllo ex ante sull’effettiva sussistenza della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e dell’irreversibilità della patologia da cui sono affetti”!

Occorre davvero aggiungere altro? La legge 219 considera vincolante qualunque rifiuto di terapia, anche il più irragionevole (“il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo”) e non tutela in alcun modo i soggetti fragili dalle interferenze: in nessun modo, è solo previsto un colloquio in più con il medico, nient’altro.
Ma la reale volontà del legislatore si comprende alla luce della regolamentazione per i minori e gli incapaci (articolo 3 della legge): saranno i genitori del minore, il tutore dell’interdetto o l’amministratore di sostegno del soggetto assistito a poter rifiutare ogni trattamento sanitario, anche salvavita, così da poter provocarne la morte.

Potrebbe sembrare una questione secondaria: ma non dobbiamo dimenticare che ad essere colpiti dall’odio profondo verso la vita umana che pervade la società sono innanzitutto e primariamente i soggetti “deboli” ed “imperfetti”; essi – nella maggior parte dei casi – sono minori di età oppure possono essere interdetti o sottoposti ad amministrazione di sostegno: quindi neonati o bambini in tenera (o meno tenera) età, persone prive di capacità di comprensione o incapaci di manifestare la propria volontà, come i soggetti che si trovano in stato vegetativo persistente, o affette da deficit intellettivo, anziani in stato di demenza progressiva, malati cronici giunti ad uno stadio avanzato della malattia.

Queste persone sono considerate inutili per la società perché non producono, né produrranno mai ricchezza; sono viste come un costo che pesa sui conti pubblici e sui patrimoni familiari; la loro assistenza è gravosa, sia dal punto di vista economico che psicologico; esse danno scandalo, perché dimostrano che la vita esiste e ha un valore e una dignità anche quando è segnata dall’handicap, dalla malattia anche grave, dalla demenza e che addirittura può essere felice in queste condizioni (vi ricordate? Il Giudice inglese che dette il via libera all’uccisione di Alfie Evans non si nascose di aver trovato una famiglia felice).

Nell’ideologia che propugna l’eutanasia queste persone “devono” morire, hanno il “dovere di morire”. Quindi, se non scelgono di farsi uccidere – perché non sono in grado di esprimersi o di manifestare una volontà valida – devono essere eliminate ugualmente sulla base della decisione di altre persone: quindi senza il loro consenso o addirittura contro il loro consenso, esplicito o implicito.

Nel mondo la grande maggioranza delle uccisioni di questi soggetti vengono decise così: come l’aborto è l’uccisione di un uomo che disperatamente vuole continuare a crescere, così – in Italia e nel resto del mondo – i casi come quello di Eluana Englaro si moltiplicano, dimostrando la volontà di uccidere persone che non hanno mai chiesto di morire, attribuendo ad altri – per esempio ad un tutore – il potere di ordinarne la morte sulla base dei criteri di “qualità della vita” propri di chi decide.

Ecco perché l’articolo 3 è il nucleo di questa legge: permetterà che si ripeta un “caso Englaro” senza alcuna necessità di una pronuncia giurisdizionale; permetterà di applicare il Protocollo di Groningen sui neonati disabili e prematuri e rendere effettivo l’aborto post-natale teorizzato da Giubilini e Minerva (e, come purtroppo abbiamo visto, concretamente attuato in alcuni Stati americani); costituisce un rischio per tutti gli adulti, soprattutto se anziani, che si trovino in stato di incoscienza o di demenza e che, quindi, potranno essere sottoposti ad interdizione o ad amministrazione di sostegno (che potrebbero essere richieste proprio con questa finalità): i tutori e gli amministratori di sostegno potranno negare il consenso a nuove terapie od interventi da eseguire quando il paziente non è più in stato di coscienza o non è in grado di manifestare la propria volontà, o revocare il consenso a terapie in corso; ma potranno già prima non autorizzare interventi diagnostici per la ricerca di patologie. Le loro disposizioni saranno vincolanti per le strutture che dovranno garantire “la piena e corretta attuazione dei principi della legge” (art. 1, comma 9).
Ecco l’eutanasia non consensuale già legalizzata, alla quale la Corte Costituzionale vuole dare il proprio contributo: visto che devono morire, perché aspettare facendogli soffrire? Meglio “la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte”! Una soluzione rapida e pulita …

Abbiamo già visto che l’ordinanza vorrebbe delimitare questa pratica ad ipotesi limitatissime: il fatto è che i quattro requisiti indicati dalla Corte per dar corso all’uccisione diretta del paziente sono palesemente fragili, assomigliano ai famosi “paletti” di un’altra legge (la legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita) che, come sappiamo, sono caduti uno ad uno.

Abbiamo già parlato della necessità che la persona sia “capace di prendere decisioni libere e consapevoli”, verificando che la legge 219, su cui la Corte si appoggia, non lo garantisce affatto; vediamo gli altri tre requisiti.

“Patologia irreversibile”: quanto deve essere grave? E perché deve essere irreversibile, se il diritto a rifiutare le terapia salvavita e le forme di sostegno vitale è riconosciuto anche a coloro che hanno patologie curabili?

“Sofferenze fisiche o psicologiche, che (il paziente) trova assolutamente intollerabili”: notiamo il riferimento alle sofferenze “psicologiche” e l’indicazione di un criterio esclusivamente soggettivo per determinare l’intollerabilità delle sofferenze; potranno essere considerate intollerabili anche sofferenze oggettivamente modeste?

Infine, la persona deve essere “tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale”: ma la Corte non tiene presente che la legge 219 del 2017 equipara le forme di sostegno vitale (nutrizione e idratazione) alle terapie e che la respirazione artificiale, da tempo (fin dal caso Welby), è considerata trattamento terapeutico, come tale rinunciabile; e allora, perché riconoscere il diritto di farsi uccidere soltanto a chi dipende da forme di sostegno vitale e non a chi è mantenuto in vita da terapie salvavita?

In definitiva, non è difficile prevedere che – se il Parlamento, invece di abrogare la legge 219, come dovrebbe doverosamente fare, darà corso all’intimazione della Corte Costituzionale – assisteremo ad uccisioni dirette di molti soggetti “fornite” dal Servizio sanitario nazionale.

All’inizio vi ho provocato con la pena di morte negli Stati Uniti: mi chiedo se l’accostamento fosse davvero improprio.
Questo è il risultato – di cui oggi ho accennato ad alcuni punti – di un lavoro del Parlamento iniziato, di fatto, con l’uccisione di Eluana Englaro e con l’auspicio solenne anche dai vertici della Conferenza Episcopale perché “si varasse una legge sul fine vita che riconoscesse valore legale a dichiarazioni inequivocabili e desse tutte le garanzie sulla presa in carico dell’ammalato e sul suo rapporto fiduciario con il medico”.

Il Comitato Verità e Vita si è sempre pubblicamente opposto all’approvazione di qualunque legge sul “fine vita”, segnalando il rischio che introducesse in maniera surrettizia l’eutanasia; una posizione coerente con la denuncia per omicidio volontario che il Comitato presentò al Procuratore di Udine.

Certo: all’epoca non si prevedeva che la legge avrebbe avuto un contenuto così netto, duro, senza vie d’uscita come è la legge 219 e come dimostra l’utilizzo che ne ha fatto la Corte Costituzionale; ma ogni breccia aperta su un principio non negoziabile come il diritto alla vita si trasforma inevitabilmente in uno squarcio in cui la logica di morte, così forte nella nostra società – e contro la quale andremo ora a marciare per la Vita – si insinua e ottiene il risultato cercato.
Questa logica si coglie bene da un particolare, con cui concludo.

Parliamo della “dignità”, una parola che era già presente nel primo disegno di legge sull’eutanasia, presentato nel 1984 dall’on. Loris Fortuna.

L’art. 1, comma 1 della legge 219 recita: “La presente legge, nel rispetto dei principi dei cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona“.

Inizialmente il testo prevedeva: “la presente legge … tutela la vita e la salute dell’individuo“; l’Assemblea ha trasformato la “tutela della vita e della salute” in “tutela del diritto alla vita e del diritto alla salute” e ha affiancato a tali diritti anche quelli “alla dignità e all’autodeterminazione”.

Non è una modifica banale: si stabilisce che la vita umana non è più tutelata direttamente, come un bene di valore incommensurabile, ma è considerata oggetto di un diritto, come tale bilanciabile con altri diritti, e soccombente in alcuni casi; un diritto che può essere oggetto di rinuncia da parte del titolare.

Soprattutto, è significativo l’affiancamento della “dignità” alla “vita”: il legislatore non considera più la dignità una caratteristica intrinseca della vita umana perché, appunto, “tira fuori”, estrae la dignità dalla vita.

La visione antropologica è evidente: il Parlamento rifiuta la visione secondo cui l’uomo non ha dignità, ma la dignità è il valore e la preziosità che l’uomo è, e adotta invece quella secondo cui la dignità è attribuita ad un essere umano da altri uomini, è conferita a chi la “merita” sulla base di determinate caratteristiche dell’uomo o delle sue capacità o delle sue azioni: quindi può essere negata.

Ecco: in nome della dignità propria di ogni essere umano, in qualunque condizione si trovi, dobbiamo combattere contro questa cultura di morte e contro le leggi, come la legge 219, che, selezionando i meritevoli e coloro che non lo sono, permette, anzi promuove o meglio: sollecita l’uccisione di coloro la cui qualità di vita “è povera e senza senso”, trasformando i medici, da nostri alleati e custodi della vita, in esecutori specializzati a dare la morte.

Giacomo Rocchi

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